Prima di entrare nel supermercato passo circa quindici minuti in macchina.
Ho scritto un racconto ikigai in cui parlo della metropolitana, di Adolf Hitler, di Lebensraum, di shrinkflation e di mirtilli. Il racconto è stato pubblicato su Specularia.
Che tutto strida
Prima di entrare nel supermercato passo circa quindici minuti in macchina.
Ho scritto un racconto ikigai in cui parlo della metropolitana, di Adolf Hitler, di Lebensraum, di shrinkflation e di mirtilli. Il racconto è stato pubblicato su Specularia.
Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amato. Pittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.
Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.
Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.
Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.
Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.
Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.
Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.
Dove c’è arte c’è speranza, ho pensato.
There is no place like home.
Dorothy, The Wizard Of Oz
Mosca, novembre 2041
«Conosci i tuoi nemici» pensa l’agente nascosto nell’ombra, studiando i membri della band che è appena scesa dal palco, intanto che ripongono gli strumenti nei foderi, scambiano battute e commenti su accadimenti ridicoli, stappano birre e non smettono di sorridere un instante. Prova pena per loro.
Una bollita di quarant’anni vestita come un clown con un gatto morto in testa, un dirigente che da troppe settimane non si fa la barba, un padre di famiglia stempiato e una ventenne dall’aspetto ordinario che indossa vestiti più vecchi di lei.
«Che accozzaglia di perdenti» conclude l’agente, chiedendosi a quale categoria di sconfitti appartengano. Grazie alla sua esperienza sul campo ha individuato tre tipologie di “rivoluzionari” che tra colleghi distinguono in uomini di latta, spaventapasseri e leoni fifoni.
I leoni fifoni credono di essere i re delle foreste, o ambiscono ad esserlo, ma sono così vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontare il mondo là fuori e, fin tanto che stanno chiusi in questo piano della realtà, possono sognare la rivoluzione ed illudersi di avere un briciolo di importanza e potere. Lo stesso potere che vorrebbero, ma che subiscono, fuori da queste mura e, proprio come nel Mago di Oz, basta lo schiaffo di una giovane donna con le treccine ed un vestito a quadretti che vuole difendere il suo piccolo cane, per smascherare la loro farsa. Essi infatti non sono avvezzi e non tollerano la disobbedienza o il pensiero critico, in quanto non li hanno mai esercitati e vissuti in prima persona, per assenza di coraggio.
Gli spaventapasseri, al posto del cervello, hanno paglia che prende fuoco facilmente. Perdenti, sconfitti ed emarginati in un mondo che obbliga all’eccellenza, si rintanano qui dove non devono far la fatica di pensare, studiare, informarsi e prendere decisioni perché tanto ci sono i leoni fifoni che spiegano loro come vivere, cosa mangiare, come vestirsi, che musica ascoltare, quale battaglia combattere e quale ignorare. Bastano pochi semplici slogan facili da imparare a memoria, grazie alla rima baciata e alla metrica da inno dei tifosi, per dar loro dei riferimenti certi che non saprebbero però argomentare né mettere in discussione. Privati dal sacco che contiene quella paglia, si disperdono con la prima folata di vento, pronti ad obbedire al padrone di turno che li plasma a suo piacimento. E così svolazzano, pronti a prender fuoco, seguendo le correnti.
E poi ci sono gli uomini di latta che hanno rinunciato al proprio cuore per il troppo dolore, le delusioni e le lamiere di sogni infranti che pungono e lacerano il petto ad ogni battito. Meglio smettere di credere, amare, sperare e partecipare perché dove ci sono gruppi sociali c’è il potere e dove c’è il potere c’è ingiustizia. E no, non esiste possibilità alcuna di rompere questo schema e creare una socialità libera dall’oppressione, i giochi di potere, la competizione tra leoni fifoni e l’utile stupidità degli spaventapasseri e allora è meglio strapparsi il cuore e rimanere in ascolto di quel vuoto che può essere colmato dall’ebbrezza, il cinismo e la provocazione.
E Dorothy? In quel film c’era anche una Dorothy con le sue scarpette rosse e l’amaro compito di svelare le illusioni del Mago di Oz e aprire le porte della Città di Smeraldo…
Non le capita di picchiare una Dorothy da tantissimo tempo. Non è che gli importi molto poi, al Tutore della Serenità protetto dal suo esoscheletro dai riflessi metallici, ma a volte è così noioso stare lì accucciati nel buio ad aspettare di massacrarli che, per passare il tempo, si diverte ad immaginarli come i personaggi di quel vecchio film. In fin dei conti sia il leone fifone, che lo spaventapasseri o l’uomo di latta, sotto i colpi del suo manganello, piangono tutti allo stesso modo. Eppure non riesce a capire a quale categoria appartenga quella ragazza dall’aspetto ordinario.
L’agente visualizza nel dispositivo occhio-orecchio il rapporto su quella che viene identificata come Dorotea D., classe 2018, ex dipendente della Woland Corporation e scopre che alcune note relative al soggetto sono secretate. La sua posizione all’interno della gerarchia dei Tutori della Serenità, però, gli concede di accedere solo ad alcune delle informazioni criptate. Sono delle istruzioni circa l’imminente operazione. Le legge e le cancella.
“Massacrare Dorotea D. chirurgicamente senza rompere ossa o lasciare danni permanenti, concentrare i colpi sul volto, ma senza sfregiarla irreversibilmente”.
L’agente non si fa domande e chiude il collegamento con il dispositivo occhio-orecchio. Nulla di quello che accadrà potrà essere registrato.
Mancano pochi secondi al via e l’agente guarda per l’ultima volta quella ragazza a cui dovrà rovinare quel faccino acqua e sapone. Dorotea, proprio come la Dorothy di quel vecchio film…
«Nient’altro che una coincidenza» pensa l’agente, prima di scagliare il manganello dietro alle ginocchia della ragazza.
Noi camminiamo lungo i binari del treno e riposiamo sui gasdotti
il nostro fiato è il fumo nero di una ciminiera,
la nostra stella polare è la luce gialla di un lampione.
2016, Lungo i binari del treno, Kalashnikov collective
(orig. “По трамвайным рельсам” by Yanka Dyagileva 1987)
«Sei pronta DeeDee?» mi chiede Panatta.
«Sì, sono pronta» rispondo e salgo su quel palco davanti a così tante persone ammassate l’una sull’altra da ricordare il brulicare del piccolo popolo nella vita batterica dell’humus del sottobosco. Una massa calda e percorsa da battiti, vibrazioni, ronzii, respiri, condensa, puzze, ruvidità, attriti e morbidezza, umidità e ossa dure, giunture spigolose e denti che sembrano candidi sassi. Salgo sul palco del concerto illegale che farà la nostra storia e la storia della musica, perché è dagli anni Venti che non si assiste ad un fenomeno, anche solo paragonabile, in quanto a numero di partecipanti e ore suonate dal vivo di seguito.
In ogni data del nostro tour, lungo 6 stagioni, abbiamo portato con noi chiunque avesse voglia di seguirci o fosse in possesso di uno strumento. C’è chi ci ha seguito con batterie realizzate con pentole e pezzi di elettrodomestici, chitarre ottenute da scatole di legno ed elastici ben tirati, strumenti a fiato ottenuti dai desueti tubi di scappamento di automobili abbandonate e chi ci ha seguito suonando la propria voce o perché non aveva mai visto Mosca o chi non voleva interrompere un discorso iniziato sotto il palco e allora, così come era venuto, è salito sul camper perché certi discorsi non si possono interrompere a metà.
Abbiamo percorso migliaia di km su strade distrutte dalle piogge e dal gelo. Pozzanghere ghiacciate che, come in un contagio, si diffondono di crepa in crepa fino a far sparire il manto stradale. E fango, fango e alberi a perdita d’occhio per ore e ore.
Il nostro contatto russo ha pochi denti in bocca, un sacco a pelo, una spazzola e delle pedine di scacchi avvolte nello stesso asciugamano che dovrebbe usare per lavarsi. Con i denti che gli sono caduti, a causa della carenza di vitamine ed eccesso di alcol tipico di queste lande, ne ha fatto un ciondolo che porta al collo.
Ci ha accompagnato per le prime settimane del tour oltre i confini dell’Antica Russia e poi si è fatto lasciare a piedi, nel nulla, con la promessa di ritrovarci a Mosca 5.0 per la data conclusiva del tour. Prima di congedarsi, ci ha fatto tre raccomandazioni:
- Non fidarsi mai degli sbirri, che non ha mai accettato di chiamare Tutori della Serenità, perché violenti e corrotti
- Non sostare più di 15 minuti all’aria aperta di notte con oggetti metallici in mano, o addosso, per evitare che ci si appiccicassero alla pelle nottetempo
- Stare attenti agli orsi
«Come? Come possiamo proteggerci dagli orsi? E quali orsi?» aveva chiesto allarmato Giulio.
«Non rimanete mai a secco e non passate la notte in autostrada. Gli orsi hanno lunghi artigli, capaci di dilaniare le lamiere» aveva concluso, allontanandosi coi piedi nel fango oltrepassando quel confine di neve sporca, pozzanghere e bottiglie rotte, dirigendosi verso un nulla siderale fatto di alberi neri, candida neve e molto probabilmente orsi dai lunghi artigli capaci di dilaniare lamiere.
«Si sta sicuramente suicidando – aveva commentato Giulio – cerchiamo se ha lasciato un biglietto da qualche parte. Viktoooor – aveva urlato con voce strozzata – Viktoooor, torna indietro!» continuava ad urlare con mezzo busto fuori dal finestrino, intanto che la carovana che si era creata dietro al camper di Monica cominciava a farsi impaziente e a ululare feralmente: “Viktoooor! Viktooor!” tra i clacson e il fragore dei coperchi di pentola adattati a charleston e le botti di legno come grancasse.
