10. Cuore di cane | IL GRANDE ROGO DEL ’25

10. Cuore di cane | IL GRANDE ROGO DEL ’25

“Unlimited tolerance must lead to the disappearance of tolerance. If we extend unlimited tolerance even to those who are intolerant, if we are not prepared to defend a tolerant society against the onslaught of the intolerant, then the tolerant will be destroyed, and tolerance with them.”

1945, Open society and its enemies, KARL POPPER

Non potevo sapere che un cuore di cane è la disgrazia più grande, 
non potevo sapere che un cuore di cane è la colpa più forte.

2004, Cuore di cane, KAFKA

Giulio, dopo anni e anni, aveva finito per crederci che il punk non fosse altro che un genere musicale o, al limite, una fase necessaria di rottura in cui gli adolescenti costruiscono la propria identità nel mondo, per contrasto. Siamo quello che siamo, in fondo, perché abbiamo fatto delle scelte in opposizione a quello che era l’autorità costituita. Sia che essa fosse rappresentata dai genitori e dai loro canoni estetici e morali, sia che essa trovi forma in una qualsiasi delle istituzioni del sistema a partire dalla scuola per finire con la Chiesa.

E così, complice la pandemia degli anni Venti che rivoluzionò la vita sociale, un buon lavoro come educatore che lo portò a sporcarsi le mani nella vita reale e del tutto scollegata dagli idealismi della militanza, una moglie che amava sinceramente (e i quattro figli tutti voluti e cercati) e finanche la anch’essa autentica convinzione che oggettivamente il sistema in cui vivevano, andava distrutto dalle basi e ricostruito, Giulio C. dimenticò presto la sua chitarra elettrica in cantina e fu uno dei primissimi sostenitori della dottrina del buonsenso di Michail “Huxley” Woland.

Una soluzione razionale e misurabile che, dati alla mano, valicava qualsiasi potere precostituito era la “cosa” più vicini all’anarchia che quell’uomo, ferito dalle brutture del mondo e deluso dalle ideologie, avesse mai sperimentato. Perché se è vero che amava moltissimo i suoi figli, era altrettanto vero che il suo stipendio poteva garantire una vita adeguata e un’istruzione prestigiosa solo ai primi due. Il terzo e il quarto erano “arrivati” per pura irrazionalità. E quella folle gioia di volersi circondare di figli amati e felici, in un mondo pieno di bambini sfruttati, picchiati, traumatizzati o semplicemente cresciuti da idioti, aveva portato ad una serie di rinunce (sua moglie, per esempio, non ricominciò più a lavorare) e di sacrifici che contribuirono alla crisi sfociata in un divorzio lampo. 

Con la fine dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della dittatura dell’Emotività, era sufficiente portare un test della compatibilità per ottenere, seduta stante, l’annullamento di ogni matrimonio stipulato prima delle riforme. 

Dopotutto il mondo era allo sbando. Famiglie ignoranti e indigenti sfornavano cucciolate di futuri schiavi che non potevano mantenere, condannandoli ad un futuro sieropositivo, intanto che il ricco Nord cresceva piccoli psicopatici fascisti, dando loro in dote armi da fuoco e ansia.
Ma questo era il passato, ora, ad una coppia con una bassa compatibilità genetica atta alla procreazione viene consigliato di ricorrere all’adozione, di uno dei tanti bambini, che vengono portati via da quelle famiglie incapaci di mantenerli o crescerli, a causa di scarsa intelligenza, cultura o reddito e che hanno concepito senza l’avallo del sistema sanitario nazionale. 

Sia ben intenso: non è vietato procreare in quei casi ma è sconsigliato e il buonsenso insegna che quando si prendono decisioni avventate, dettate dall’emotività o dall’arroganza che trascende il sapere scientifico ed empirico, si deve essere, di conseguenza, responsabili in toto delle proprie scelte. Niente sussidi, parchi giochi inclusivi, permessi speciali sul lavoro, insegnanti di sostegno, accesso alla sanità pubblica, bonus fiscali o altre forme di accatto. Un antico adagio diceva qualcosa del tipo “hai voluto la bicicletta? E ora pedala”. Niente pedalata assistita per chi non accoglie il buonsenso nella propria vita, cittadino.

D’altronde era finita da molto tempo l’ossessione, tipica dell’epoca delle Democrazie Apparenti, di dover sovrappopolare un pianeta già al limite di sopportazione. L’istinto materno era stata un’invenzione inculcata nella mente delle classi meno abbienti in quei tempi irrazionali in cui, l’avidità dei padroni, voleva forza lavoro da impiegare nelle fabbriche, nei campi e carne da macello per le guerre e i lavori degradanti o logoranti. 

Facendo loro credere che l’ultralavoro e i sacrifici servissero per far vivere meglio i propri eredi, come in una sorta di martirio religioso pregno di ricompense ultraterrene, ma non godibili a breve termine nel qui e ora, essi obbedivano e si moltiplicavano. Una volta insegnato il buonsenso anche nelle scuole e smontata la mitologia e le credenze superstiziose legate all’istituzione della famiglia, il problema della sovrappopolazione svanì e così la carenza delle risorse e la loro distribuzione che divenne finalmente equa.

 La non-logica del profitto capitalista, aveva raggiunto un tale livello di sclerotizzazione, che aveva fatto il giro su se stessa in un loop auto-cannibale. Un avido uroboro che tutto consuma e tutto distrugge nel tentativo di mangiare persino la propria coda. 

Nel nord del mondo si moriva di malattie debellate da secoli o per un acquazzone improvviso, sommersi nel fango e nella propaganda anti-scientifica. Nel Sud del mondo si moriva in campi di concentramento fatti di mattoni e fondamentalismi religiosi, avallati esplicitamente – i primi – e in modo subdolo i secondi, dalle antiche democrazie al di qua del Mediterraneo. 

