BRUCIA LA VECCHIA in #crowdpublishing su Bookabook

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Nilde vive coi nonni a Colle Torto, un piccolo paese di montagna con le strade strette, tortuose e ghiacciate sei mesi l’anno. Orfana, vegetariana e solitaria, indossa il lutto per la morte prematura e violenta della madre, di cui non custodisce alcun ricordo all’infuori di una pila di libri consumati, qualche disco e le bugie di nonna Adele e nonno Evaristo. «Mio padre non so chi sia. Credo sia un pezzo di cane che ci ha abbandonate» racconta. Eppure sarà una lettera di quel padre sconosciuto a svelare una menzogna lunga quindici anni e a catapultare la giovane Nilde indietro nel tempo, a quell’inverno in cui Lisa morì per mano dell’uomo che amava. Da qui inizia un viaggio fatto di verità nascoste, vite interrotte, sensi di colpa attraverso gli occhi spietati di una sedicenne a cui tocca il compito di giudicare, condannare e liberare dai peccati quegli adulti responsabili (direttamente o indirettamente) della morte di Lisa Malatesta. Sua madre.

Perché ho scritto questo libro?

Un volta ho letto di un uomo che ha ucciso con un pugno una sconosciuta. Ogni 60 ore una donna incontra la morte per mano di uomo. La narrazione tossica parla di raptus di follia, delitti passionali e persino di “troppo” amore. In Brucia la vecchia racconto tutto ciò che non è amore e delle terribili conseguenze del confondere per tale – da parte dei protagonisti – il bisogno di salvare o essere salvati, la smania di possedere o controllare, i giochi di potere e le dipendenze affettive.

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NON CHIEDERAI SCUSA

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Da Lungidame #01

DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE

Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.

Foto di Silvia Polmonari

Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.

Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.  

Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.

L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.

“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir

Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?

E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!

“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.

Lei, Antichrist, Lars Von Trier

Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.  

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.

The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot

Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?

Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.

“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.

“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.

“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.

“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.

Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…

Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.

Ti chiameranno: furiosa.

PATRICIA AMA IL COBRA A SETTE TESTE!

PATRICIA AMA IL COBRA A SETTE TESTE!

Patty Hearst, John Waters e l’Esercito di Liberazione Simbionese…

[Articolo originale qui]

«Tutte le persone in stato d’arresto sembrano più belle. Il più brutto dei criminali sessuali e il più sgangherato dei tossici assumono un fascino particolare quando vengono ammanettati e trascinati al cospetto del pubblico americano affamato di crimine. Un nuovo criminale è l’evento più clamoroso di tutte le star dei media; è l’unico tipo di celebrità che può arrivare dalla mattina alla sera».


John Waters e Patty Hearst nel 1988.

[Valeria] Chi scrive è John Waters, il regista di Baltimora che da una manciata di decadi sfida la morale ed il presunto buon gusto dell’americano medio con i suoi film. La citazione è stata tratta da «Shock. L’autobiografia trasgressiva e irriverente del re del trash»; il libro che è uscito per la Lindau nel 2000, a quasi quindici anni di distanza dalla pubblicazione negli Usa per l’americana Delta.
«Shock» può essere definito come il diario personale di John Waters che, dagli anni Settanta, sembra aver sposato la causa dello scandalo a tutti i costi. Spesso riconosciuto con l’appellativo «the Pope of trash» (il Papa del trash), basta vedere i suoi primi film, per confermare e legittimare quest’insolita investitura.
Scritto in prima persona, ci si aspetterebbe – come in ogni autobiografia che si rispetti – che parta dall’infanzia, e invece no, perché John Waters decide di raccontare la sua vita a partire dalla realizzazione di Pink Flamingos, primo film di successo che lo ha consacrato come massimo esperto del cattivo gusto. Il film (uscito nel 1972), reca il sottotitolo «An exercise in bad taste» e passerà alla storia per alcune scene che è difficile descrivere senza scadere nella volgarità e nell’oscenità. Dalle contrazioni a tempo di “Surfing Bird” di uno sfintere ripreso in primo piano, fino all’orripilante scena cult di coprofagia di Divine, la protagonista, nonché musa del regista: una drag queen biondo platino di circa 150 chili che, nel film, lotta contro gli orribili coniugi Marble per aggiudicarsi il titolo di «persona più disgustosa del mondo».



Patricia Hearst durante la rapina alla Hiberna National Bank (1974).

Tra la narrazione della fase di produzione dei film (Pink Flamingos, Female Trouble, Desperate Living e Polyester), John Waters racconta i suoi ricordi e le sue ossessioni, in modo spontaneo e senza seguire una precisa cronologia. Racconta per esempio della sua passione morbosa per il crimine e i criminali, in un capitolo esilarante in cui descrive la fauna degli appassionati di cronaca nera che non si perdono un processo, tematica che tornerà sia in Female Trouble che nel blockbuster La Signora Ammazzatutti con Kathleen Turner (del 1994, presentato al 47° festival di Cannes).