Viktor si era girato e aveva sorriso con quei due denti che gli rimanevano in bocca e aveva urlato qualcosa che non eravamo stati in grado di comprendere. Lo avevamo dato per disperso eppure è lì, sotto il palco, con la sua aria stropicciata e gli occhi buoni nascosti dalla malinconia di quei lineamenti così marcati dagli anni.
Viktor aveva avuto una band piuttosto nota e molto attiva nell’ultimo decennio del secolo precedente. Sebbene non avesse dovuto, come i suoi predecessori, sfidare la censura esplicita del regime comunista che reputava il punk, per esempio, effetto collaterale e marcio del sistema occidentale e, ubiquitariamente, di essere anche troppo critico nei confronti dello Stato, Viktor aveva avuto a che fare con la Russia pre-rivoluzione del Buonsenso.Un Paese che viveva nel culto della personalità del proprio presidente, in cui a giornalisti troppo curiosi e oppositori politici accadevano strani incidenti con il veleno, i Pride assomigliavano al massacro delle foche sulle coste della Namibia e un collettivo punk, di nome Pussy Riot, venne condannato a tre anni di reclusione e lavori forzati per “teppismo premeditato realizzato da un gruppo organizzato di persone motivate da odio o ostilità verso la religione o un gruppo sociale” a causa di una performance situazionista all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore, in cui nessuno si fece male se non le tre donne protagoniste del concerto improvvisato. Viktor detto “Grob” (che vuol dire “bara” in russo), un vecchio punk di appena 50 anni, nato nell’orribile cittadina mineraria di Mončegorski in cui si estraeva e si lavorava il Nichel destinato al mondo interno, che era cresciuto ascoltando i gruppi imbrigliati dalla dittatura del proletariato, perseguitato dall’ossessione per il controllo della Russia patriarcale e capitalista e infine insterilito dall’attuale sistema del Buonsenso della Woland Corporation & Co. eppure è lì, con la sua collana di denti e una bottiglia di vodka in mano che urla “Davai, davai, porco dio!”. Glielo abbiamo insegnato noi, sebbene le bestemmie non abbiano più molto senso nell’epoca della razionalità laica, in cui nessuno fa guerre in nome di un dio o di un’ideologia.
Nessuno opprime, schiaccia, stupra o si arma per invadere i confini e bombardare le città.
Abbiamo illuminato le nostre città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere ovunque, perché i nostri occhi servano solo ad ammirare quella sezione di tramonto inquadrata dalle finestre del nostro salotto. Non abbiamo bisogno di pregare o bestemmiare perché non esistono angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle. Nessuno abbandona auto, infrage vetri o taglia gomme. Non esistono vicoli bui in cui aver paura o ideali per cui immolarsi.
Non abbiamo bisogno di un dio da ringraziare per il tramonto di questa sera. Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, perché in questo momento storico è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare. Abbiamo vissuto sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli.
Non abbiamo bisogno di bestemmiare perché nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi.
Nell’epoca del buonsenso non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico.
Ed è grazie a Woland se non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede.
Abbiamo dimenticato lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che finivano comunque sotto la terra, ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano.
Ed è merito dell’algoritmo se, adesso, ciò che fa male è illegale. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco e misurare l’esistenza di dio, della sua parola noi non ne facciamo la nostra legge.
Eppure continuiamo a farlo. Preghiamo e bestemmiamo. Ci inventiamo rituali e cerimonie. Celebriamo ogni cosa che amiamo, malediciamo tutto il resto. Ed io, in questo momento solenne che precede ogni concerto, prego il fuoco affinché possa bruciare le mie bugie.
Mi chiamo Dorotea Disastro e vi chiedo di perdonarmi, se potete.
"Il grande rogo del '25" è un romanzo in progress scritto, letto e montato da . Musiche di Heimat Der Katastrophe. La canzone iniziale e finale è un'interpretazione di "Lungo i binari del treno / По трамвайным рельсам" by Yanka Dyagileva cantata da me ai tempi dei "tour scemi" (cit.) in Russia insieme ai Kalashnikov Collective. Esperienza che, ovviamente, ha ispirato buona parte di questo romanzo. Se volete sapere qualcosa di più sui "tour scemi in Russia" trovate tutto il reportage qui.
Yeah, I’ll be seeing you in hell
1983, Die, die my darling, MISFITS
Seguimi in questo tunnel di rovi, di rampicanti e macerie dove i baci sono morsi che sbranano il dolore.
2016, L’amore in tempi dispari, KALASHNIKOV COLLECTIVE
Il ginocchio di Fausto sfiorava il mio. Ed io ricambiai spingendo il mio, contro il suo con una maggiore pressione perché sapevo che ciò era sconsigliato e inappropriato. Pochi centimetri di pelle a contatto che parlavano un linguaggio che solo noi potevamo comprendere. Fausto abbassò il volto per nascondere un sorriso sconveniente. Ed io spinsi ancora più forte la mia gamba (ora, persino la coscia) contro la sua, perché era qualcosa che non avevo mai fatto prima e il mio corpo, in quei centimetri di pelle, esercitava un potere che io non avevo mai sperimentato. Come il mio ginocchio contro il suo, così i nostri corpi nudi sotto i palmi delle nostre mani e quei baci che assomigliavano a morsi, pronti a sbranare voracemente quella che era stata la mia, e la nostra vita, prima di quella notte , quella stessa vita che però si ERA FATTA strada, ostinata e inamovibile, insieme alla luce del giorno.
Avevo già fatto sesso, certo, ne avevo fatto quanto basta, eppure stavo sperimentando la sensazione più erotica della mia vita, in quella pressione del mio ginocchio contro il suo, nella sala d’attesa dell’ufficio dell’assistente del signor Woland in persona e della sua squadra di lavoro.
La nostra “presentazione” del progetto per la conquista del segmento di pubblico, che rifiutava di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma di musica digitale della Woland Corporation, aveva fatto parecchio rumore… nel vero senso del termine. Così tanto rumore da arrivare ai piani altissimi dell’edificio e, da lì a pochi istanti, avremmo dovuto parlarne direttamente con la squadra di lavoro che, non solo era a capo della delegazione di Milano, ma lavorava a stretto contatto e si relazionava direttamente, ogni giorno, con Michail “Huxley” Woland in persona.
Avevamo ottenuto ciò a cui nemmeno i più alti livelli potevano ambire. Arrivare al nucleo, alla testa pensante dell’edificio dai vetri dei colori del cielo, era qualcosa che neanche Fausto aveva mai vissuto o sperato di poter vivere nell’intero arco della sua carriera. Ed era nervoso. Era eccitato, ancora. Ed io come lui, sebbene nell’ultima notte passata insieme non avessimo fatto nulla di eccezionale se non ubriacarci, ascoltare musica e fare sesso.
Ma ciò che rendeva tutto così sconveniente, sbagliato ed “emotivo” era l’averlo fatto perché lo desideravamo e senza pensare alle conseguenze e ai vantaggi che bere, fare sesso, ascoltare musica e raccontarci i nostri più intimi pensieri, avrebbe generato nelle nostre vite a breve, medio o lungo termine.
Non avevamo fatto foto e non avevamo immaginato le possibili reazioni delle nostre comunità elettriche. Fare sesso con un utente con il seguito che vantava Fausto, mi avrebbe portato ad un aumento di fedeli e seguaci, mi avrebbe catapultata nel mondo di quelli che la gente imita e assume a figura di riferimento e statistica. Documentare l’aver fatto sesso con lui, avrebbe aumentato il mio punteggio sociale, eppure non mi aveva minimamente sfiorato il pensiero di interrompere ciò che stavo vivendo per estrapolarne un istante ad uso e consumo del mio pubblico. Non avevo pensato a didascalie buffe e profonde da associare alla nostra esperienza comune. Non sentivo nessuna voce interiore che narrava il presente, immaginando poi come sarebbero suonate quelle parole nel report sociale quotidiano sul mio diario digitale. Avevo vissuto e basta… senza lasciare traccia.
Me ne ero resa conto solo dopo aver riattivato il mio dispositivo occhio-orecchio, ed essermi accorta, che tanti mi avevano cercato non vedendo più la mia testimonianza di essere viva. Avevo mangiato e cosa? Avevo fatto esercizio fisico? Quanti chilometri o a quale frequenza cardiaca? Quante calorie o oggetti di cultura e intrattenimento avevo consumato?
Uno scatto alla copertina e una serie di stellette per giudicare, con un semplice tocco delle dita, il lavoro di mesi o anni di un altro individuo. Avevo comprato dei vestiti o provato una nuova acconciatura grazie ad un simulatore virtuale? Non esisteva testimonianza del maglioncino nero abbinato alla camicia verde smeraldo che avevo indossato la mattina, guardandomi allo specchio. E i miei esami del sangue senza asterischi? Scatto. Esami del sangue con qualche infausta diagnosi? Scatto e foto-ritratto nel letto di ospedale. Perché senza la reazione di un pubblico, il fatto non sussiste. Perché da quando abbiamo rinunciato alle emozioni e le passioni, è solo l’approvazione o la contestazione degli altri a misurare la nostra gratificazione e miseria. Perché se non lo racconti, non lo hai vissuto. Se non lo fotografi non lo ricorderai. Se non lo comunichi, non lo senti.
