“I Mortificatori” è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte, per poi rieducarli a furia di supplizi e schiaffoni.
Piace tanto, oggigiorno, l’espressione “narrazione tossica” che si usa, spesso e volentieri, per mettere in discussione gli stereotipi legati ai ruoli di genere. Che sia quell’innato istinto alla maternità (o alla responsabilità genitoriale), che sia qualsiasi argomentazione che gravita attorno alle vittime di stupro, che sia la violenza maschile di giganti buoni che salutavano sempre fino a quando non hanno sterminato la famiglia a martellate per poi suicidarsi… Si parla di narrazione tossica, anche, quando si parla di disabilità, razzismo, culto dell’iper-lavoro e del sacrificio necessario per meritare un cicinin di dignità sul posto di lavoro, dopo aver completato il giro di boa degli stage, tirocini, contratti di apprendistato ecc. ecc.
Si parla, insomma, di narrazione tossica ogni volta che vogliamo far sembrare bello, giusto e sacrosanto qualcosa che non lo è. Come per esempio i conigli.
Secoli di disegnini pucciosi che ritraggono coniglietti morbidosi dalle lunghe orecchie e la coda a batuffolo. Candidi, teneri e buffi animaletti che saltellano elargendo gioia e sofficità ma la verità è decisamente diversa. I conigli sono cattivissimi! Territoriali. Violenti. Supponenti. Tracotanti ed arroganti. Non mi viene difficile immaginare perché Fritz abbiamo punito El-Ahrairà – il primo coniglio – rendendolo preda e principe dai mille nemici.Perché guardate questi due, per esempio… Mara Venier e Andrea Roncato al primo loro incontro. Teneri vero?
Eppure sono separati da una rete provvisoria (la plastica non basterebbe altrimenti, perché ci va l’acciaio per resistere a quei denti). Sono separati perché Andrea non è sterilizzato e cercherebbe di montare Mara Venier fino a farle male. Oppure Mara Venier potrebbe reagire piuttosto male e cercare a sua volta di montare simbolicamente Andrea Roncato, per sottometterlo, fino ad aprirgli la faccia o staccargli le orecchie con quelle unghie nate per scavare tunnel nella terra.
E poi ci siamo noi. Non io e Satana nello specifico, che sicuramente abbiamo i nostri torti, intendo quel “noi” che comprende ognuno di noi nella vastità del tempo e dello spazio. Gli umani.
Mara Venier arriva da uno stabulario ed era destinata ad essere una cavia per i nostri esperimenti e Andrea Roncato, invece, è nato ed è stato allevato in gabbia per finire in padella. E lo so che hanno un carattere di merda, sono animali difficili da gestire e dal concetto di salute opinabile… ma davvero non posso fare a meno di pensare a dove sarebbero loro altrimenti. A quello che hanno subito i loro fratelli e le loro sorelle. A quello che patiscono da infinite generazioni.
E poi Andrea Roncato sembra quasi affettuoso. Ed è bellissimo. E, oddio, a guardarli in foto sono proprio teneri, nevvero?
Ti ho visto arrivare alle prime luci dell’alba. Hai indossato un lungo cappotto su quei pantaloni ridicoli del pigiama. Ti sei vestito di corsa. Non hai avuto il tempo di lavarti il viso e con gli occhi ancora cisposi hai guidato fino a qui. Hai chiamato tua madre. Lo fate quasi tutti. Tornate bambini incapaci di affrontare la realtà ma adesso che sei qui la tua mamma è più un impiccio che altro, sebbene tu faccia fatica ad ammetterlo.
Non ti servono le sue mani sulle spalle, le sue parole di conforto poco sincere che non riescono a nascondere il biasimare e recriminare i tuoi errori o il tuo troppo sentire. Perché se sei qui, si sa, è perché ami troppo o forse sei troppo distratto. E l’una e l’altra cosa (o addirittura entrambe) alimentano e giustificano quel sacrosanto sguardo severo, che solo tua madre sa destinarti.