Ed è qui che leggiamo per la prima volta un nome che non ci è nuovo: Patty Hearst, quella Patricia che ama il cobra a sette teste (simbolo dello SLA – l’Esercito di Liberazione Simbionese), anti-eroe tragico cantato in un pezzo contenuto in “Music is a gun loaded with future” dei Kalashnikov Collective.

Che l’odore dei morti e il dolore dei vivi
Li faccian vomitare
Patricia ama il cobra a sette teste!


«Riuscire ad avere un posto a sedere a un famoso processo è come intrufolarsi alla premiazione degli Oscar: richiede gran pazienza e organizzazione. Al processo di Patty Hearst centinaia di persone aspettarono per giorni nei sacchi a pelo fuori dall’aula di tribunale per poi scoprire che c’erano solo sei o sette posti disponibili per il pubblico.[…] I fan di Patty erano adirati e si rifiutarono di spostarsi, creando così una sorta di Woodstock del crimine. Cantarono “Buon compleanno” a Patty e mangiarono rumorosamnete una torta di compleanno che aveva preparato una groupie di Patty…»


John Waters racconta di aver avuto l’onore di ascoltare la testimonianza di Patricia Hearst e scrive:

«Dopo settimane di studio di foto ingannevoli dell’accusato sui giornali è sempre un’eccitazione vedere coi propri occhi il criminale in carne e ossa. Alcuni fan svengono come groupie impazziti di rockstar. […] Patty Hearst, comunque, fu sempre una delusione, con il suo aspetto così anonimo con le sue scarpe per bene e il suo vestiario da scuola privata: “Questa è Patty Hearst?” continuavo a pensare»


Ma chi è Patricia Campbell-Hearst? In un’America che oggigiorno dedica la copertina di Rolling Stone all’attentatore di Boston e a lettere capitali, scrive “THE BOMBER” e sottotitola “come un popolare e promettente studente, sia stato rovinato dalla sua famiglia e sia finito nell’islam radicale, diventando un mostro”, in un Paese con la più numerosa popolazione carceraria nel mondo (poco meno di ottocento persone in prigione per ogni centomila abitanti circa), in cui è sancito per costituzione il diritto ad essere armati… come si colloca la vicenda assurda, violenta e ipocrita di Patricia Hearst?
Patricia è una ricca ereditiera di diciannove anni, che porta il cognome di una delle più importanti famiglie a capo di un gruppo editoriale. Nel 1974 viene rapita dallo SLA – L’esercito di Liberazione Simbionese e viene tenuta prigioniera in una cabina armadio per diverse settimane, bendata e costretta a rapporti sessuali coi cuoi carcerieri che, dopo poco meno di tre mesi, dichiara: «Mi è stata data la scelta di essere rilasciata in una zona sicura o di unirmi alle forze dell’Esercito di Liberazione Simbionese per la mia libertà e la libertà di tutti i popoli oppressi. Ho scelto di restare e di lottare». Da allora inizia il suo percorso armato al fianco dello SLA, fatto di addestramenti durissimi, rapine in banca, furti d’auto, rapimenti, fughe e clandestinità.
La sua prigionia durò 591 giorni, al termine della quale venne processata, insieme ai tre superstiti dello SLA (sei ne vennero uccisi nel maggio del ’74) e condannati a 35 anni di reclusione. Patty venne difesa dallo stesso avvocato che diventerà poi famoso, per aver fatto assolvere il presunto uxoricidia O.J. Simpson.


L’Esercito di Liberazione Simbionese… in una foto promozionale del film “Patty – la vera storia di Patricia Hearst” (1988).

La tesi della difesa fu quella che Patricia, nonostante i video e le foto di lei con un fucile automatico al collo che rapinava l’Hibernia National Bank, fosse vittima di un lavaggio del cervello e soffrisse di un disordine da stress post-traumatico a causa del rapimento. Si parlò inoltre di sindrome di Stoccolma, dal momento in cui la Hearst s’innamorò di uno dei suoi rapitori e stupratori. L’avvocato, invocando una sfilza di periti illuminati, riuscì a provare persino che il QI di Patricia fosse passato da 130 a 109, facendo così ridurre la sua pena a 7 anni, che poi diventarono 22 mesi, per poi essere graziata dal presidente Jimmy Carter e ottenere definitivamente l’indulto da Ronald Reagan e Bill Clinton.


Patricia Hearst durante il processo.