Eppure io avevo ascoltato Fausto per delle ore. I suoi ricordi, le sue emozioni, il suo vissuto di quell’epoca che ricordavo solo nei racconti epici, frammentari e distratti di quel fantasma dell’uomo che doveva essere stato un tempo mio padre. Ai tempi non sapevo neanche se fosse ancora vivo. Il mio genitore che non avevo mai chiamato papà…
Non avevo rapporti con i miei genitori da quasi sette anni. Da quando, compiuti i sedici, avevo abbandonato la casa in cui ero cresciuta e preso una stanza in dormitorio, secondo quanto stabilito dalla legge. Sotto il regime del buonsenso nessuno è obbligato moralmente o legalmente a mantenere un rapporto con la coppia genitrice se, statisticamente, la relazione non rappresenta un vantaggio per tutte le parti coinvolte. Ma ciò non accade quasi mai e, come una malattia genetica, nonostante tutte le precauzioni di igiene pedagogica adottate, gli errori dei genitori si riversano sui figli che a loro volta contaminano di aspettative, bisogni puerili di affetto, affermazione, rivalsa e approvazione irrazionale ogni altro legame.
Staccare il cordone ombelicale non ha mai avuto così tanta importanza come nell’epoca post-pandemica in cui fummo tutti costretti ad accettare che, per tornare alla vita, dovevamo liberarci della zavorra.
Vecchi, malati, indigenti, disoccupati, tossici, disturbati, alienati, handicappati, depressi cronici, stupidi dal QI infimo… Senza di loro, spazzati via dal virus, dal rifiuto di vaccinarsi o dall’interruzione dell’erogazione di qualsiasi servizio sanitario e assistenziale statale, che troppo spesso si dava per scontato, venne rianimata un’economia attaccata ad un polmone artificiale che prometteva, senza alcun buon senso, il benessere di molti a discapito di tutti. Senza stolti, fragili e malati a pesare sulle spalle di noialtri sani studenti e lavoratori dalle eccellenti prestazioni, si vive decisamente meglio.
Durante i miei studi universitari ho dato un esame di Storia del sentimentalismo con un focus sulla “disperazione”. Non mi fu difficile immedesimarmi in un mio coetaneo degli anni Venti, ma mi sembrava così assurdo che così pochi avessero preferito una razionale interruzione della propria vita, in nome di una non computabile speranza che qualcosa sarebbe cambiato nelle loro vite, migliorandole. Loro, di certo, non potevano sapere che Woland avrebbe rivoluzionato, salvandole, le nostre esistenze.
Ma uno come Fausto, per esempio, che aveva studiato in una scuola pubblica in cui i docenti non insegnavano la storia più recente che andava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, passando per gli anni di piombo, per arrivare a tangentopoli – argomenti che la politica considerava divisivi – perché , buona parte di ciò che era accaduto in quegli anni, non aveva ancora una verità ufficiale (o pronunciata dai tribunali) che potesse essere raccontata. E allora ecco che la storia finiva con la vittoria della democrazia al referendum del ‘46 ed un breve cenno su chi, quella democrazia, l’aveva conquistata, costruita e rivendicata.
Fausto poi aveva frequentato l’Università statale e cercato un impiego, rendendosi conto di essere in ogni caso scavalcato da chi, grazie ad un percorso accademico e formativo a pagamento, era più preparato per il mondo del lavoro, più inserito, più colto, più bravo a scrivere una lettera d’impiego e a sostenere un colloquio.
Fausto aveva passato i primi 10 anni dopo il diploma di laurea a collezionare contratti di lavoro precari, mal pagati e non specializzati, che gli avevano fatto dimenticare quel poco che aveva appreso durante gli studi. Era riuscito ad ottenere un contratto decente, che di anni ne aveva trenta e un ruolo decisionale solo a 35 anni.
«E per voi donne era anche peggio» mi aveva detto quella notte, confermando il frutto dei miei studi per quella tesina sulla disperazione. «Attorno ai 30 anni, dopo oltre 10 anni che lavoravo e studiavo, mi è arrivata una lettera da quello che un tempo era l’ente provvidenziale, grazie alla quale appresi che avrei dovuto lavorare fino a 79 anni. Ed era stato così anche per Giulio, che lavorava con gli anziani non autosufficienti che al tempo venivano ancora tenuti in vita e c’era gente come lui, per l’appunto, che veniva impiegato per nutrirli, lavarli, farli andare persino in bagno» mi aveva raccontato.
«Era una strana epoca la vostra. Mi stai dicendo che il protocollo DEATH ( Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene) non veniva applicato?» avevo chiesto.
«Negli anni Venti, prima della pandemia, il protocollo DEATH era soltanto l’acronimo di Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene ed era uno strumento di misurazione per valutare la gravità dello stato di salute di un individuo e la sua autonomia nello svolgere le attività quotidiane. Non era come oggi, col sistema attuale, in cui se un individuo non è in grado di vestirsi, mangiare, camminare, andare in bagno e lavarsi in autonomia, allora viene eseguita la sentenza e quindi c’era bisogno di persone come Giulio che se ne occupavano e, se non fosse stato per Woland, l’aspettativa era quella che avrebbe dovuto farlo fino agli ottant’anni e badare così a suoi coetanei!»
Follie democratiche che ci siamo lasciati alle spalle. Ora, disabili permanenti, malati terminali e anziani non autosufficienti vengono accompagnati con dolcezza, verso una morte liberatrice. Non ha alcun senso obbligare loro ad un’esistenza di sofferenze e umiliazioni, sovraccaricare di fastidi e imporre sacrifici alle famiglie e costi per lo Stato ed i contribuenti. Senza neanche bisogno di prelevare una singola goccia di sangue o materiale organico, inoltre, un potente programma di calcolo è in grado di individuare, facendo interagire tra loro le due sequenze di DNA di chi desidera un figlio, le possibili malattie genetiche invalidanti o la tendenza a gravi patologie prima ancora del concepimento.
«Assurdo! Vivevi in un’epoca priva di senso. E lo Stato? Come giustificava questa follia? Voglio dire, come poteva risultare credibile nell’emanare leggi che obbligavano una carcassa ambulante a dover prendersi cura, per lavoro, di altri soggetti inutili al benessere comune?» avevo chiesto, pur sapendo la risposta. Sapevo molto bene che, ai tempi, il mondo era in mano a uomini (soprattutto) e donne che avevano superato da tempo l’età del ritiro e che, avidamente (anche l’avidità era frutto del sentimentalismo dopotutto), partivano dal presupposto che la propria condizione di privilegio, come essere in buona salute, l’accessibilità all’assistenza e alle cure mediche, fare un lavoro intellettuale con la possibilità di delegare a schiere di schiavi ed assistenti, fosse applicabile ad ogni strato e classe della società. No, per loro non sarebbe stato un problema lavorare, in quelle condizioni, fino agli ottant’anni. E poco importava se non avevano formato degli eredi capaci di proseguire il loro lavoro, perché fintanto che fossero stati in vita, avrebbero costituito una minaccia e, una volta morti, non avrebbero avuto alcun interesse sulle sorti dell’azienda che gestivano, dell’ente di cui erano presidenti, della cattedra universitaria che occupavano, del ruolo amministrativo per cui erano stati eletti e così via. Egoisti e avidi che non vedevano al di là della propria ricchezza terrena da proteggere con tutto il potere che erano in grado di esercitare.
La vera svolta della rivoluzione di Michail “Huxley” Woland fu quella di smascherare l’avidità liberale, in quanto frutto corrotto di un sentimentalismo irrazionale. Che le masse proletarie fossero manipolabili attraverso l’emotività su cui facevano leva i cosiddetti populisti non era una novità, ma che persino i vertici del mondo fossero messi su di un patibolo e svestiti delle proprie corazze, privati di quel potere abusante e distruttivo, liberati dalla gerarchia che li proteggeva indebolendo il tessuto sociale, era qualcosa che raramente si era visto prima; ad accezione delle grandi rivoluzioni che però erano partite dal basso e poi fallite per motivi, purtroppo, maledettamente emotivi e irrazionali.
L’epoca che aveva preceduto la pandemia era stata decisamente assurda e disperata. Di tutte le storie che mi aveva raccontato Fausto quella notte, l’unica sensata era stata quella di Wendy che aveva deciso di ammazzarsi.
A partire dalla pandemia del 2020 e nel decennio successivo, queste cloache di illegalità e sporcizia, vennero sgomberate, murate e dispersi i collettivi che le occupavano e le abitavano. Il medesimo trattamento fu riservato ad ogni forma di illegalità e devianza che minacciava una possibile nuova ondata di contagi o di incendi. Il terrore per la malattia e il caos del 2025 spianò la strada all’applicazione scientifica delle teorie di Woland e della sua riforma.
E così vennero chiusi i centri sociali e le case occupate, repressi gli scontri durante i cortei e le proteste simboliche apparentemente pacifiche, messe a tacere le radio clandestine e sequestrata ogni singola fanzine o volantino, ma ciò che ne emerse è che la gente, senza questi luoghi in cui organizzarsi e aggregarsi tra simili, creare musica, arte e altre inutili baggianate politicamente ininfluenti – in fin dei conti – in quel momento storico in cui si resero conto di vivere la vita dei loro padri e delle loro madri tra monogamia, famiglia, casa, lavoro e routine asfissianti (eppure infinitamente più poveri rispetto ai propri genitori), sbroccarono del tutto nell’acquisire la consapevolezza di essere, dal lunedì al venerdì, degli schiavi.
I primi fuochi vennero appiccati dai fascisti e dagli anarchici, gli uni contro gli altri. Seguirono mesi e anni di incendi, disordini e distruzione in cui i libertari davano fuoco alle macchine dei padroni, ai simboli dell’oppressione e ai palazzi dei potenti.
