6. La vita che loro ci devono | IL GRANDE ROGO DEL ’25

6. La vita che loro ci devono | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Il relatore sul palco dell’auditorium era molto noto tra i corridoi della Woland Corporation poiché aveva isolato il grappolo di utenti che, seppur ascoltassero molta musica, rifiutavano di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma digitale Woland. Lo sciame identificato era restio ad abbandonare un preistorico portale, in cui chiunque poteva caricare registrazioni audio e video amatoriali low-fi. Video storti di canzoni mal arrangiate che facevano gracchiare il dispositivo di ricezione audio, interpretate da gente fuori statistica che si dimenava su palchetti improvvisati, in mezzo allo sporco, al sudore e ad un’euforia che non poteva essere misurata. Si faceva persino fatica a distinguere gli strumenti, così come era pressoché impossibile distinguere il pubblico dal gruppo che cercava di suonare, respingendo e accogliendo come in una danza, quel ribollire di lava umana e lapilli incandescenti di spruzzi di birra lanciata per aria. 

Ci si chiedeva cosa spingesse queste persone a un tale comportamento irrazionale. E lui aveva scorporato, destrutturato e ricostruito pezzo per pezzo ogni passaggio che portava al cosiddetto “abbandono del carrello”, ma nessuno dei dogmi dell’ingegneria inversa riuscì a spiegarlo.

«L’esperienza dell’utente che atterra sulla piattaforma è piacevole e senza ostacoli, i punti di contatto col potenziale utente hanno le giuste parole chiave ed sono ben piazzati, l’imbuto commerciale lubrificato a dovere eppure… eppure non siamo riusciti a sfondare le resistenze di questo blocco di utenti, identificati come ascoltatori di musica. Milioni di canzoni su richiesta, elenchi di riproduzione mutanti a seconda dello storico di navigazione e dell’umore dell’utente, artisti con trilioni di visualizzazioni la cui musica rispetta tutti i parametri richiesti dagli analisti e una qualità del suono cristallina, ma no… nessun abbonamento e accordo siglato che ci permetta di accedere ai loro impulsi neuronali, in cambio della garanzia di non dover scegliere cosa ascoltare e non doversi interrogare sui propri gusti musicali. Perché la piattaforma di musica digitale della Woland Corporation sceglie per te. E anticipa ogni tuo desiderio, interruzioni pubblicitarie comprese. Ma allora perché? Perché un grappolo di individui continua ad ascoltare quel rumore e guardare quei video bui e malfermi? Perché, alla perfezione calcolata della piattaforma, perseverano a farsi carico di dover scegliere e, infine, scelgono questa merda?» disse il relatore. Concludendo, ad arte, il suo intervento con una parolaccia, perché così gli aveva suggerito l’algoritmo per rendersi più informale, affabile e performante.   

Il nostro compito era capire ciò che nemmeno l’algoritmo aveva compreso, elaborare una tesi, impacchettarla a dovere e presentarla il giorno successivo. Il relatore ripose sul tavolo che lo divideva dal resto dell’auditorium, alcuni pacchetti avvolti in carta color tabacco.

«Quasi tutta la musica che il nostro target preferisce alla piattaforma Woland è stata prodotta nei quarant’anni che vanno dagli anni Ottanta del XX secolo e gli anni Venti del XXI. Anno in cui, a causa di una pandemia mondiale e del Grande Rogo Civile, sono stati interrotti e interdetti quegli spettacoli in cui la musica veniva suonata, in diretta, dagli stessi musicisti e in presenza di un pubblico reale. Il materiale che troverete ci è stato prestato dai Tutori della Serenità – che ai tempi si chiamava Esercito – ed è frutto dei sequestri e delle perquisizioni avvenute tra il 2020 e il 2025, quando ancora, gruppi clandestini si trovavano qua e là ad organizzare concerti illegali. Potete scegliere se procedere da soli o in squadra. Buon lavoro! La felicità se non è misurabile, non è» concluse il relatore, con il consueto segno di congedo.