Ti sei pentito di averla chiamata, vero? Vorresti farla scomparire ora, e non dover rispondere alle sue domande, ma adesso è troppo tardi. Ti sei spaventato e l’hai chiamata e lei è venuta subito da te, all’alba, perché è così che fanno di solito le madri. Corrono in tuo aiuto, facendoti notare però il costo che ciò comporta. Te lo dirà come una cosa da nulla, ma farà in modo che quell’informazione colpisca forte e nel punto giusto. Che ha dovuto lasciare solo, per esempio, quell’uomo che un tempo chiamavi “padre” ma che da anni non ricorda più il tuo nome o quanti anni hai. Quell’uomo, suo marito nonostante la malattia, a cui si dovrebbe risparmiare l’inevitabile agitazione che seguirà al suo risveglio in un letto vuoto. Reggerà il suo cuore per il tempo necessario di mettere a fuoco quel biglietto, scritto a caratteri molto grossi, che tua madre ha lasciato attaccato sullo specchio del bagno, per avvisarlo della sua assenza? Lo ha lasciato solo a causa tua, della tua disattenzione e del tuo troppo sentire. Un momento di debolezza, ma fa niente. Possiamo risolvere anche questo problema. Lo faremo insieme, perché da adesso ci siamo io e te e nessun altro. Lo sai. E, intanto che corri verso di me, cominci ad accettarlo e crei una distanza fisica accelerando il passo. Perché quella che ti cingeva le spalle con un braccio, non è più quella donna che era il tuo tutto, ma è una vecchia che non sa più esserti utile.
Lasciala dietro di te, cammina più in fretta e parlami ora con parole che sono razzi colorati che si stagliano, fumando, tra il bianco opprimente del cielo e l’urgente candore che accieca della neve in montagna. In quest’alba in cui tutto attorno sarebbe gelo e deserto, anche se fosse la notte di San Lorenzo. Allunga la distanza tra un piede e l’altro perché forse è meglio non farti sentire da lei, tua madre, intanto che fai la tua confessione. Ogni parola che dirai potrà essere usata contro di te, è così che si dice, vero? Perché è così che fanno, le madri e gli sbirri.
Avvolto in un vecchio asciugamano da spiaggia che risale alla tua infanzia, porti il corpo di un gatto. O forse è un piccolo cane, ancora non riesco a capire ma so, dall’espressione dei tuoi occhi, che se è lì tra le tue braccia è perché pensi di poterlo salvare ed io sono qui per questo. Ora parlami. Confessa la tua colpa e cerca l’assoluzione da questa donna, fino ad ora sconosciuta, che ti accoglie con un sorriso privo di condanna e occhi buoni di chi può perdonare e che, ancora non lo sai, sarà la donna più importante della tua vita nei prossimi sette giorni. Perché sette? Perché questa è la regola. Oltre non reggete.
È stato un attimo di distrazione. Ho lasciato la finestra aperta e lei – inclini leggermente l’involto per mostrarmi il musetto di una gatta bianca, nera e rossa di sangue – deve aver cercato di catturare una lucertola, forse, o un uccellino – no, lei non ne ha di colpe anche se una parte di te è in collera per la pena che ti sta causando – ed è caduta dal terzo piano. Di solito c’è la rete, ma avevo steso il bucato e… Shhhh, non permettere al panico di strozzarti le parole in bocca perché quello che dirai adesso, potrebbe dannare la tua anima o salvare la vita di quella creatura che stringi tra le braccia. Quello che racconterai adesso diventerà la verità con cui dovrai fare i conti, forse, per il resto della tua vita.
«Trascina una zampa e sanguina da un orecchio, potete salvarla? L’ho portata immediatamente qui, appena me ne sono accorto. Mi sono distratto un attimo…»
Non è vero. Non è stato un attimo, ma accetto che tu mi voglia, e ti voglia, raccontare questa bugia. Fa parte delle regole del gioco, lo fate per poter sopravvivere. Una legge fondamentale per non rompervi in mille pezzi a causa di quel peso che grava sul cuore, lo sterno e lo stomaco di chi, come te, avendo la responsabilità di una creatura-altra viene a meno di quel patto, attentando alla sua vita. Un tradimento a tutti gli effetti. Non dovevi far altro, in fondo, che prenderti cura di lei. Ma hai fallito ed adesso sei qui davanti a me con una gatta in fin di vita tra le braccia, i pantaloni del pigiama con dei disegnini scemi e un cappotto nero che non basta a non farti sentire freddo.
«Ho bisogno del tuo nome, del tuo numero di telefono, del codice fiscale e del nome della tua gattina» «Io sono Carlo» «Piacere Carlo, non ti preoccupare, hai fatto bene a portare qui…» «Circe, lei è Circe e…» a pronunciare il suo nome, quella gatta in fin di vita che stringi al petto, emette un debole miagolio e questo, per te, è decisamente troppo. Piangi. Ed insieme alle lacrime butti fuori tutta l’adrenalina che ti ha fatto guidare fino a qui, da me, senza la consapevolezza di schiacciare la frizione per cambiare la marcia, di premere sull’acceleratore durante i rettilinei, di manovrare lo sterzo per assecondare le curve e frenare agli stop o davanti alle strisce pedonali che, per fortuna, a quest’ora sono deserte.