I fascisti al potere incendiavano gli animi del popolo più povero di capacità critica (e facilmente infiammabile) puntando il dito sulla sovversione anarchica, l’insofferente miseria dei migranti e la coesa autodeterminazione di popoli con un dio, e un’idea di società, in disarmonia con la propria tiepida condanna di rana bollita su un fornello acceso. E ancora fuoco.
I roghi dei campi Rom si estesero fino ai quartieri popolari dove i più giovani figli della miseria e dell’invidia, approfittavano del caos e dei continui black-out, per scagliare molotov contro le Forze Armate e lanciare mattoni contro le vetrine di quei negozi di tecnologia elitaria, per cui erano stati sfrattati dalle strade in cui erano cresciuti giocando a pallone o facendo il palo ai fratelli maggiori che spacciavano. Questo esercito in poliestere, puzza di piedi e hashish, sfregiava le macchine dei borghesi, vandalizzava i loro ristoranti biologici e saccheggiavano i negozi di design e atelier di arte sperimentale, sbucati come foruncoli grazie alla riqualificazione urbanistica intossicata dai fondi destinati alla cultura, all’istruzione e al benessere sociale. Tutto questo prima di dargli fuoco, ovviamente.
E gli impiegati, vedendo ridotta in cenere quella che (ancora 32 rate e) sarebbe stata la loro automobile, ibrida, perché si può parcheggiare all’interno delle linee blu del centro davanti a quel bar dove diluire, insieme al ghiaccio dei cocktail, la convinzione di non essere mai all’altezza delle situazioni, sentirono tutto l’affanno e la stanchezza di quella corsa verso la prossima promozione, la prossima vacanza, la prossima scopata, il prossimo weekend… e cominciarono, letteralmente, a darsi fuoco.
Senza preavviso, senza sorpresa, smisero di buttarsi sotto i treni, sedarsi con l’alcol e lo yoga per inzupparsi gli abiti di vodka polacca e trasformarsi in torce umane nella metropolitana all’ora di punta, nelle sale riunioni sotto il fascio di luce di un proiettore, nelle palestre open space… essi bruciavano, sorridendo e urlando di gioia e dolore.
In quegli anni il cielo era rosso sangue e l’aria puzzava di grasso arrosto. Lo chiamarono il Grande Rogo Civile del 2025 e morirono centinaia di persone in ogni città, tra migranti di seconda generazione con le tasche piene di smartphone da migliaia di euro, pompieri martiri, sbirri linciati, gay e femministe messi al rogo dai sovranisti, pire di medici puniti da chi si sentiva vittima di un’inverosimile dittatura sanitaria, presunti untori colpevoli di focolai infettivi in occasione di feste di compleanno festeggiate in un fast-food… Fuoco, fuoco e ancora fuoco, con la stessa furia di quell’eruzione vulcanica che doveva aver distrutto Ercolano e Pompei.
A spegnere il fuoco ci pensarono i neonati Tutori della Serenità della Woland Corporation. E furono proprio i primi sostenitori della dottrina del buonsenso – alcuni di loro erano stati gli incendiari della primissima ora – dopo aver contribuito a spegnere anche il più innocuo tra i falò, a sussurrare nell’orecchio dell’apparato statale che, forse, concedere al popolo (soprattutto a quelle tribù più insofferenti come i punk e gli appartenenti alle controculture in generale o a quei grandissimi rompiballe degli anarchici) qualche piccola libertà in quelle minuscole e controllate sacche di illegalità, rendeva di conseguenza possibile il lavoro nelle fabbriche, negli uffici amministrativi o nelle agenzie creative, per esempio.
I punk, gli anarchici, i sedicenti rivoluzionari, i bombaroli e gli incendiari tornarono a pulire culi o lavorare nelle scuole (relazionandosi con genitori che non accettavano autorità all’infuori dell’eccellenza e la genialità del figlio). Accettarono di passare dalle otto alle dodici ore con persone con cui non avevano nulla da dirsi a parlare del meteo – ma non della crisi climatica – per non turbare la suscettibile armonia di quella cattività illuminata dai neon.
Chi aveva appiccato i primi fuochi tornò ad occuparsi di disabili, di reti idriche, impianti elettrici e patatine fritte servite con il ketchup a parte, pacchi e pizze al kamut da consegnare in fretta ed evitare una valutazione negativa o un richiamo formale. Si tornò, insomma, a lavorare esattamente come prima del Grande Rogo.
Tutto questo fu possibile grazie a quella becera promessa festiva, ma a tempo determinato, di un concerto in cui esprimere le inclinazioni artistiche, di un piccolo corteo o sit-in in cui manifestare il proprio dissenso, tra una settimana lavorativa e l’altra. Dopotutto, a questi insofferenti e ribelli a cui “non vanno bene le cose”, basta la ricercata alienazione di queste oasi dove si sentono protetti e tra simili, per poi tornare il lunedì ad indossare un sorriso comune e timbrare il cartellino. Permettere l’esistenza di certi spazi non è altro, dunque, che una calcolata questione di buonsenso, di utilità e di efficienza.
Un autobus di linea rallenta e si ferma davanti all’ingresso di ciò che un tempo doveva essere uno strip club e che, di quel passato, conserva i velluti, l’ammiccante penombra e gli affreschi di cattivo gusto. L’autobus è fuori servizio eppure è pieno di passeggeri. Hanno caschi neri, passamontagna e un esoscheletro di silicone, anch’esso nero ma che riflettendo la luce dei lampioni libera riflessi cangianti che vanno dal verde al viola e che gli ricopre il corpo dal torace agli stinchi. I grossi fucili che imbracciano, sono caricati con proiettili di gomma, ma hanno comunque l’aspetto minaccioso di zampe urticanti e pungiglioni di aracnidi mutanti.
Scendono tre alla volta, in un batter d’ali senza emettere neanche il più debole dei brusii, dalle tre porte dell’autobus che si sono aperte sulla strada brulicante di persone accorse per il concerto. Il locale è già pieno, ma loro vogliono comunque entrare. Vanno dai 14 ai 50 anni e sono lì perché vogliono sentirci suonare dal vivo. Sono qui per la nostra musica. Se non fosse per questa motivazione, e cioè l’ultima data del nostro tour organizzata da una radio clandestina universitaria, probabilmente sarebbero nelle loro case. Al caldo e al sicuro. Ma invece la voce è girata in fretta e si è sparsa anche oltre i confini della città e ora ci sono centinaia di persone riversate in strada, che vogliono entrare in quello che un tempo era uno locale di spogliarelli e strusciamenti. Ma le porte sono chiuse dall’interno ed è inutile accalcarsi contro, in cerca di protezione o di una via di fuga da quegli uomini scesi dall’autobus che sparano, picchiano e calpestano chiunque, facendoli cadere sotto i loro colpi.
Chi è stato più veloce dei proiettili, scappa verso quelle porte che non possono aprirsi, perché dentro sono state sprangate da altri soldato-insetto che da ore aspettavano il segnale concordato. Nel buio e nel silenzio di quelli che un tempo dovevano essere i camerini delle spogliarelliste di un club sexy ormai in rovina. Tra specchi vandalizzati e separé con scorci di paesaggi orientali ed eleganti geishe, nella calma apparente di un ragno che si nasconde nell’angolo della sua tela. E come ragni affamati, ma pazienti, hanno aspettato il via che è arrivato tramite il loro dispositivo occhio-orecchio e così hanno dato inizio al massacro. Una carneficina di quell’adunata per nulla igienica, di nostalgici della musica suonata dal vivo che, ricordiamocelo bene, non solo è lesiva per l’immagine della Woland Corporation, ma minaccia la serenità di tutta la città promuovendo un comportamento lontano anni luce dal buonsenso, uno stile di abbigliamento fuori dagli standard del mercato ed un consumo di bevande prive di status. Non è la prima volta che ai Tutori della Serenità si chiede di reprimere nel sangue questo tipo di iniziative e sapevano molto bene come sarebbe andata a finire.
Quegli individui all’interno dello strip club, che non aderiscono a nessuno dei buyer persona ufficiali, che non rivendicano l’appartenenza a nessuna comunità merceologica e non sfoggiano nessuno status, sono in effetti privi della benché minima struttura ossea come coleotteri senza cuticola. Molli e viscidi che si accasciano sotto i colpi del manganello.
Basta colpirne molto bene e con molta violenza una decina, per ottenere la resa di tutti gli altri. La cosa più difficile è comprendere quali vanno poi arrestati e quali soltanto spaventati. Non è semplice individuare, all’interno di quel flagello di lacrime, sangue guizzante e ossa fracassate, quali siano i musicisti e quali gli organizzatori. Distinguere chi viene pagato per suonare, da chi guadagna nell’organizzare il concerto e chi acquista un biglietto per assistervi ed è lì come pubblico pagante, è praticamente impossibile. Stessi vestiti, stesso cibo, stessi spazi. Nessuna area riservata per i musicisti o manovalanza per portare gli strumenti e fare il soundcheck in attesa delle star. E c’è chi si assenta dal mixer, per sbucciare cipolle e friggere falafel in cucina. Chi, dopo aver finito di suonare, si siede dietro a quei tavoli disseminati lungo le mura del capannone fatiscente o in alcuni casi addirittura lungo il perimetro immaginario di uno spiazzo di un bosco, per vendere magliette dai disegni spettrali, riviste in bianco e nero e rilegate con fili di spago o graffette metalliche, dischi incisi su vecchie lastre con crani, carpi e metatarsi fratturati ed esposti senza codici a barre o etichette con il prezzo.