Mi guardai attorno. Non conoscevo nessuno, o meglio, li conoscevo ma non avevo mai parlato davvero con nessuno dei presenti. Erano appartenuti tutti, fino a pochi giorni prima, ad una classe lavorativa superiore alla mia. Sentii una mano sulla mia spalla – chi poteva essere così stupido da stabilire un contatto fisico non consensuale sul luogo di lavoro? – mi girai di scatto e rimasi interdetta nel riconoscere Fausto, il mio superiore in grado.
«Per questo lavoro faremo squadra insieme» mi disse con una voce che non era la sua. 

Qualcosa non tornava. Fausto, il signor cronometro digitale a cui bisogna inserire nell’agenda elettronica anche l’invito a bere un caffè alle macchinette, mi stava chiedendo di fare squadra con lui e lo stava facendo in modo assai bislacco.
I suoi occhi erano fissi dentro i miei, l’espressione era quella di chi cerca di mettere a fuoco qualcosa che gli risulta familiare, la voce era di qualche tono più alta del solito, quasi strozzata, come se fosse in affanno nell’emettere quei suoni. Pronunciare quelle parole gli costava tutta la fatica che grava, di solito, sulla gola di chi sa che potrebbe ricevere un rifiuto. Sebbene l’intonazione non fosse quella di una domanda, perché a me pareva tale? Il mio capo mi stava forse chiedendo di poter lavorare insieme? E prendeva in considerazione il fatto che io avessi il diritto di non obbedire? Bizzarro! Un comportamento piuttosto atipico per quell’uomo preciso e fedele alla gerarchia, che non mi aveva mai sfiorato neanche con lo sguardo. E quella mano sulla spalla, poi! 
«Certo – risposi – coinvolgiamo anche qualcuno del reparto Ingegneria Inversa?» chiesi.
«No, solo io e te» rispose, dopo quell’attimo di esitazione, come lo stronzo che conoscevo bene. 
«Hai fatto un lavoro apprezzabile con quel tuo studio sul ritorno delle passioni, per quanto le argomentazioni risultino a tratti elementari e didascaliche. Ma per questo lavoro dobbiamo partire da alcune delle tue intuizioni che, devo ammettere, sono state davvero brillanti. Piccole scintille che non voglio vedere spente da quelle teste analitiche del reparto di Ingegneria Inversa. A furia di destrutturare ogni cosa, hanno perso persino la capacità di farsi un panino» gorgogliò in un unico borbottio senza prendere fiato, concludendo con una volgare risata.
«In verità credo di averli visti qualche volta mangiare dei sandwich in pausa pranzo» obiettai, ma lui non mi stava più ascoltando. 
«Proseguiremo il lavoro a casa mia. Sai dove abito? – mi chiese senza attendere la risposta – Recupera l’indirizzo e cerca di essere lì tra massimo un’ora» concluse. Si girò sulle suole di quelle scarpe che valevano tanti crediti quanto due dei miei stipendi, e prese la via da cui era arrivato e che io ignoravo. Non avevo la più pallida idea di dove potesse abitare quell’uomo? Aveva una vita fuori dalle mura del Grande Palazzo?
Recuperai il plico di materiale confiscato assegnatomi e mi avviai verso l’Ufficio Accoglienza, dove avrei potuto chiedere l’indirizzo di casa di Fausto. 

Il viaggio verso il piano terra del Grande Palazzo non fu vano: il mio nuovo grado all’interno della gerarchia della Woland mi permetteva di ottenere alcune informazioni personali sugli altri dipendenti. L’accesso ai dati sensibili di chi ci circonda è un privilegio accordato a chi, come me, aveva un titolo lavorativo composto da almeno quattro parole sintetizzate in un acronimo. Io ero passata da essere un A.C. (Analista Calcolatrice, due sole parole) ad essere una Fedele Osservatrice e Analista Demoscopica – ben quattro parole – riassunte altrimenti (e per comodità) nel termine F.O.A.D.
Soltanto gli A.A. (Addetti Accoglienza), nonostante le sole due lettere del titolo lavorativo, avevano accesso ai dati sensibili di chi, invece, aveva quattro o più parole a descrivere la propria mansione e posizione gerarchica all’interno della Woland Corporation. Tra le loro mansioni, dopotutto, vi era anche quella di chiamare taxi e concordare il costo in crediti per la tratta verso casa o prendere le telefonate di mogli e mariti, ritirare la corrispondenza e la domiciliazione dei beni di prima necessità, ricordare gli appuntamenti con medici e partner sessuali ecc. ecc. 