Di quei 591 giorni in cui Patricia fu ostaggio e complice dello SLA, sono stati girati film, documentari e sono stati scritti numerosi libri, uno tra questi è Pastorale Rivoluzionaria di Christopher Sorrentino, uscito nel 2005 negli Stati Uniti col titolo “Trance”. Non siamo di certo di fronte ad un capolavoro della letteratura, ma è interessante ed utile per comprendere quale sia stato il percorso che ha portato la ricca e viziata Patricia Hearst (che per questioni legali diventa Alice Galton) a diventare quella donna in divisa, in posa davanti al serpente a sette teste con un fucile in mano, che è diventata un’icona al limite del pop, col nome di battaglia di Tania.
Innumerevoli sono i riferimenti di Sorrentino alla parte, al ruolo che, in un certo senso, Patty Hearst decise di interpretare in quella vicenda violenta e sconclusionata, dietro la cui macchina da presa c’erano uomini e donne fanatici e confusi. Il gergo è quello del mondo del cinema e dello spettacolo.

Lei ride, come da copione, e si toglie gli occhiali da sole. Né i rozzi travestimenti, né i pasti frugali, né la dura disciplina dell’addestramento hanno alterato un viso che ormai tutti conoscono. Scandendo le parole, dice: «Sono Tania Galton»
Lei sta per salire in macchina quando Yolanda le ricorda il copione…
Sembra la scena di un film muto…
Lei sente il brivido della fama.


Come le reginette di bellezza avide e ninfette del recente Spring Breakers di Harmony Korine, che intraprendono la via del crimine e della violenza, continuando a ripetersi “è come in un film, è come un videogioco“, ecco che anche la storia di Patricia Hearst nel romanzo di Sorrentino assume delle tinte ludiche e spettacolari, come se la rivoluzione dello SLA fosse prima di tutto, un copione scritto male. Un film assurdo e grottesco in cui la ricca ereditiera dà dei “luridi insetti fascisti” ai propri genitori, in cui rapina banche che appartengono ad amici di famiglia per poi essere graziata dal Presidente che l’ha vista crescere. Una storia che ha di per sé tutti gli elementi per essere spettacolarizzata. Ed è nelle parole di Guy, un cronista che si avvicina allo SLA per raccontare la storia di Tania (e rimediarci un contratto editoriale a sei zeri) che comprendiamo a pieno la fascinazione dell’americano medio per Tania / Patricia Hearst.

«Randi, avresti dovuto vederla durante il viaggio in macchina, quando abbiamo attraversato il Paese. Tutte le volte che vedeva un addetto dell’autostrada o un casellante lei diceva che bisognava farlo fuori perché era un servo del sistema. Se ne stava lì seduta a tracciare delle X sulle foto dei manager della finanza che comparivano suelle pagine di economia del giornale. Quella ragazza brava seduta accanto a me, con il suo accento impeccabile, non faceva che elencare le malefatte dei ricchi fascisti. Se è successo a lei può succedere a chiunque: ecco cosa ci vuole dire lo SLA. E puoi star certa che questo è un pezzo di storia. I posteri la ricorderanno se la principessa terrorista morirà qui, fra queste verdi colline. Ma sarà tutta un’altra musica se lei si arrenderà, se dirà “non facevo sul serio”, se collaborerà con la giustizia e si riprenderà il suo nome, i suoi milioni e il suo fidanzato coi baffetti. Se nel giro di venticinque anni si trasformerà in una madre di famiglia di Hillsborough che va al talk show di Dick Cavett a raccontare i suoi folli trascorsi di rivoluzionaria, allora quella sarà la storia degli annia Sessanta. L’unica vera storia.» 


Non a caso la stessa Patricia Hearst, dopo essersi sposata con la sua guardia del corpo e aver dato alla luce due figlie, intraprenderà una carriera da attrice lanciata proprio da John Waters. E il cerchio si chiude. Più o meno.

[Da un periodico dell’epoca: “Chi c’era dietro l’Esercito di Liberazione Simbionese? Lo SLA era stato forse creato e sviluppato con l’intento di collegare i gruppi di sinistra al terrorismo e alla violenza?”]
To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

[Articolo originale qui]

«Mio caro giovane amico» disse Mustafà Mond «la civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà o eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata come la nostra nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed eroico. Bisogna che le condizioni diventino profondamente instabili prima che l’occasione possa presentarsi. Dove ci sono guerre, dove ci sono giuramenti di fedeltà condivisi, dove ci sono tentazioni a cui resistere, oggetti d’amore per i quali combattere o da difendere, là certo la nobiltà e l’eroismo hanno un peso…» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