Per non parlare dello schifo e lo sporco. Perché è tutto così maledettamente lercio, polveroso e brutto. Cessi puzzolenti spesso rotti, dai pavimenti scivolosi di fango, piscio, birra e vomito. Pareti piene di scritte, adesivi e volantini sbiaditi con le indicazioni cifrate del prossimo concerto clandestino. Cani e merde di cani. Ratti e bava di lumaca. E gli abbracci tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne, a gruppi di due, tre o anche mezza dozzina di persone abbracciate tra loro e i baci con la lingua, schiacciati contro le pareti sudice o buttati per terra in mezzo alle lattine vuote e i mozziconi di sigaretta, come cani.
L’agente a capo del blitz odia tutto questo e, sebbene per la legge del buonsenso, sia sconsigliato l’uso della violenza fisica e l’abuso di potere da parte delle Forze della Serenità, non può fare a meno di provare una sensazione di liberazione e catarsi nel momento in cui può finalmente rompere qualche osso di quei selvaggi con il suo manganello in dotazione.
Ciò che fanno è pericoloso, brutto e inaccettabile. Non guadagnano crediti, punti Autorevolezza o fedeli della propria Comunità Elettronica e mettono loro stessi in una situazione di rischio sanitario e imprevedibilità, per cosa? L’agente camuffato nel suo esoscheletro non lo capisce e ciò che non può essere capito, che mette in discussione quelle regole che ci permettono di avere il controllo sulle nostre esistenze, va combattuto e sconfitto.
Le regole di una comunità sono dogmi che non ammettono eccezioni, trasformazioni o alcuna forma di evoluzione perché la società è un’organizzazione di tipo razionale e non un organismo vivente che muta, si adatta e reagisce in base ai fattori esterni, all’emotività dei singoli e, soprattutto, alle fragilità degli ultimi. Perché una società basata sulla fragilità o il sensibile sentire è destinata a mettersi sempre in discussione, rivedere le proprie regole, o adattarle, e nessuno vuole questo. Nessuno vuole vivere nell’incertezza e nella paura. Non più. È una questione di buon senso, per esempio, concedere che esistano ancora – in misura controllabile – questi spazi.
“Unlimited tolerance must lead to the disappearance of tolerance. If we extend unlimited tolerance even to those who are intolerant, if we are not prepared to defend a tolerant society against the onslaught of the intolerant, then the tolerant will be destroyed, and tolerance with them.”
1945, Open society and its enemies, KARL POPPER
Non potevo sapere che un cuore di cane è la disgrazia più grande,
2004, Cuore di cane, KAFKA
non potevo sapere che un cuore di cane è la colpa più forte.
Giulio, dopo anni e anni, aveva finito per crederci che il punk non fosse altro che un genere musicale o, al limite, una fase necessaria di rottura in cui gli adolescenti costruiscono la propria identità nel mondo, per contrasto. Siamo quello che siamo, in fondo, perché abbiamo fatto delle scelte in opposizione a quello che era l’autorità costituita. Sia che essa fosse rappresentata dai genitori e dai loro canoni estetici e morali, sia che essa trovi forma in una qualsiasi delle istituzioni del sistema a partire dalla scuola per finire con la Chiesa.
E così, complice la pandemia degli anni Venti che rivoluzionò la vita sociale, un buon lavoro come educatore che lo portò a sporcarsi le mani nella vita reale e del tutto scollegata dagli idealismi della militanza, una moglie che amava sinceramente (e i quattro figli tutti voluti e cercati) e finanche la anch’essa autentica convinzione che oggettivamente il sistema in cui vivevano, andava distrutto dalle basi e ricostruito, Giulio C. dimenticò presto la sua chitarra elettrica in cantina e fu uno dei primissimi sostenitori della dottrina del buonsenso di Michail “Huxley” Woland.
Una soluzione razionale e misurabile che, dati alla mano, valicava qualsiasi potere precostituito era la “cosa” più vicini all’anarchia che quell’uomo, ferito dalle brutture del mondo e deluso dalle ideologie, avesse mai sperimentato. Perché se è vero che amava moltissimo i suoi figli, era altrettanto vero che il suo stipendio poteva garantire una vita adeguata e un’istruzione prestigiosa solo ai primi due. Il terzo e il quarto erano “arrivati” per pura irrazionalità. E quella folle gioia di volersi circondare di figli amati e felici, in un mondo pieno di bambini sfruttati, picchiati, traumatizzati o semplicemente cresciuti da idioti, aveva portato ad una serie di rinunce (sua moglie, per esempio, non ricominciò più a lavorare) e di sacrifici che contribuirono alla crisi sfociata in un divorzio lampo.
Con la fine dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della dittatura dell’Emotività, era sufficiente portare un test della compatibilità per ottenere, seduta stante, l’annullamento di ogni matrimonio stipulato prima delle riforme.
Dopotutto il mondo era allo sbando. Famiglie ignoranti e indigenti sfornavano cucciolate di futuri schiavi che non potevano mantenere, condannandoli ad un futuro sieropositivo, intanto che il ricco Nord cresceva piccoli psicopatici fascisti, dando loro in dote armi da fuoco e ansia.
Ma questo era il passato, ora, ad una coppia con una bassa compatibilità genetica atta alla procreazione viene consigliato di ricorrere all’adozione, di uno dei tanti bambini, che vengono portati via da quelle famiglie incapaci di mantenerli o crescerli, a causa di scarsa intelligenza, cultura o reddito e che hanno concepito senza l’avallo del sistema sanitario nazionale.
Sia ben intenso: non è vietato procreare in quei casi ma è sconsigliato e il buonsenso insegna che quando si prendono decisioni avventate, dettate dall’emotività o dall’arroganza che trascende il sapere scientifico ed empirico, si deve essere, di conseguenza, responsabili in toto delle proprie scelte. Niente sussidi, parchi giochi inclusivi, permessi speciali sul lavoro, insegnanti di sostegno, accesso alla sanità pubblica, bonus fiscali o altre forme di accatto. Un antico adagio diceva qualcosa del tipo “hai voluto la bicicletta? E ora pedala”. Niente pedalata assistita per chi non accoglie il buonsenso nella propria vita, cittadino.
D’altronde era finita da molto tempo l’ossessione, tipica dell’epoca delle Democrazie Apparenti, di dover sovrappopolare un pianeta già al limite di sopportazione. L’istinto materno era stata un’invenzione inculcata nella mente delle classi meno abbienti in quei tempi irrazionali in cui, l’avidità dei padroni, voleva forza lavoro da impiegare nelle fabbriche, nei campi e carne da macello per le guerre e i lavori degradanti o logoranti.
Facendo loro credere che l’ultralavoro e i sacrifici servissero per far vivere meglio i propri eredi, come in una sorta di martirio religioso pregno di ricompense ultraterrene, ma non godibili a breve termine nel qui e ora, essi obbedivano e si moltiplicavano. Una volta insegnato il buonsenso anche nelle scuole e smontata la mitologia e le credenze superstiziose legate all’istituzione della famiglia, il problema della sovrappopolazione svanì e così la carenza delle risorse e la loro distribuzione che divenne finalmente equa.
La non-logica del profitto capitalista, aveva raggiunto un tale livello di sclerotizzazione, che aveva fatto il giro su se stessa in un loop auto-cannibale. Un avido uroboro che tutto consuma e tutto distrugge nel tentativo di mangiare persino la propria coda.
Nel nord del mondo si moriva di malattie debellate da secoli o per un acquazzone improvviso, sommersi nel fango e nella propaganda anti-scientifica. Nel Sud del mondo si moriva in campi di concentramento fatti di mattoni e fondamentalismi religiosi, avallati esplicitamente – i primi – e in modo subdolo i secondi, dalle antiche democrazie al di qua del Mediterraneo.
In un mondo che si definiva laico, la gente aveva smesso di lapidare le donne adultere, ma era disposta a credere a qualsiasi cosa pur di non sentirsi l’inutile merda sfruttata, la cui vita ruotava attorno alle dieci ore lavorative giornaliere e a famiglie focolai di nevrosi e aspettative deluse.
Le azioni politiche e i movimenti per i diritti della comunità LGBTQ+, dei neri e delle donne avevano soltanto alzato la posta in gioco, portando il conflitto persino tra le mura domestiche. E ai fascisti che rimpiangevano la dittatura, ma si sentivano vittime nel momento in cui gli si diceva che era meglio non dire negro o troia a chi taglia la strada, non andava bene neanche che fosse un frocio a comandare sul lavoro e nell’esercito o ad operarli in un ospedale.
E in quella zattera alla deriva, tormentata dalle tempeste, in cui la percentuale di suolo calpestabile era in deficit perenne, con l’acqua alla gola, erano pronti a sacrificare il più debole in nome della propria libertà, dandogli fuoco. Fuoco nei locali LGBT+ e fuoco nelle sedi anarchiche. Fuoco nei centri di accoglienza dei migranti. Fuoco alle Case delle Donne. Fuoco alle automobili di chi osava condannare la violenza, senza però sacrificare il bon ton e l’autoinganno del pluralismo. Fuoco a chi voleva dar loro fuoco. Un fuoco distruttore, che voleva abbattere ogni ostacolo alla loro libertà di esercitare il proprio privilegio su questa terra.
Ma la libertà è qualcosa che non si può misurare. La libertà è soltanto un’idea che può essere mal interpretata anche delle più semplici e pure delle menti. E per Giulio, tra accettare la loro “libertà” violenta di opprimere, sfruttare e depredare o affidarsi alla logica iper pragmatica dei sostenitori della prima ora di Woland, scelse il male minore e aderì con convinzione alle prime iniziative indette dalla Woland Corporation. Perché un mondo privo di amore è, però, anche un mondo libero dall’odio.