Schiaccio un pulsante sulla mia scrivania per chiamare chi sbrigherà le ultime scocciature burocratiche, ma sarò io a farti firmare questo foglio che tu non leggerai in cui, dopotutto, mi autorizzi a salvare la vita della tua Circe. Davvero non hai il tempo e la testa, ora, per leggere ogni piccolo carattere stampato su questo foglio e, d’altronde, sappiamo entrambi che non hai altre alternative od opzioni, se vuoi che Circe torni a sedurti con la sua morbida pelliccia, dormendo sul tuo petto intanto che guardi la televisione sdraiato sul divano, lo stesso petto che Circe infilza con quei piccoli uncini on demand, in cerca di cibo ogni mattina. Quel petto che ora non avverte più il calore del suo corpicino, in questo momento di distacco, in cui io sfilo Circe dalle tue braccia e l’accolgo tra le mie, per portarla in ambulatorio e tu non riesci a guardare e resti a contemplare quel freddo, umido vuoto che è la sua assenza. Gli occhi persi. Ti stai chiedendo se questo è un addio.
Ho appena visto Seduced il documentario che racconta la storia della setta NXVIM con a capo il sedicente uomo più intelligente del mondo tant’è che è arrivato a marchiare delle donne con le sue inziali e a indottrinare lo sdoganamento di stupro e abusi su minori, addossando la colpa a chi “si sente” vittima. Se tu ti senti abusato è un tuo problema, non mio. Sei tu a non essere abbastanza forte per non viverti tutto questo da vittima. È la tua fragilità a creare l’abuso nella tua mente, non il mio esercizio di violenza, diceva, durante il suo Executive Success Program di auto-aiuto e crescita personale davanti ad un pubblico strapagante e adorante.
Prima riflessione
Che sia con la scusa dello Yoga Illuminante che arriva dall’India (vedi WILD WILD COUNTRY) o dello Yoga Sudaticcio Hollywoodiano (vedi BIKRAM: YOGI, GURU, PREDATOR) o che sia in nome di Cristo (vedi KEEP SWEET: PRAY AND OBEY) e tanti altri casi che non mi vengono in mente ora (vedi anche, in un certo senso, anche SANPA)… che diamine di problemi hanno i sociopatici, megalomani, mitomani con le donne? Sembra che queste persone abbiano costruito un impero di sopraffazione e violenza solo per scopare.
Scherzi a parte… a vedere certe cose è lampante come la sessualità delle donne perseveri ad essere una leva fortissima per ottenere il potere e mantenere il controllo. In queste dinamiche autoritarie e coercitive alle donne viene chiesto di scegliere tra sottomettersi o, sottomettendosi, essere allo stesso tempo le carnefici di altre donne. Anzi… si può dire che l’ingrato compito della violenza, spesso, venga appunto assegnato ad altre donne che lo perpetrano “nel nome del padre” da cui hanno ricevuto un osso. Come un’eco del potere maschile che acquisisce brutalità ogni volta che viene reiterato. Cosa che, ahimé, ho visto in ambienti che credevo sicuri, ma che “safe” non lo sono mai stati all’infuori degli slogan sui volantini.
Vuoi il potere e il controllo assoluto? Inibisci la sessualità femminile e metti le donne una contro l’altra inventandoti, magari, un’atavica attitudine e predisposizione tutta femminile all’invidia e alla competizione che, se non sbaglio, in realtà rappresenta un’esclusiva e un’eccezione nel regno animale in cui di solito sono i maschi a dover competere con piume colorate, balletti e ferocia.
Seconda riflessione
Sono ossessionata dalle sette perché so benissimo di avere la resistenza mentale di un lombrico e l’autodisciplina di una limaccia. Riesco ad essere dipendente anche dei giochini scemi sullo smartphone… So che, se dovessi avvicinarmi a qualcosa del genere, ci finirei dentro con tutte le zampe. E allora guardo – in modo ossessivo – tutto quello che ha a che fare con le sette e con le dinamiche che ti fottono il cervello, come per capire i trucchi e farmi gli anticorpi e, finalmente dopo anni e anni, ho capito che no, non mi potrà mai succedere perché… SONO POVERA.