Un dirigente della Woland Corporation aveva proposto di sostituire gli A.A. con degli automi per digitalizzare la loro funzione, ma presto scoprimmo che questa tecnologia aveva un grande difetto: gli automi non sono in grado di mentire e, un buon ed efficiente A.A., deve padroneggiare l’arte della menzogna ogni qual volta un dipendente della Woland viene esonerato dall’attività lavorativa, cancellato dagli archivi anagrafici e amministrativi, eliminato da tutte le foto che lo collegano all’azienda (o ai suoi dipendenti) e a cui viene inibita la facoltà di mettersi in contatto con gli ex-colleghi rimasti fedeli alla Woland Corporation.
Non siamo ancora riusciti a trasmettere, alle intelligenze artificiali, la capacità di annichilire psicologicamente un individuo. O meglio, l’effetto di annichilimento si è rivelato molto più significativo e impattante quando sono delle persone reali, in questo caso gli A.A., che fino al giorno prima si occupavano silenziosamente, con dedizione e premura alle esigenze altrui, a disconoscere, ignorare e umiliare dipingendo con della vernice spray nera i colori gerarchici della divisa di chi è stato licenziato o, peggio ancora, ha deciso deliberatamente di abbandonare l’azienda.

Nel 2040 nessuno si veste di nero, perché il nero è il colore degli inadatti e di chi non ha un posto all’interno di una gerarchia aziendale. Il nero è il colore di un monitor spento.  

La decisione di affidarsi ancora all’emotività delle persone, in questo caso la spettrale indifferenza degli A.A. e la condanna all’umiliazione e al confino degli annichiliti che non si sono adeguati o hanno tradito la fiducia aziendale, è forse uno degli ultimi lasciti dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della Dittatura delle passioni. Istanza accettata, perfezionata e canonizzata in quanto si è rivelata essere la via più efficace per il benessere, la motivazione e l’appagamento di chi rimane e non sfida la gerarchia. Agli A.A., l’ultima ruota del grande carro a cui faceva capo Michail “Huxley” Woland, veniva insomma delegata quella brutta rogna, quel lavoro sporco, del disprezzo. 

I veri leader non hanno bisogno di disprezzare chi non si è mostrato all’altezza delle loro aspettative, perché lasciano che siano le fauci dei propri cani a ringhiare e deridere chi non accetta, sfida o abbandona il sistema. 

Era capitato anche a me. 

Avevo dovuto annichilire un partner con cui stavo valutando l’ipotesi di stipulare un contratto matrimoniale. La nostra proiezione statistica di compatibilità era discreta, ma ambivo ad elevare la mia classe sociale, in cambio di sesso, compagnia e tenerezza, buttandomi definitivamente alle spalle anche l’ultimo lascito della mia condizione di nascita ed ennesimo fardello ereditato dalla mia coppia genitrice,. Dopotutto le uniche due motivazioni per giustificare la monogamia, secondo Woland, erano appunto un’assoluta compatibilità circa i gusti e i disgusti alimentari, sessuali e ludici oppure un contratto bilaterale economico tra membri di diverse classi sociali.

Una volta annichilito il mio partner, colpevole di aver rifiutato una promozione che avrebbe esautorato il suo superiore non più gradito alla Woland, mi ritrovai punto e da capo a cercare possibili candidati per una notte di sesso o per la vita, sulla piattaforma di incontri gestita direttamente dalla Woland Corporation. 

Ricordo che una volta l’algoritmo mi propose persino Fausto ma, ai tempi, non l’avevo reputata una scelta dettata dal buonsenso e in ogni caso, nonostante fossi a conoscenza del suo successo sulle piattaforme di incontri sessuali, io non mi sentivo attratta da quell’uomo. L’attrazione sessuale, in quanto istinto condiviso in tutto il regno animale e spiegabile attraverso l’etologia e la chimica, rappresenta a tutti gli effetti una variabile nel calcolo per la determinazione della compatibilità tra due individui ed il mio istinto trovava Fausto repellente. Quella tonda gonfia faccia gioconda amplificata da un sorriso che di raro mancava sulla sua bocca. Un sorriso così osceno, da avergli deformato persino quel mento collassato in una profonda fossetta centrale. Alcune rughe marcavano i suoi occhi fino ad incontrare due grosse basette pelose, ormai più grigie che nere, che gli incorniciavano il viso. Il suo non era un volto, ma un manifesto alla derisione e all’irriverenza. E poi faceva sempre quella cosa strana… di dire il contrario di ciò che pensava. Ogni tanto diceva che si moriva di caldo, ma eravamo nel pieno dell’inverno o dava del genio ad un collega che aveva espresso un concetto particolarmente banale. Diceva che era “ironia” e quanto lo trovava divertente! Rumorose risate! E ridere, diamine, mi risultava così volgare. Nel resto del tempo? Fausto riusciva a essere finto persino in una società in cui non era più necessario fingere di essere felici.