La calma, la stabilità e l’efficienza dettati dal buonsenso erano un ottimo compromesso a cui ambire nel nome delle fotocopie sbiadite dei simulacri di quelli che erano i suoi valori in giovinezza.
Eppure il divorzio da Diana era stato devastante. Seppur comprendesse le motivazioni razionali che l’avevano spinta a chiedere l’annullamento del matrimonio, il suo dolore era così tangibile. Non vi era alcun coefficiente che potesse esplicitarlo, ma era vero, maledizione, come è vero il caldo del sole bollente nel deserto e il gelo degli inverni nelle terre del permafrost. E se nessuno poteva misurarlo, come un termometro misura i 50° gradi nel Sahara e i –70° della lontana Yakutsk perché forse qualcuno doveva ancora inventarlo uno stramaledetto termometro capace di farlo!
E non c’era incontro con partner compatibili al 100% o pratiche meditative di induzione al buonsenso, che potessero alleviare quel dolore provocato dal non potersi svegliare accanto a lei e in mezzo al caotico vociare dei suoi figli. Come puoi tradurre in numeri la differenza tra nutrirti e mangiare o misurare in centimetri quel vuoto nello stomaco, causato dal vedere un frigo in cui mancavano i succhi di frutta che piacevano al più piccolo o i gusti di birra che Diana comprava sapendo di fargli un piacere? La loro assenza era un assedio a cui lui sentiva di doversi ribellare. Perché il dolore è qualcosa che non si deve subire. Bisogna dichiarare guerra alla disperazione con ogni arma in nostro possesso.
Fu durante il trasloco di Diana e i piccoli, che si trasferivano dal nuovo compagno di classe superiore, che la vide in un angolo della cantina: la sua Yamaha Pacifica nera e quell’adesivo “This machine kills fascists” e si ricordò all’improvviso che già in passato aveva provato quel dolore così intenso e che quella chitarra ne era stata la cura.
Nei mesi successivi abbandonò ogni attività extra-lavorativa offerta dalla Corporazione Sociale per cui lavorava e aspettava che i vicini di casa si chiudessero nei loro appartamenti, per scaricare in cantina le assi di legno, i pannelli di polistirolo e la lana di roccia. Ci aveva messo delle settimane per prendere tutte le misure al millimetro per farsele tagliare dall’addetto del Centro Fai da te. Si giustificò dicendo che voleva soppalcare una stanza per creare un’area adibita alla meditazione al buon senso e il commesso annuì senza neanche ascoltarlo. Nessuno lo aveva mai fatto, d’altronde.
Non era stato difficile creare la parete in cartongesso a pochi centimetri da quella esistente, riempire l’intercapedine di lana di roccia, e rivestire tutto con i pannelli fonoassorbenti. La vera impresa fu trovare la strumentazione necessaria per poter mettere in piedi un piccolo studio di registrazione con tutto il set necessario. Impiegò settimane per trovare amplificatori sfondati, batterie gonfie di muffa e umidità e un mixer sdentato per poi smontarli, smembrarli e ricostruirli, mischiando e assemblando i pezzi tra loro. Comprava tutto online dai collezionisti, cambiando ID di volta in volta, e usando persino quello dei suoi figli. Doveva essere impazzito! Eppure portò a termine lo studio e gli bastò una manciata di settimane per scrivere e registrare decine e decine di canzoni. Era come un fiume in piena. Riff dopo riff, assolo dopo assolo. Una diga aperta all’improvviso che custodiva quasi un ventennio di sentimenti repressi, emozioni sedate e parole non dette. La parole… ecco, quelle mancavano.
Lui si era sempre espresso attraverso il suono della sua chitarra, riconoscibile fin dal primo accordo che era una sorta di lamento o un ululato che portava in sé la memoria del branco. Quando lui suonava, fuori, era tutto silenzio. E poi c’era Guenda, sintonizzata su quell’ululato, capace di tradurlo in testi che erano artigli che sibilano nell’aria, prima di conficcarsi nella carne. La timida Guenda, che i primi tempi dava le spalle al pubblico, perché non riusciva a cantare guardandoli in faccia.
«Come fai ad essere timida e scrivere queste cose?» le aveva chiesto un giorno.
«Io non sono timida, ma mi vergogno della rabbia che ho dentro» aveva risposto, salendo sul palco di quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto, in cui avrebbe trasformato quella rabbia in luce.
Quando si tolse la vita, a pochi giorni dal suo arresto durante un concerto proibito, nonostante il virus fosse stato debellato ed era cessata la pandemia ma non le misure repressive, scrisse che quello che faceva quando saliva sul palco e urlava dentro un microfono, non aveva nulla a che fare con la musica, ma era una questione di sopravvivenza e di resistenza alle brutture del mondo in cui vivevano.
Troppo sensibile per scegliere la violenza e la lotta, non le rimaneva altro che fagocitare tutta quella rabbia e quel dolore – suo e di chi stava sotto il palco – in ogni respiro che le gonfiava la pancia, prima di attaccare a cantare.
Era stata lei a regalare a Giulio quell’adesivo. E a lei dedicò i 5 pezzi strumentali che registrò in una sorta di demo di ciò che rimaneva dei “This machine” e, proprio nel momento in cui pensava di cercare Monica e Panatta per farglielo sentire, venne contattato da una giovane ragazza di nome Dorotea che voleva parlargli.
Si presentò come una ex dipendente della Woland Corporation, una disertora caduta in rovina, a causa di un certo suo studio che non era piaciuto ai piani alti. Raccontò a Giulio ciò che aveva in mente e lui, ben sapendo a cosa stavano andando incontro, accettò e le mostrò subito la sala prove suonando per lei alcuni dei brani che aveva composto.
«Sei consapevole che rischiamo di essere arrestati, vero?» chiesi.
Sì, Giulio lo sapeva ma non gli importava nulla, perché da quando quella giovane ragazza con la faccia da matematica gli aveva parlato, aveva smesso di pensare a Diana. Ed era un segno. Non poteva essere un caso se dopo tutto quel lavoro, senza nessuna motivazione o ragione evidente, fosse arrivata lei a rendergli manifesto quel desiderio inconscio a cui non riusciva dare una forma, ma era sempre stato lì, nei suoi pensieri, da quando Diana lo aveva lasciato. E forse anche prima, non poteva esserne certo.
Ormai non aveva nulla da perdere ed era disposto anche ad accettare che Fausto rientrasse nella sua vita e, con lui, il ricordo doloroso di Guenda e della sua morte ingiusta. Non era mai stato così convinto di qualcosa in tutta la sua vita.
«Sì, lo so che rischiamo l’arresto» rispose, con una risata che continua a risuonarmi nelle orecchie come una tortura.
Ho svegliato Fausto tirandogli una lattina vuota di birra addosso perché tocca a lui guidare fino a Kiev ed io dovrei fargli compagnia, ma lui sta ancora dormendo rannicchiato come una larva di maggiolino riesumata controvoglia, sul sedile del passeggero di quel camper fatiscente, unico superstite dell’incendio che ha devastato l’intera vita di Monica. Il camper, Monica e la sua gallina nera di nome Siouxsie: unici sopravvissuti di una vita randagia da lupa.
Sebbene ci sia andata bene fino ad ora, non possiamo abbassare la guardia e così ci alterniamo 24 ore su 24 alla guida, con turni di quattro ore a testa e poche soste programmate per ridurre al minimo il rischio di essere ripresi dalle telecamere delle centraline di rifornimento. Evitiamo l’autostrada e percorriamo così centinaia di chilometri ogni giorno, che ci portano da una città all’altra toccata dal nostro tour clandestino.
Da stasera dovremo usare tre cifre per contare le notti che ci siamo lasciate alle spalle. Ieri era il nostro novantanovesimo concerto e, questo di Kiev, sarà il numero cento.
L’estate ha lasciato spazio all’autunno ma, ormai da diverse settimane, le temperature ricordano uno di quei rigidi inverni che hanno preceduto l’estinzione dei ghiacciai. Queste terre, ambite mete dei turisti climatici, conservano ancora quel senso di sospensione e prospettiva di chi cela per mesi la propria nudità sotto una spessa coltre di vestiti, e che trasforma l’azione in immaginazione e dimenticando l’impazienza.
So che in passato veniva considerato sconveniente il silenzio e ci si sforzava di intrattenere conversazioni, anche con chi, non si aveva nulla di cui parlare. Esistevano ormai pochi argomenti che non rischiavano di trasformarsi in conflitto e c’è stato un tempo, prima che il sopravvivere alle intemperie diventasse un privilegio, che uno di questi argomenti – neutri, leggeri e versatili – fosse proprio il clima e il succedersi del tempo e delle stagioni.
Che fosse in una sala d’attesa di un medico o nella sospensione claustrofobica di un ascensore, sui mezzi di trasporto pubblici o in pausa caffè a lavoro, con una sconosciuta dietro ad un bancone che ci serve una birra ed un rimedio d’emergenza alla nostra solitudine, lamentarsi del fatto che non ci fossero più le mezze stagioni, era un modo per rompere quel ghiaccio che si scioglieva nel silenzio e nell’indifferenza di troppi, alle estremità opposte del globo. Nell’affermare ciò – questa tesi secondo la quale avremmo dovuto presto piangere l’assenza della primavera, la scomparsa dell’autunno ed il dominio della risolutezza di climi, temperature, festività, ritmi e umori, troppo distanti tra loro, per essere così vicini e appiccicati – si rivelò senza troppa meraviglia precisamente sbagliata. No, non avrebbero sentito la mancanza delle cosiddette “mezze stagioni” ed il buon senso avrebbe presto rese vane e ridicole, quelle invocazioni di concederci di tenere strette a noi l’autunno e la primavera, affinché ci fosse più facile accettare il passaggio di testimone dall’afa e la siccità, al gelo e il buio. Perché davvero non si può passare dai tormentoni pop estivi, dai ritmi latini di cuori anelanti o spezzati, al dondolare di jingle pieni di accenti che balenano come luci natalizie nella capitale del non troppo compianto impero americano.