La verità ha il suono di uno schiaffo e si presenta come pelle verde e squamosa, sotto un travestimento ben riuscito. Il ricordo comune è quello di un segreto difficile da mandar giù, come ratti ingoiati ancora vivi e scalpitanti, dalla bella e spietata Diana e il suo make-up da top model. Un ricordo indelebile: quel volto sfregiato che svela un orribile rettile, con gli occhi rossi e le pupille a fessura. Per chi è stato bambino nei primi anni Ottanta, quello dei Visitors, è un incubo pop difficile da dimenticare. Ma è stato proprio il desiderio di esorcizzare quella paura infantile e/o la ricerca di una manciata di ore di puro intrattenimento trash e nostalgico, che hanno creato un’occasione di riflessione inaspettata. Tutto inizia con un reporter d’assalto che racconta una guerra. Una battaglia combattuta con armi convenzionali a cui siamo abituati: bombe, fucili, proiettili ed elicotteri militari. Ci sono vittime e ci sono carnefici. I due schieramenti sono ben evidenti. Ed è proprio lì, in tutto il suo mistico orrore, che si presenta per la prima volta l’immensa navicella spaziale dei visitatori. La prima di tante che andranno a proiettare un’ombra minacciosa sulle principali città del mondo. Eppure i Visitatori sono venuti in pace. La loro voce è fredda e metallica, ma parlano la nostra lingua. Parlano a noi. Uno per uno. In ogni angolo della Terra risuona il conto alla rovescia, verso l’alba di una nuova era o verso l’ultima alba che vedremo, pigola spaventata la tipica teenager americana che “non vuole morire senza averlo mai fatto”.Gli alieni hanno scelto nomi “terrestri” perché i loro sono troppo complicati da comprendere e memorizzare. Solo nomi di battesimo, semplici e comuni, senza cognome e senza titolo. Sono John, Peter e Diana. Come il nostro vicino di casa o il collega con cui ci si fuma una sigaretta prima di un turno in fabbrica. I Visitatori sono venuti da noi a causa del sovraffollamento del loro pianeta di origine.

Come può l’umanità far fronte al problema del rapido incremento demografico? Non molto bene. I fatti dimostrano che in quasi tutti i paesi sottosviluppati la sorte dell’individuo medio è considerevolmente peggiorata nell’ultimo mezzo secolo. La gente si nutre peggio. È diminuita la quantità di beni pro capite. E in pratica ogni tentativo di migliorare la situazione è andato a vuoto, per la pressione continua dell’incremento demografico. Ogni qual volta si fa precaria la vita economica d’una nazione, il governo centrale è costretto ad assumersi nuove responsabilità, per il benessere generale. Deve elaborare nuovi programmi per far fronte alla situazione critica; deve imporre nuove restrizioni alle attività dei soggetti; e se, come probabile, dal peggioramento delle condizioni economiche consegue agitazione politica, o ribellione aperta, il governo centrale deve intervenire, a tutela dell’ordine pubblico e della propria autorità. Ritorno Al Nuovo Mondo (Brave New World Revisited) Aldous Huxley, 1958

Le risorse del loro pianeta si stanno esaurendo, al contrario della Terra che ne è ricca. Scopriremo ben presto che quelle “risorse” non sono altro che acqua e carne. Siamo nel 1984 e risulta piuttosto inquietante – una sorta di oscuro presagio – il fatto che a distanza di trent’anni esatti, nella realtà, carne ed acqua siano effettivamente diventate delle emergenze ambientali e sociali. I Visitatori vogliono prosciugare le risorse idriche della Terra ed “importare” il bestiame, cioè l’uomo, per nutrirsene. Esaurite le risorse della Terra, invaderanno un altro pianeta. E così via… perché nonostante abbiano la consapevolezza che il loro tenore di vita sia ingestibile, distruttivo e parassitario, preferiscono aggredire, schiacciare e sfruttare l’”altro” piuttosto che rimettere in discussione loro stessi. 

 La Storia ha però insegnato – a questi grossi rettili antropomorfi – che nell’epoca moderna una guerra manifesta non è quasi mai la scelta migliore. Le guerre sono lunghe, costose e fiaccano gli animi dei cittadini già inquiete per la crisi. Il modo migliore per ottenere ciò che vogliono, è fare in modo che siano gli stessi uomini – l’anello debole del sistema Universo – a fabbricare le catene della propria schiavitù. Abbiamo detto che i Visitatori parlano la stessa lingua dei terrestri ed infatti promettono loro soldi, lavoro ed una cura per il cancro. In cambio prendono in gestione le fabbriche della Terra, scelgono una schiera di giornalisti come portavoce ed istituiscono il club de “Gli amici dei Visitatori”, una falange paramilitare a metà strada tra i Boy-Scout e la Gioventù Hitleriana. 