Quella manifestazione di Natura semi-addomesticata formerly known as orto è prima di tutto un esercizio al desiderio. Passi un anno a desiderare cose sbagliate e super sexy come le fragole a dicembre nei supermercati ma ti astieni aspettando che arrivino le tue di fragole. Poi arrivano le fragole, tantissime, buonissime, tutte insieme, troppe. Da non sapere più che farsene. E non ti rimane che condividere e donare quest’abbondanza a chi hai intorno. Eppure quelle fragole (cetrioli, ciliegie, zucchini, pomodori…) sono sempre più di quante se ne possano mangiare in una stagione. Ma non riesci a farle andare a male perché ti ricordi di quel desiderio a cui ti sei astenuta per tutto il resto dell’anno.
Allora cerchi il modo di conservare quell’abbondanza e preservare quel piacere con confetture, sott’oli e barattolame vario – scongiurando il botulino – in attesa di quei tempi di assenza.
E niente, volevo dire che ho fatto questa marmellata con le nostre fragole e ci ho messo una banana dentro, perché era mezza marcia – sebbene quella che per noi è una banana marcia per altri è una banana matura e quella che per noi è una banana matura, per il resto di buona parte del mondo è una banana acerba – ed è buona in modo commovente perché, per sapore e consistenza, è come se stessi mangiando pane, burro e marmellata… ma senza burro! Giurin giuretta.
I Mortificatori è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte, per poi rieducarli a furia di supplizi e schiaffoni.
Alla fine per comprendere cosa sia il privilegio di genere – a parità di classe sociale e colore della pelle – basta immaginarsi due persone che dormono insieme in un letto. Uno (o una) dei due russa prepotentemente, ma non lo sa. L’altro (o l’altra) deve decidere se far finta di niente e subire, usare dei tappi per le orecchie e ignorare il problema, oppure combattere a furia di calcetti sugli stinchi, via via sempre più aggressivi, emettendo buffi versi dal fine educativo – ma dal suono bizzarro – simile a ciò che m’immagino quando leggo a mente le parole con la desinenza alterata in x, u, schwa o asterischi.
Saranno piccole cose, certo, che tanti potranno reputare ridicole; i calci e i versi non sono il rimedio definitivo contro il russare. Non guariscono l’altro (o l’altra) da quel disturbo ma se si vuole dormire nello stesso letto, bisogna trovare il modo di non subire l’altrui russare anche combattendo, calcetto e versetto dopo calcetto e versetto, minuto per minuto…
Allo stesso tempo, però, è necessario comprendere che non bisogna sempre reagire con stizza, perché non c’è dolo in quel curioso fenomeno che generalmente colpisce gli uomini, ma da cui le donne non sono escluse, perché chi russa non sempre è consapevole di farlo. Ed è altresì doveroso capire e far capire che il sonno di una persona che russa, tra apnee, reflussi, gorgoglii e respiri cacofonici, non è un sonno riposante e sono essi stessi (o esse stesse) vittime del proprio russare.
Perché in ogni caso, se qualcuno russa, tutti dormono di merda.
Vivere a stretto contatto con gli animali “da cortile” e recuperati da situazioni in cui la norma è crescerli per poi ucciderli per le loro carni, vuol dire vivere fianco a fianco con la merda, la malattia e la morte.
Animali fragili poiché non hanno mai dovuto trasmettere geni forti di generazione in generazione e, nel migliorare la propria specie, acquisire la capacità di sopravvivere a un banale raffreddore, per esempio.
A nessuno serve che questi animali siano resistenti e longevi. Neanche a loro stessi, dopotutto, serve far selezione naturale perché hanno difficilmente la sfortuna di invecchiare, come succede per cani e gatti per cui esiste un mercato della cura, invece.
Le galline devono fare le uova. Tante. Appena cala la loro produzione vengono uccise. Se si ammalano vengono uccise – imprecando – perché la carne non è più edibile e persino nella morte si sono rivelate inutili.
Il risultato è che non esiste una reale cultura del benessere di questi tirannosauri in miniatura, dallo sguardo vacuo, ma dalla forte personalità e dall’incredibile propensione alla distruzione. Beh, forse vorrei pure io attorno a me il caos e tiferei terrorismo, se fossi nata gallina ovaiola e non femmina dell’animale Uomo.
No, riformulo la frase. Partendo dal presupposto che persino io anelo al caos e alla distruzione, non oso immaginare quanta cieca furia possa esserci tra quelle zampacce unghiate di gallina ovaiola, per la vita di merda che fa.