Sbagliavano, sai che novità, perché nessun funerale è stato celebrato per Signorina Primavera e Signora Autunno dal momento che a sparire, da quella che era considerata la zona temperata al di sotto 60° meridiano terrestre, è stato il tanto ingiustamente odiato inverno che nessuno avrebbe salvato, se non fosse stato per le ferie concesse dalle festività e dalla parziale assoluzione della nostra pigrizia letargica.
Ed eccoci qui, nelle terre in cui l’inverno è reale.
Eccoci qui a imparare (per me) e ricordare (per Fausto, Monica e Giulio che l’inverno lo hanno già vissuto) come sia facile amare per contrasto. Il tepore di un sacco a pelo, dopo aver passato una notte in una fabbrica abbandonata, senza finestre a trattenere il calore e respingere la bufera di neve. Il conforto di un abbraccio, nell’attesa di quel momento in cui, quello stesso sacco a pelo, da gelido diventa ospitale per il nostro corpo e quel calore che altrimenti andrebbe disperso. Ed è nell’ammirare e vivere l’inverno che ho scoperto cosa sia il desiderio che qui, oltre il 60° meridiano terrestre, ancora esiste nonostante l’instaurazione del regime del Buonsenso.
In queste terre in cui l’inverno è reale, e sopravvive il desiderio, ogni concerto è stato incredibile. Due generazioni di persone disposte a sfidare il freddo, il rischio di contagio batterico e la legge del buonsenso in assembramenti disordinati e incuranti dell’etichetta, avevano urlato con noi e riso e ballato, fino alle prime luci dell’alba, intanto che la bufera infuriava là dove il silenzio non portava più imbarazzo ma morte.
«Stasera faresti meglio a recuperare la quarta corda del basso. Passiamo da una città più o meno civile in cui esistono ancora negozi stabili come quelli di una volta e, magari, in qualche bottega di modernariato per collezionisti, viene fuori qualcosa di utile per il tuo basso» urla Fausto, cercando di coprire il rumore della turbina solare del camper, innervosito per il brusco risveglio causato dall’urto della lattina sulla sua fronte. Si è svegliato con la luna storta e preferisce fare lo stronzo piuttosto di chiedere scusa per aver dormito troppo ed obbligato me, non solo a guidare più del previsto, ma a farlo nel silenzio e in solitudine.
«Sarebbe magnifico» ha risposto Monica, accogliendo e perdonando quell’aggressività che Fausto vorrebbe rivolgere verso se stesso, ma che non fa, e che rovescia su di lei come le feci che si staccano dal tutù di Gallina Siouxsie, fuori dal finestrino del camper, sotto gli occhi divertiti di Giulio.
«Concima» si giustifica Monica, sebbene fuori ci sia solo asfalto, ghiaccio e fango da giorni e giorni e che le feci della gallina, in ogni caso, si sono spalmate tra il vento e la fiancata del camper.
Il viaggio prosegue, con Fausto alla guida adesso, lasciandoci alle spalle le feci di Siouxsie, l’irascibilità del nostro batterista e la città di Minsk, ma non quell’acufene al mio orecchio destro, dono di un piccolo incidente avvenuto sul palco.
Al nostro arrivo la città si è presentata ostile e polverosa. Per attraversare quella che ricordo come la rotonda più grande e trafficata mai vista in vita mia, abbiamo impiegato mezza giornata! Quando le istruzioni criptate ci hanno portato fuori dal centro, oltre la zona industriale, in mezzo alla foresta dove vivono contadini, taglialegna e tagliagole ne siamo stati sommamente contenti.
Durante il concerto, però, un giovane orso di circa un paio di tonnellate, invadente e ferale poiché digiuno – essendo un orso – della conspevolezza del proprio e dell’altrui ingombro e delle leggi non scritte del pogo, si è introdotto tra il pubblico. L’inesperto orso ha infastidito, tocchicchiato, trussato e urtato diverse ragazze accanto al palco e, all’ennesimo respingimento osato questa volta dalle scheletriche braccia di una ragazzina microscopica coi capelli nerissimi, l’orso (infiltratosi tra i punk di Minsk) ha reagito, spingendola con violenza e scaraventandola per terra. Tra lei e il pavimento si ergeva però, minaccioso, il manico della chitarra di Giulio, troppo perso nella cacofonia di un assolo improvvisato e non richiesto, per rendersene conto.
Come in una premonizione a rallentatore frutto del calcolo – dopotutto è il mio lavoro – ho visto l’occhio della ragazza infilzato da qualche chiavetta dell’accordatura del manico della chitarra e mi sono lanciata, tra lei e Giulio, accogliendola tra le mie braccia e arrestando così la rovinosa caduta e la probabile futura necessità di trovare un bulbo di vetro abbastanza simile all’occhio sano rimato.
Di risposta ho ricevuto un bacio morbido, umido e lungo, sulle labbra.
Ho abbracciato quel piccolo corpicino sudaticcio, che poteva essere scambiato tranquillamente per quello di una bambina di undici o dodici anni, il cui bacino non si è ancora schiuso per plasmare i fianchi di una donna. Era così piccola, che aveva dovuto alzarsi sulle punte dei piedi per baciarmi e aveva usato il mio corpo per aggrapparsi e mantenersi in equilibrio. Sotto le mie dita, attraverso il tessuto della maglietta intrisa di sudore, potevo contare le costole, una per una, così come i nodi sporgenti della colonna vertebrale. Ossa esposte, che spingono sulla pelle, tipiche di una fame che nessuna pasto può saziare. La voracità di chi ha ribaltato tutta la propria vita dalle fondamenta e non vuole sottostare a quelle leggi, che suonano come una lingua morta e incomprensibile, che la vogliono fragile, così fragile, da non poter sfidare la danza appassionata e frenetica delle prime file di un concerto, un autentico concerto suonato dal vivo. Leggi sbagliate che la vorrebbero privare di quel legame che si crea tra musicisti e pubblico. Un legame sincero e vero, come quel bacio.
No, nessuna voglia di épater la bourgeoisie o accendere fantasie erotiche maschili con saffiche effusioni. Nessun desiderio di manifestare la propria liberazione sessuale o ammiccamento alle battaglie civili in voga tra gli uffici di marketing e le assemblee dei collettivi, ma solo un bacio – rivoluzionario per davvero – che sovverte il concetto di intimità tra due soggetti partecipi e protagonisti e che hanno compreso la differenza tra esibirsi e darsi completamente ad un pubblico. Tra chi si mostra e chi, invece, si espone su un palco attraverso il proprio corpo, la propria voce, le parole che scrive e il rumore che le accompagna.
Una volta messa in salvo la piccola rivoluzionaria dai capelli neri, ho sentito montare una rabbia improvvisa che è partita dall’altezza dello stomaco. Faccio ancora molta, molta fatica a gestire il mio sentire e le emozioni, e ho perso il controllo. È molto più facile inibire e reprimere il proprio sentire, rispetto all’accettare e controllare la propria emotività. Ed era dall’inizio del concerto che avevo voglia di prendere a schiaffi quel grezzo energumeno che menava ginocchiate, gomitate e pugni a caso come una trottola inebetita, facendo il vuoto attorno a sé, sfidando quel nugolo di altri suoi simili con furiose flessioni e torsioni, tra un calcio e l’altro, a petto nudo sul pavimento sudicio.
«No macho bullshit» ho urlato al microfono – me lo ha insegnato Monica – prima di scagliarglielo in testa, stretto nel mio pugno. Non ce l’ho fatta. Volevo fargli del male. Avrei voluto vederlo implodere, rattrappirsi e trasformarsi in una micro-merda di gallina plasmata dalla violenza del vento contro la fiancata del camper di Monica. Volevo punirlo e fargli del male affinché smettesse di essere così maledettamente bullo ed individualista, in mezzo a quella danza violenta ma armoniosa nel suo essere un coro di membra e muscoli e pelle e sudore.
Come fa a non capire? Come fa a non vedere tutta la bellezza di questi corpi che, come elementi chimici, si attraggono e si allontanano, si fondono e tornano unici, si spingono e si abbracciano senza alcuna paura?
Dritta in piedi, su quel palco alto come le orecchie di un coniglio, l’ho sfidato puntando i miei occhi dentro il suo unico occhio che riusciva a tenere aperto dal momento in cui l’altro occhio era protetto dalle palpebre raggrinzite e impegnate a tenere fuori quel sangue che colava giù dal sopracciglio che io, io, gli ho spaccato col microfono stretto in pugno. – Monica avrebbe parlato di karma, nonostante sia stata provata l’inverosimilitudine di quel principio per cui tutto viene vendicato e nessuno resta impunito –
“Non serve parlare la stessa lingua, ora” ho pensato, intanto che Fausto, Giulio e Monica continuavano a suonare e ridere come se nulla fosse accaduto.
Eppure non riesco a togliermi dalla testa il ricordo di quel sangue, forse a causa della mia scarsa familiarità con esso.