Hanno quattro dita e un pollice, condividiamo lo stesso percorso evolutivo, dice l’antropologo che comincia a farsi troppe domande sui Visitatori. L’uomo ha notato che hanno la pelle fredda, non mangiano cibo cotto, non vengono punti dalle zanzare e al loro passaggio fanno innervosire gli animali.Sembrano come noi, ma sono diversi. La loro è soltanto una maschera rassicurante,denuncia la biologa che raccoglie un campione della loro pelle “umana”… Spariranno nel nulla. Dall’oggi al domani. Prima nelle università, poi nei laboratori di ricerca ed infine persino i medici negli ospedali. Li prendono uno ad uno. Loro e la loro sconveniente predisposizione a farsi domande. Ma devono farlo  senza destare dissensi, perché il popolo deve continuare ad amarli. I Visitatori hanno bisogno di essere legittimati anche in ambito affettivo. E non c’è nulla come mostrare la propria debolezza per giustificare una presa di posizione autoritaria o un’aggressione violenta. Perché se ci sono delle vittime, ci sono dei cattivi. I giornalisti di regime urlano ai quattro venti che una fantomatica congiura degli scienziati minaccia la stabilità e la pace. Gli scienziati fanno diventare tristi i nostri amici Visitatori! I Visitatori sono buoni! Portano lavoro e portano progresso!Ingrati! Ecco così che gli uomini di scienza diventano detestabili e sconvenienti dal punto di vista sociale. Sono terroristi. Vanno segnalati e tenuti sotto controllo. Non vanno invitati alle feste. Vanno allontanati e disprezzati persino i parenti più stretti o i vicini di casa.

«Ogni cambiamento è una minaccia alla stabilità. Questa è un’altra ragione per cui siamo poco disposti a utilizzare nuove invenzioni. Ogni scoperta nel campo della scienza pura è sovversiva in potenza; anche la scienza deve essere trattata come un possibile nemico. Sì, anche la scienza.» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

È come nel ’38 a Berlino, dice il sopravvissuto all’Olocausto che ospita una famiglia di scienziati fuggiaschi. Li nasconde agli occhi di quel nipote buono a nulla, membro de “Gli amici dei visitatori”. Il ragazzo ha aderito in cambio di armi, una divisa e quel poco di potere, che usa per cercare di far sua la figlia vergine dello scienziato. Al rifiuto di lei segue la vendetta: la famiglia viene denunciata e deportata. Le guardie però, troveranno soltanto il vecchio con la kippah sul capo che intona un canto sacro. 

Insieme alla repressione, arriva la propaganda. Grandi manifesti che tappezzano le strade e che ritraggono i Visitatorisorridenti nelle loro divise ed una grossa scritta “OUR FRIENDS”. Faccio solo il mio lavoro, si difende la giornalista che fa da eco al volere degli invasori. Ho sentito questa frase decine e decine di volte durante il processo di Norimberga, la accusa un collega.E poi c’è la resistenza. Disorganizzata, raffazzonata e per nulla incisiva, ma c’è… e ha il volto di una vecchia che scaglia una molotov nella navicella del nemico. Ha il volto di una giovane leader pasionaria che deve decidere, minuto per minuto, quali saranno le sue azioni. Nessuno le ha spiegato come si fa… eppure lei prende il comando e guida la rivolta. Ed è in questa – qualcuno direbbe – epica ed eroica battaglia che scopriamo però quanta paura, quanta vigliaccheria e quante morti inutili può portare con sé la lotta all’oppressore. Persino in un telefilm degli anni Ottanta! Nessuno dei membri della resistenza è convinto di fare la cosa giusta. Nessuno si sente un eroe o parte di qualcosa di epico. La paura è tale da spingere uomini forti ed intelligenti ad atti vili e codardi. Nessuno ha la certezza che le proprie azioni, il proprio sacrificio o il correre dei rischi, avranno poi un’effettiva ripercussione positiva per la lotta… eppure vanno avanti, spinti da qualcosa che è difficile spiegare…

Viene per esempio, spontaneo chiedersi quanto “eroica” possa sentirsi quella giovane e bella ragazza, nel momento in cui sacrifica il proprio corpo e la propria sessualità, per estorcere informazioni sensibili al nemico reso vulnerabile a affabile durante il post-coitum. O quanta nobiltà ci sia nella crudele – ma utile – morte dell’anziana signora che viene uccisa come un cane in uno scantinato, durante un’azione di sabotaggio. Come c’è ben poco di poetico nel “terrorista di professione” che porta disciplina e tecnica, a quella che era una manciata di uomini e donne disperati. Eppure ogni singolo atto, nella sua confusione o nella sua miseria apparente, porterà gli uomini alla vittoria e alla libertà. Così, come tanti puntini collegati tra loro che conducono ad un disegno più ampio. Un disegno che il singolo individuo forse, non può comprendere nella sua interezza.E c’è quella frase… all’inizio di ogni puntata: 

All’eroismo dei combattenti della resistenza – passata, presente e futura – dedichiamo con rispetto questo lavoro. 

E quella V, rossa, dipinta con la vernice spray. La “V” della vittoria degli uomini liberi.

Morte ai lucertoloni!

DISSAPORE.COM – Chi è più punk?

DISSAPORE.COM – Chi è più punk?

Chi è più punk? Viaggio icono-gastronomico nella pastasciutta al pomodoro

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“La via per Berlino” è un racconto di Silvia Ballestra del 1991, che solo un anno più tardi è diventato un romanzo dal titolo “La guerra degli Antò”, da cui poi è stato tratto l’omonimo film del 1999 per la regia di Riccardo Milani. «Verso le diciannove di ogni sera, il nostro Antò finiva di cenare; (in genere mangiava cose tristi: salumi da poco prezzo, pizze congelate, paste al pesto o condite con sughi già preparati. Cenava solo, naturalmente».