4. D.D. è una punk rocker, ora | IL GRANDE ROGO DEL ’25

4. D.D. è una punk rocker, ora | IL GRANDE ROGO DEL ’25

But she couldn’t stay,
She had to break away.
Sheena is a punk rocker, RAMONES

Era primavera ed io fui convocata alla mia prima Officina di Lavoro riservata ai dirigenti. Ero stata trasferita dal secondo al terzo piano del Grande Palazzo, grazie all’individuazione dello schema alla base di questo redivivo bisogno di passione, che mi aveva fatto ottenere una promozione. Venni accolta nell’auditorium, secondo il regolamento aziendale, con un video messaggio – sempre lo stesso – di Michail “Huxley” Woland in persona che recitava il nostro credo. 

Non esistono macchine senza acciaio o drammi senza instabilità sociale. Ho scelto la serenità di ottenere ciò che voglio e non desiderare ciò che non posso ottenere. Io sto bene. Sono al sicuro. 
Ignoro la malattia e non temo la morte, perché diserto la vecchiaia di quel padre e quella madre che ingombrano la mia mente. Non ho figli da proteggere, amanti da sedurre o amori da conquistare, perché ho rinunciato alla violenza delle emozioni e alla fragilità della carne. 
Scelgo la felicità misurabile ed effettiva a discapito della lotta contro la sfortuna, le tentazioni, i dubbi e le passioni. 
Non ho bisogno di eroismo o di salvezza, perché non esistono vittime e martiri in assenza di carnefici e non esistono carnefici se non ci è concessa la vulnerabilità. 
Non cerco l’avventura perché non accolgo l’imprevedibile. 
Ho scelto l’armonia degli ingranaggi, la poesia della programmazione e la grazia dell’infallibilità del calcolo. 
Ho scelto di non scegliere e vivere nella beatitudine che non è mai maestosa o spettacolare. La felicità non è mai grandiosa. 

«La felicità se non è misurabile, non è! La felicità se non è misurabile, non è!» cantilenarono tutti in coro e io li seguii, sfiorando con la punta delle dita il mio nuovo dispositivo occhio-orecchio di nano-chips, acciaio chirurgico, silicone e rame e stirando qualche piega della mia nuova divisa color smeraldo, riservata ai collaboratori del terzo piano del Grande Palazzo.

 Di fronte alla mia seduta era stata lasciata una copia serigrafata di “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley, riscritta da Michail Woland, nella sua edizione speciale per l’anniversario della fondazione della Woland Corporation. Un dono per il mio passaggio di livello alla classe superiore all’interno dell’organizzazione aziendale. 

La sfogliai ripercorrendo quella storia che già conoscevo. 

Il lento e inarrestabile processo di disumanizzazione, di rinuncia all’empatia e di accettazione della logica e del buonsenso, come unica forma di sopravvivenza e pace sociale, trovò il suo dogma tra le pagine del romanzo di Huxley, i cui diritti vennero acquisiti dalla più grande azienda della Federazione Post-Europea, la Woland Corporation, appunto.

Con le economie dell’antica Russia e l’antica Cina riunite, grazie alla fusione delle più importanti aziende nazionali (nanotecnologia cinese e fabbrica del consenso sovietica), Michail Woland – l’amministratore delegato dell’omonima corporazione – è l’uomo più potente del Nord del Mondo, in grado di controllare l’industria tecnologica, farmaceutica e logistica, il mercato dell’intrattenimento, dello spettacolo e della cultura. Qual è l’origine della sua fortuna? Essere riuscito a conquistare il monopolio dei dati e della loro elaborazione. 