Ad eccezione del flusso mestruale con cui conviviamo di rado, poiché il buonsenso suggerisce sì, di mestruare ma non più di una manciata di volte all’anno, onde evitare lo spreco di energia combustibile in emozioni distorte ed inganni ormonali, non è che siano poi così tante le situazioni in cui si ha a che fare col sangue oggigiorno. Non esistono film violenti. Non esistono macellerie. Rari sono gli incidenti sul lavoro, quelli stradali e persino quelli domestici. Nessuno si taglia più nell’affettare una cipolla, né si addormenta alla guida, poiché non abbiamo più la possibilità di distrarci grazie al nostro dispositivo occhio-orecchio che vigila sui nostri impulsi neuronali e rivela il calo di attenzione.
Stai ancora guardando?
Non ci sono risse nei bar e nessun uomo accoltella un altro per debiti o dipendenze. Nessun uomo ammazza i figli per punire l’ex moglie che lo ha lasciato. Abolita la rabbia, il sangue è diventato un’esclusiva della scienza.
Ma quanto può essere potente la rabbia? Può far scoppiare temporali, esplodere macchine, incendiare città, far scorrere il sangue ed io con le mia ferocia e le mie mani ho provocato una lesione ad un essere umano. Ho violato il confine di ciò che è dentro e ciò che è fuori, ho aperto un varco nell’integrità del corpo, bucato un sistema e, da quella lacerazione, è uscito il sangue che prima scorreva, invisibile, nelle vene di un individuo confezionato in un corpo che non credevo così friabile. Pura follia! Eppure nessuno mi ha fermato e nemmeno condannata per aver manifestato una così vile, pericolosa e sconveniente emozione. Mi sono ritrovata, invece, circondata da diverse donne e ragazze molto giovani, che urlavano contro quell’idiota – ormai obbligato ad una poco virile ritirata con la coda tra le gambe – quelli che dovevano essere i più spietati appellativi che la lingua slava concedeva loro.
No macho bullshit! No macho bullshit! No macho bullshit! Urlavano le mie streghe dall’accento sovietico e a loro si sono uniti anche gli uomini. E così Fausto, alla batteria, ha assecondato quel ritmo primordiale con i giusti colpi di cassa e rullante. Ci siamo guardati negli occhi e, senza parlare, abbiamo attaccato con quel pezzo, mai suonato prima, composto durante il tragitto verso Minsk.
Abbiamo scritto una nuova canzone durante il mio turno di guida, improvvisando con basso e chitarra non amplificati. Giulio ha simulato la distorsione della chitarra, soffiando tra gli incisivi socchiusi e i molari serrati. Monica accentuava la linea di basso gonfiando e sgonfiando le guance e facendo rimbalzare le labbra. Fausto teneva il ritmo picchiando con le bacchette su cruscotto, sterzo e portiera del camper, intanto che io urlavo una canzone di suoni senza senso, facendo fatica a tenere entrambe le mani sul volante di questo mezzo di trasporto che è custode di tutto ciò che ci serve in questa nostra nuova vita.
Tutto ciò che io, Monica, Giulio e Fausto abbiamo abbandonato prima di partire per il tour, sembra così lontano e distorto. Come quell’incontro-scontro in metropolitana tra me e Monica.
«Te lo ricordi Monica? Ero io quella ragazza che ti ha fatto cadere in metro» le ho confessato, girando la testa verso la zona a giorno del camper.
«Certo che me le ricordo, non dimentico mai la gentilezza e tu eri stata gentile, che è una cosa rara di questi tempi» risponde, con quel suo sorriso stralunato che non abbandona mai il suo volto, senza lasciarle in dono occhi umidi di affetto.
«Sai, io non ho mai voluto rinunciare alla gentilezza anche a costo di perdere moltissimo. Hanno ragione a dire che l’emotività porta rogne, ma è quello che sono e che sempre sarò: non riesco a immaginarmi, neanche nel più schifoso dei mondi, ad agire secondo ciò che è più conveniente, utile o gratificante, se ciò non è fedele e coerente alla persona che vedo guardandomi allo specchio» scandisce le ultime parole, sillaba dopo sillaba, puntandosi un dito sul petto e, per la prima volta, in questa tenera gattina un po’ addormentata, vedo manifestarsi la fierezza di una predatrice.
«Non tutto può essere deciso secondo un calcolo che ci garantisca un’adeguata ricompensa, un ritorno di investimento vantaggioso, anche a scapito degli altri e della nostra individualità. Anche prima di tutto questo – dice indicando la strada oltre il parabrezza – essere noi stesse era un problema, piccola, Woland o non Woland…» conclude, strizzandomi l’occhio.
«Io ho sempre amato e odiato con tutta me stessa. Senza calcoli, freni o inibizioni. Ho fatto del male e me ne è stato fatto molto di più, ma in tutta la mia vita io non ho mai mentito, tradito i miei valori o ignorato i miei sogni perché in quella determinata situazione ne avrei ottenuto qualcosa di vantaggioso in cambio. A che prezzo? L’amicizia, la devozione, l’amore e la solidarietà non sono mai relazioni in cui si vince e basta. Non c’è nessuna, nessuna, ricompensa al mondo che legittimi e giustifichi il calpestare i propri valori. Non ho un dio né un marito e tanto meno un dispositivo occhio-orecchio con un logo aziendale che riporta il mio nome e che mi dica chi sono o chi devo essere. Sono una reietta? Una fallita? Ho quarant’anni e vivevo in mezzo al nulla in compagnia degli alberi e degli animali? È vero, ne sono consapevole e fiera, ma ho deciso di essere me stessa fino in fondo e, ciò che provo, nessuna delle tue analisi potrà mai misurarlo. I tuoi ex-colleghi analisti, per esempio, avrebbero mai potuto prevedere che perdere ogni cosa in un incendio, mi avrebbe fatto trovare un’amica come te e che grazie al nostro incontro mi sarei ritrovata di nuovo in tour con la mia band?» chiede senza aspettarsi una risposta, che io non potrei comunque darle.
«Credo proprio di no, Monica – ho risposto, forse troppo seria e scura – ma se io fossi in te non mi darei tutta questa importanza, ecco. Io non sono altro che una che fa calcoli, dopotutto…»
Quel giorno piovoso di circa un anno fa, in cui avevo incontrato Monica sulle scale della metro, era stato il primo giorno di quella che non può essere definita una stagione fortunata per lei e quei randagi che ospitava nella vecchia baita di legno, dispersa nell’hinterland periferico non cementificato di Milano.
Eppure ieri notte sul palco dopo aver colpito l’orso bielorusso, ho cercato lo sguardo di Monica e ho trovato quel suo sorriso di viaggia libera dall’ingombro del passato, senza però dimenticarlo o rinnegarlo. Ho ricambiato il suo sorriso, sincera, per davvero. E, senza bisogno di parlarci, abbiamo seguito Fausto che, alla batteria, aveva dato inizio a quella canzone mai sentita da nessuno.
Picchiava come un fabbro sul rullante e prendeva a calci la cassa. Pam-pam-pam-pam! Dopo i quattro giri di Monica al basso – con sole tre corde – e Giulio alla chitarra, è arrivato il mio momento di attaccare, ma mi è risultato impossibile. Capitanate dalla piccola punk con caschetto nero, le donne del pubblico mi hanno tirato su di peso e mi sospendevano sopra le loro teste, ed io mi sono abbandonata a quella marea che, passandomi di braccia in braccia, tra una mano sul culo, una in mezzo alle gambe, nell’incavo delle ginocchia o sotto le ascelle sudate, alla base del cranio, mi aveva portato a zonzo sulle teste rasate, colorate e appuntite presenti nel capanno per boscaioli in cui si teneva quel concerto clandestino.
Paura di cadere? Mai avuta.
Eppure il mio volo d’angelo decadente, sulle mani dei punk di Minsk, è atterrato contro l’amplificatore ed il mio microfono ancora insanguinato, che non si staccava mai dalle mani come in una sorta di patto magnetico, puntava il suo diaframma verso i coni. Il feedback è stato così assordante che ne porto ancora la testimonianza in questo biiiiip persistente che mi infastidisce, persino durante i miei turni di guida. Eppure, per la prima volta nella mia vita, provo una strana forma di piacere nel nascondere la stanchezza e il dolore.
Prima di questo strano tour, non ho mai fatto qualcosa che mi arrecasse un danno o una scocciatura, per il bene comune. È il mio turno di guida? Ho una responsabilità. Gli altri possono riposarsi perché contano su di me. Si fidano e si affidano a me. E quel senso per cui, in quelle quattro ore uguali per tutti e tutte, ognuno dà un pezzo di sé per gli altri, così come sul palco. Ed è davvero come dice Monica: qualcosa che nessuna formula può misurare.
Dal momento in cui scendiamo dal camper per scaricare gli strumenti, a quando il concerto è concluso e brindiamo insieme. Persino nel momento in cui ci laviamo in fretta, affinché la poca acqua calda concessa dai boiler mezzi rotti dei luoghi in cui dormiamo, permetta a tutti il lusso di una doccia calda, non esiste più io o voi, ma siamo solo un “noi”, in cui ognuna delle nostre individualità splende e fa brillare gli altri di rimando, come raggi di luna che si frammentano tra le increspature di un mare mosso, come una maledetta palla da discoteca in un night club abbandonato e pieno di specchi rotti.
«Sei stanca?» mi ha chiesto Giulio, vedendomi sbadigliare.
«Se sei stanca posso fare io compagnia a Fausto, intanto che tu ti riposi. Il concerto di ieri è stato impegnativo e quello che è successo con quel tizio, il pugno, il sangue e tutto il resto… avrebbe turbato chiunque, persino te, DeeDee figlia del rogo» ha proseguito, sorridendo.
«Figlia del rogo?» ho chiesto.
«Oh, sì… quel fuoco che hai dentro arriva proprio da lì. Non so come sia possibile, ma dentro di te c’è tutta quella forza incendiaria che credevamo spenta per sempre.»