La storia racconta l’epopea di Antò Lu Purk e dei suoi amici Lu Zombi, Lu Zorru e Lu Mmalatu. Tutti e quattro punk, tutti e quattro di Montesilvano (PE), tutti e quattro con lo stesso nome: Antonio per l’appunto. Lu Purk è “quello che se ne va” da Montesilvano, dall’Abruzzo, da mamma, nonna e zii alla volta di Bologna, mentre gli altri decidono di restare perché, come dice Lu Zorru in una scena: «Ci vuole coraggio ad andare, ma ci vuole anche coraggio a restare a Montesilvano!» Continua a leggere

DISSAPORE.COM – Personalissimo anatema contro gli ALL YOU CAN EAT

DISSAPORE.COM – Personalissimo anatema contro gli ALL YOU CAN EAT

Non si tratta di essere snob. Personalissimo anatema contro i ristoranti All you can eat

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Mi verrebbe voglia di prendermi a schiaffi da sola per ciò che sto facendo e cioè accostare una meravigliosa pagina di letteratura italiana (tratta da “La Storia” di Elsa Morante), a quello che sto per scrivere, ovvero il mio personalissimo anatema contro un’espressione e un fenomeno sociale specifico: ALL YOU CAN EAT.

Sono quei ristoranti dove con pochi e indeformabili euro possiamo prendere tutto ciò che ci riesce di mangiare, prendi quello che vuoi quante volte volte vuoi.

Se ne è già parlato anche qui su Dissapore, è proprio alla domanda con cui si chiude il post (“Ci si riempe lo stomaco senza svuotare il portafoglio, il solo metro è la dismisura, l’unica categoria è l’enormità. Ma resta un pregiudizio a frenare il successo del modello all you can eat in Italia, il pregiudizio che in questi ristoranti si mangi male. Solo un pregiudizio?” ) che rispondo con il brano tratto dal romanzo di Elsa Morante.

Non ho provato tutti i ristoranti che praticano il cosiddetto ALL YOU CAN EAT, ma qualcuno sì. A Milano, come in Inghilterra così come in Giappone. E la risposta, per la mia umile esperienza è che sì, si mangia male, ma non è della qualità del cibo che sto parlando, o almeno… non solo!

Parlo della modalità, del rituale e del fenomeno antropologico che consiste nel servirsi da sé, quando si sa che ciò che si mangia è gratis o costa poco. Io, che sto sempre dalla parte degli ultimi e mi sono fatta le ossa recensendo birre spuzze e formaggi che diventano blu, posso permettermi di giudicare l’avventore medio di un ALL YOU CAN EAT.

Perché posso farlo?

Perché non ho un’attitudine snobistica nel farlo e perché, a costo di risultare impopolare, se mi dovessero offrire una cena sceglierei comunque un ristorante cinese di provincia (coi suoi buffi e graziati regalini, tanto fragili quanto di cattivo gusto), rispetto a un qualsiasi locale blasonato. – Io sono uno di voi! –

[continua]

DISSAPORE.COM – Il Seitan fatto in casa come in una barzelletta

DISSAPORE.COM – Il Seitan fatto in casa come in una barzelletta

Fare il seitan a mano: c’erano una drag queen, un metallaro, uno zombie e un italiano…

 

Questo post potrebbe iniziare come quelle vecchie barzellette dal respiro europeo con il francese, l’inglese, il tedesco e l’italiano, in cui quest’ultimo se la cava sempre e si distingue in quanto a furbizia, creatività e tendenza a rubacchiare e/o mentire.

Perché fondamentalmente siamo un popolo con la capacità a prendersi poco sul serio e abbiamo un profondo senso dell’autoironia e dello sfottò bilaterale. Non abbiamo il senso di grandeur francese, non siamo lord come gli inglesi e non siamo fieri e orgogliosi come i nazionalisti USA-centrici d’oltreoceano.

Basta però che non si tocchi il cibo… Continua a leggere

DISSAPORE.COM – Il tofu che toglie i peccati del mondo

DISSAPORE.COM – Il tofu che toglie i peccati del mondo

Il tofu che toglie i peccati del mondo: cibo santo e cibo del demonio

Lady-Vendetta

La dolce Geum-ja ha scontato tredici anni di carcere per aver confessato il rapimento e l’omicidio di un bambino. Durante la detenzione ha aiutato i deboli, ha assistito il prete del carcere, ha punito i violenti e soccorso i malati. Tanto bella e buona da ricordare la Madonna, diventa difficile comprendere come abbia potuto commettere un tale reato.

Ma infatti non è stata lei.