Fu la direttrice della Divisione di Commercializzazione che, dopo aver sorpreso una sua sottoposta leggere quel libro in pausa pranzo – violando il regolamento interno che vietava i passatempi solitari e sfidando l’etichetta sociale che sconsigliava la lettura di romanzi – incuriosita dal volume sequestrato, lo sfogliò e ne scoprì il potenziale.

Organizzò un gruppo di lavoro a cui commissionò una scheda ed un’analisi approfondita del testo, che passò alla Divisione di Gestione delle Crisi la quale, a sua volta, ne fece derivare alcuni algoritmi applicabili ai fenomeni sociali contemporanei. Ne emerse che la fantascienza distopica negli Anni Settanta era in realtà un ottimo modello sociale replicabile ed esportabile, sia nel Nord ché nel Sud del Mondo. Vi era persino un caso storico, riportato nella diapositiva n°1984, in cui si faceva riferimento ad un altro romanzo di fantascienza elevato a testo sacro da una setta chiamata Scientology. 

E così Michail Woland divenne Michail “Huxley” Woland, di sua spontanea iniziativa ed intuizione, galvanizzato dall’idea di vedere il proprio nome stampato sulla nuova Bibbia, il nuovo Corano o il Mussar della modernità. La direttrice della Divisione di Commercializzazione la reputò una scelta molto saggia e, nell’arco di un semestre, una nuova versione di “Il Nuovo Mondo” era sul comodino, nelle biblioteche aziendali e nelle sale d’attesa di buona parte del Nord del mondo. 

«La felicità se non è misurabile, non è» si dicevano l’un l’altro, scambiandosi il formale segno di pace previsto alla conclusione del credo. Il segno non prevedeva alcun contatto fisico ma i due interlocutori, voltandosi faccia a faccia, chiudevano pollice e indice della mano sinistra incorniciando l’occhio con uno zero, mentre alzavano l’indice della mano destra verso il cielo ad imitare il numero 1. Zero e uno, zero e uno, dopo zero e uno, venne il mio turno e così risposi al segno di pace all’uomo che stava alla mia sinistra, e lo replicai voltandomi verso la donna che stava alla mia destra, ripetendo: «La felicità se non è misurabile, non è» unendomi a quel brusìo che riempiva l’aria aromatizzata alla menta piperita dell’auditorium. Ma, nel pronunciare quelle parole che tante volte avevo ripetuto nell’arco della mia vita, suonarono diverse. Suonarono come sbagliate e producevano un suono sgradevole. E allora le sillabai di nuovo nella mia mente, ancora e ancora. Ed era come masticare stoffa al posto della succosa pesca che credevo di aver addentato. 

Ma perché? Il punto è che non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto – concreto e tangibile – che i dati da me raccolti ed elaborati raccontavano qualcosa di diverso circa l’idea di felicità. Ma come potevo mettere in discussione l’intero apparato su cui si reggeva la nostra società e il nostro benessere? Chi ero io per oppormi o criticare ciò che andava bene agli altri. Gli altri… 

Mi guardai attorno e la sensazione fu quella di non essere più parte, di non appartenere, a ciò che mi circondava. E no, non era colpa di essere stata promossa da poco ed essere magari l’ultima arrivata. Questa mia condizione, semmai, mi aveva portato soltanto a non dare per scontata ogni cosa. Ad osservare le circostanze con un occhio nuovo e non assuefatto alla norma, come quando si legge la prima pagina di un trattato di una scienza ignota e ogni cosa è aliena e la mente è carica di elettrostaticità, eccitata e pronta a balenare di scosse e scintille al minimo contatto o attrito. 

Ero sconnessa, scollegata, dalle persone che mi circondavano ma, soprattutto, in quel momento mi resi conto di non credere alle parole dell’uomo più potente del mondo. Questa nuova consapevolezza si convertì in un brivido lungo tutto il corpo, per poi passare e lasciarmi spaesata, con un sorriso sulle labbra, potente e confusa, ma presente per davvero, in quel qui e ora in opposizione all’esistente, che aveva un nome ed era il mio. 

Mi chiamo Dorotea Disastro e prima di allora non sapevo cosa fosse il punk.