Gallina Trinity è morta.
Mi sono svegliata una mattina ed era tutta arruffata nel suo nido da cui non voleva uscire. Dopo poche ore l’ho trovata morta con le zampe all’aria e il corpo rigido in una posa innaturale. Da un po’ di tempo non faceva più uova e ho passato le giornate a studiare le sue feci come fondi di tè, per capire se il suo corpo era abitato da pulci, vermi, acari o altri parassiti. Trovando pochissime informazioni in rete. Per non parlare dei forum di allevatori che credo abbiano una tastiera particolare con un tasto con su scritto “Facci il brodo”. Avrei dovuta portarla da uno dei pochi veterinari che ha a cuore la salute di questi palloni da football con le piume ma non ho fatto in tempo.
Ed io a Gallina Trinity le volevo bene, perché faceva il verso di un modem 56k, perché era tutta nera e si faceva tenere in braccio.
Strani soldati, quelli riesumati dalla penna di Giulio Questi, che come «uccelli portati dal vento di montagna» vagano per imprecise latitudini e oniriche curvature del tempo «alla ricerca di combattimenti e di cose da mangiare». Partigiani le cui storie non indugiano nella dolcificante agiografia dei giusti, ma hanno piuttosto il sapore schietto e amaro di una polenta bruciata; ad ascoltarle la Grande Storia si fa minuscola e feroce e i suoi attori vili e coraggiosi al tempo stesso, impegnati in una guerra di montagna noiosa e avventurosa, misera e felice, tenera e spietata, «una specie di grande educazione verso la vita, la morte e la natura».
È da questo straordinario repertorio di resistenza alla fame e al freddo, prima ancora che al piombo delle brigate nere, che abbiamo attinto per la realizzazione di questo radiodramma.
Atto primo: La Valle del Bergamino Impiccato
In cui si narra di una valle innominabile schiacciata sotto il barbacane di un diga e di un villaggio abitato da strani soldati senza divise e senza bandiere che giocano a carte, prendono il sole e aspettano qualcosa di grande. Poi arriva la pioggia e delle speranze rimangono solo gli spettri. Qualcuno bussa alla porta: sono tre fantasmi incrostati di sale.
In cui si narra dell’arrivo di un Comandante con scarpe di gomma, giacca bianca e due occhi celesti che sembrano sorridere. Gli uomini raccolgono i loro stracci per inseguire forse qualcosa di bello, forse solo il peggiore dei sogni, fatto di ghiaccio e buio.
Liberamente tratto dai racconti di Giulio Questi. Musiche originali composte e eseguite dal Kalashnikov Collective.
Atto terzo: Un fottuto casino. La battaglia.
In cui si racconta della battaglia di B., della sua sottintesa simbologia mistica, di come si possa entrare nella storia pur essendo indisciplinati, scalzi e affamati. Perché il mondo è tutto ciò che accade, ma quando accade è solo un fottuto casino. A chiudere: una diga, il dilagante nulla della sua monotona materia e la voce di un fantasma.
Liberamente tratto dai racconti di Giulio Questi. Musiche originali composte e eseguite dal Kalashnikov Collective.
Chi sono i mortificatori? Perché sono così interessati alle forme d’arte più radicali? Partendo dal presupposto che la pazzia è anche un godimento dei sensi, i loro adepti cercano nuove vittime tra i giovani artisti emergenti, i più sensibili alle sirene dei soldi, del successo e dell’egocentrismo, i più golosi di droghe e perversioni. I mortificatori sono consapevoli che dei soggetti così creativi possono andare in pezzi, appena un grammo di caos penetra nelle loro fragilità.
Il confine che divide l’arte dalla morte è troppo vago, chi potrebbe dire dove uno finisce e l’altro inizia. Per scoprirne il segreto si narra che questa setta misteriosa utilizzi la tortura mascherata da body art.
Leggenda metropolitana o realtà? Toccherà a Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.
Un romanzo che offre le chiavi per capire questi tempi feroci e quali pericoli si nascondono dietro la ricerca forsennata dell’apparire sempre sull’onda degli estremismi mediatici, religiosi o politici, in una società dove di estremo c’è solo la solitudine.
Mai mangiato il gyros in vita mia.
La cucina greca è approdata nel post-aperitivo urbano che già non mangiavo bestie e poi i miei vecchi hanno mangiato male in un ristorante greco a Parigi nel 1992.
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