Geum-ja è innocente. La donna, protagonista di Lady Vendetta (Simpathy For Lady Vengeance) film del regista coreano Park Chan-wook del 2005, nel cui remake americano reciterà Charlize Theron, ha confessato un crimine commesso dall’uomo che amava.

Dopo tredici anni esce dal carcere e il prete, guida spirituale che l’ha seguita durante la detenzione, le porge un piatto con un panetto di tofu.

[continua]

DISSAPORE.COM – Pizza, low-cost… in Giappone!

DISSAPORE.COM – Pizza, low-cost… in Giappone!

Giovane, predisposta al martirio, si avventura nella pizza low cost giapponese

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Nella mia umile e limitata esperienza di fondatrice e curatrice di un blog in cui si recensiscono prodotti del discount, ho scoperto una cosa. Chiamatela folgorazione, illuminazione, rivelazione… ciò che conta è che nel momento dell’epifania, io mi sono sentita come Santa Teresa nel pieno di quell’estasi mistico-erotica sapientemente scolpita dal Bernini.

Questa piccola rubrichetta si chiama “Io sto con Murray” e per saperne la ragione – se non l’avete ancora fatto – vi tocca rileggere il primo post con cui ho esordito, qui, su Dissapore.

Quale sarebbe questa verità? Vi chiederete voi ed io ora lo spiego: la sublime arte di legittimare e dare dignità agli ultimi (prodotti del discount, tarocchi, industriali e bruttini per esempio), può essere applicata a qualsiasi ambito della nostra vita. Quando dico “Io sto con Murray”, riferendomi al personaggio di Don DeLillo in “Rumore Bianco”, io sto gridando a gran voce: «Io sto con gli ultimi. Io sto dalla parte dei pariah, dei negletti, degli innominabili…»

Ecco allora, che la mia missione (e la mia predisposizione al martirio) mi porta ora a cercare di raccontarvi, nel modo più dignitoso possibile e con il massimo rispetto del caso, qualcosa che farà rabbrividire i più e cioè…

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LA PIZZA. LOW-COST… IN GIAPPONE!
[articolo originale qui]

La pizza in Giappone ha un nome e un cognome. Quel nome è Salvatore e quel cognome è Cuomo; Salvatore Cuomo: pioniere della pizza nella terra del Sol Levante, ha ormai costruito un impero di ristoranti e bar sparsi qua e là tra Tokyo e Osaka.

La vera pizza napoletana con i migliori ingredienti, in un ambiente famigliare e confortevole, che però io non ho mai sperimentato. Perché? Perché per una margherita “da Salvatore” bisogna preventivare di lasciarci giù circa quindici euro per una pizza grande come un 45 giri di vinile. E poi lo ammetto, sarebbe stato tutto troppo facile cominciare dal migliore.

Invece io, masochista della forchetta in terra straniera, ho deciso di stare dalla parte degli appestati e degli ultimi. Come quella volta in quell’izkaya coreano (un pub in cui si fanno le ordinazioni attraverso futuribili touch-screen installati sui tavoli)… ancora rammento quell’oscena cosa – impossibile definirla pizza – che popola tuttora i miei incubi: Pasta fillo (giuro), una sgommatina di pomodoro, una sforforata di simil-parmigiano e pesto. Sì, pesto! A voler sopperire alla mancanza di basilico fresco. Il tutto rigorosamente carbonizzato. Costo: 3-4 € / Voto: zero assoluto.

O la piccola e kawaii Cheese Pizza, acquistata per meno di 1,50 € in un “combini” (convenience store aperti 24 h su 24). Tenera nella sua rotondità e con quel vezzo, come lentiggini, di cubetti di pomodoro fresco al centro. Meglio addirittura, della più o meno italica Speedy Pizza – ve lo garantisco – con cui abbiamo rovinato orde di tosta-pane nella nostra giovinezza.

Ma tornando a ciò che può essere definito “pizza” in Giappone, l’annosa questione delle dimensioni (della pizza, dei letti e delle stanze d’albergo) è qualcosa che ha caratterizzato buon parte dei miei viaggi nipponici.

Con lo stomaco che brontola ed un atavico bisogno di carboidrati-pomodoro-mozzarella, il mio compagno di viaggio ed io, abbiamo sostato minuti interminabili davanti alle vetrine luminose dei ristoranti che ospitano le repliche dei piatti serviti. Si chiamano replica food, sono fatti di cera e servono, per l’appunto, per dare una dimostrazione dell’offerta culinaria.

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Nei posti filo-italiani che vendono la “vera” pizza napoletana per esempio, sotto la replica viene sempre riportato il diametro della pizza che raramente supera i 25 centimetri. Una rara eccezione: ad Osaka, nel quartiere Umeda, nel ristorante semi-italiano “La Boheme”, abbiamo trovato una margherita di ampiezza dignitosa, ma di spessore criticabile. Costo: 8-9 € (acqua e coperto inclusi) / Voto: 7 + un plauso per il sottofondo musicale di beat italiano degli anni Settanta.

Abbiamo parlato della più grossa ed ora parliamo della più piccola. Siamo sempre ad Osaka nella centralissima Namba. Tra un pachinko rumorosissimo, un negozio di gashapon ed un internet café ecco un locale che vanta pizza e italian soda nel menu. La pizzetta (è il caso di dirlo) è più piccola della mia mano e costa intorno ai tre-quattro euro. Non è male. E la rotella con cui mi è stata servita fa quasi tenerezza.

In Giappone ogni pizza, anche la più piccola, viene servita con tanto di rotella taglia-pizza sortendo, alle volte, un effetto involontariamente comico. Costo: 3-4 € / Voto: 5 (non raggiunge la sufficienza a causa della modestissima dimensione).

Oltre alla rotelle e alle piccole dimensioni, ho scoperto che le pizze giapponesi sono spesso accompagnate da una generosa manciata di mais. Come è possibile vedere in quasi ogni pizzetta confezionata in rivendita nei combini e, addirittura, nell’abominio generato e non creato dal dio della cucina fusion: un buozi (paninetto cotto al vapore cinese) con ripieno di pizza (italiana) e mais!

Altra catena, altra pizza. Con la carta di credito bloccata, gli ultimi giorni del mio secondo viaggio in Giappone sono stati caratterizzati da un’ossessiva oculatezza nella spesa ed una religiosa austerità nei consumi. Decidiamo però di destinare ben tredici euro per assaggiare una pizza (suggerita dagli internauti) ad Asakusa, piccolo e tradizionale quartiere di Tokyo, famoso per il grosso tempio Senso-Ji e per la presenza di membri della Yakuza che ho scoperto adorano terrorizzare gli stolti gaijin (stranieri) come me e il mio moroso, schernendoli per i loro tatuaggi.

Ignorati gli sberleffi degli Yakuza, ci rintaniamo nel ristorante-pizzeria “Miami Garden” e prendiamo una margherita. Microscopica – non aveva ancora imparato al leggere i centimetri effettivi – con quattro grosse foglie di basilico arpionate su quella che dovrebbe essere mozzarella e sugo. Sugo con tanto di soffritto! Costo: circa 13 € / Voto: 4 (a causa del costo eccessivo, della dimensione ridotta e dell’arroganza del sugo sulla pizza).

Terzo viaggio in Giappone. Rinunciamo a questo folle gioco al massacro di trovare una pizza buona ed economica. Vaghiamo per Osaka in cerca di cibo e, come Isacco un momento prima di essere sacrificati, ecco che la mano del padre si ferma e ci grazia… scopriamo Saizeryia! Catena filo-italiana presente in quasi ogni quartiere di Tokyo ed Osaka. Prezzi contenutissimi per piatti decenti e bevande gratis.

Assaggiamo la pizza (ma dai?) ed è buona! Piccola, ma molto molto saporita. Anche questa servita con tanto di rotella in differenti versioni: margherita, acciughe, funghi e calamari. Ed è pure aperto 20 h su 24. Costo: 2,5 – 4 € / Voto: 7 + un plauso per i Ricchi & Poveri, Mario Merola e Domenico Modugno mandati in loop persino al cesso.

Ma è a Koenji che ritrovo la fede in definitiva.

Ad una manciata di fermate della metro dalla centralissima Shinjuku ecco, che nel posto più umile e modesto (come una mangiatoia a Betlemme), mangio la miglior pizza low-cost di tutto il Giappone.

DISSAPORE.COM – La coprofagia da P.P.Pasolini a Bruce Willis…

DISSAPORE.COM – La coprofagia da P.P.Pasolini a Bruce Willis…

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La verità è dura da digerire: ma tutti dobbiamo mangiare la nostra dose di…

Cosa hanno in comune Pier Paolo Pasolini e Bruce Willis? Tralasciando l’evidenza dell’essere appartenenti alla medesima specie e al medesimo genere (uomo – maschio), sono stati entrambi apostoli di una verità alquanto indigesta e cioè che noi tutti mangiamo merda. In senso lato e in senso figurativo.

Come dimenticare il cameo di Bruce Willis in “Fast Food Nation” in cui, incalzato dal direttore del Marketing di una grossa catena di fast food sulla presenza di batteri fecali negli hamburger, dice:

«Sai… penso che ci potrebbe essere un po’ di merda anche in questa carne. Soltanto una piccola quantità microscopica. […] C’è sempre stata merda nella carne. E probabilmente tu la mangi da una vita. Non sta succedendo niente di illegale, ricordati che la carne viene cotta e le griglie sono stata calibrate accuratamente per essere sicuri di uccidere ogni piccola parte di quella robaccia. […] basta cuocerla! È tutto quello che devi fare. […] La verità è dura da digerire: ma tutti noi dobbiamo mangiare la nostra dose di merda».