In un mondo che si definiva laico, la gente aveva smesso di lapidare le donne adultere, ma era disposta a credere a qualsiasi cosa pur di non sentirsi l’inutile merda sfruttata, la cui vita ruotava attorno alle dieci ore lavorative giornaliere e a famiglie focolai di nevrosi e aspettative deluse. 

Le azioni politiche e i movimenti per i diritti della comunità LGBTQ+, dei neri e delle donne avevano soltanto alzato la posta in gioco, portando il conflitto persino tra le mura domestiche. E ai fascisti che rimpiangevano la dittatura, ma si sentivano vittime nel momento in cui gli si diceva che era meglio non dire negro o troia a chi taglia la strada, non andava bene neanche che fosse un frocio a comandare sul lavoro e nell’esercito o ad operarli in un ospedale. 

E in quella zattera alla deriva, tormentata dalle tempeste, in cui la percentuale di suolo calpestabile era in deficit perenne, con l’acqua alla gola, erano pronti a sacrificare il più debole in nome della propria libertà, dandogli fuoco. Fuoco nei locali LGBT+ e fuoco nelle sedi anarchiche. Fuoco nei centri di accoglienza dei migranti. Fuoco alle Case delle Donne. Fuoco alle automobili di chi osava condannare la violenza, senza però sacrificare il bon ton e l’autoinganno del pluralismo. Fuoco a chi voleva dar loro fuoco. Un fuoco distruttore, che voleva abbattere ogni ostacolo alla loro libertà di esercitare il proprio privilegio su questa terra. 

Ma la libertà è qualcosa che non si può misurare. La libertà è soltanto un’idea che può essere mal interpretata anche delle più semplici e pure delle menti. E per Giulio,  tra accettare la loro “libertà” violenta di opprimere, sfruttare e depredare o affidarsi alla logica iper pragmatica dei sostenitori della prima ora di Woland, scelse il male minore e aderì con convinzione alle prime iniziative indette dalla Woland Corporation. Perché un mondo privo di amore è, però, anche un mondo libero dall’odio. 
La calma, la stabilità e l’efficienza dettati dal buonsenso erano un ottimo compromesso a cui ambire nel nome delle fotocopie sbiadite dei simulacri di quelli che erano i suoi valori in giovinezza.

Eppure il divorzio da Diana era stato devastante. Seppur comprendesse le motivazioni razionali che l’avevano spinta a chiedere l’annullamento del matrimonio, il suo dolore era così tangibile. Non vi era alcun coefficiente che potesse esplicitarlo, ma era vero, maledizione, come è vero il caldo del sole bollente nel deserto e il gelo degli inverni nelle terre del permafrost. E se nessuno poteva misurarlo, come un termometro misura i 50° gradi nel Sahara e i –70° della lontana Yakutsk perché forse qualcuno doveva ancora inventarlo uno stramaledetto termometro capace di farlo!

E non c’era incontro con partner compatibili al 100% o pratiche meditative di induzione al buonsenso, che potessero alleviare quel dolore provocato dal non potersi svegliare accanto a lei e in mezzo al caotico vociare dei suoi figli. Come puoi tradurre in numeri la differenza tra nutrirti e mangiare o misurare in centimetri quel vuoto nello stomaco, causato dal vedere un frigo in cui mancavano i succhi di frutta che piacevano al più piccolo o i gusti di birra che Diana comprava sapendo di fargli un piacere? La loro assenza era un assedio a cui lui sentiva di doversi ribellare. Perché il dolore è qualcosa che non si deve subire. Bisogna dichiarare guerra alla disperazione con ogni arma in nostro possesso.

Fu durante il trasloco di Diana e i piccoli, che si trasferivano dal nuovo compagno di classe superiore, che la vide in un angolo della cantina: la sua Yamaha Pacifica nera e quell’adesivo “This machine kills fascists” e si ricordò all’improvviso che già in passato aveva provato quel dolore così intenso e che quella chitarra ne era stata la cura. 

Nei mesi successivi abbandonò ogni attività extra-lavorativa offerta dalla Corporazione Sociale per cui lavorava e aspettava che i vicini di casa si chiudessero nei loro appartamenti, per scaricare in cantina le assi di legno, i pannelli di polistirolo e la lana di roccia. Ci aveva messo delle settimane per prendere tutte le misure al millimetro per farsele tagliare dall’addetto del Centro Fai da te. Si giustificò dicendo che voleva soppalcare una stanza per creare un’area adibita alla meditazione al buon senso e il commesso annuì senza neanche ascoltarlo. Nessuno lo aveva mai fatto, d’altronde. 

Non era stato difficile creare la parete in cartongesso a pochi centimetri da quella esistente, riempire l’intercapedine di lana di roccia, e rivestire tutto con i pannelli fonoassorbenti. La vera impresa fu trovare la strumentazione necessaria per poter mettere in piedi un piccolo studio di registrazione con tutto il set necessario. Impiegò settimane per trovare amplificatori sfondati, batterie gonfie di muffa e umidità e un mixer sdentato per poi smontarli, smembrarli e ricostruirli, mischiando e assemblando i pezzi tra loro. Comprava tutto online dai collezionisti, cambiando ID di volta in volta, e usando persino quello dei suoi figli. Doveva essere impazzito! Eppure portò a termine lo studio e gli bastò una manciata di settimane per scrivere e registrare decine e decine di canzoni. Era come un fiume in piena. Riff dopo riff, assolo dopo assolo. Una diga aperta all’improvviso che custodiva quasi un ventennio di sentimenti repressi, emozioni sedate e parole non dette. La parole… ecco, quelle mancavano. 

Lui si era sempre espresso attraverso il suono della sua chitarra, riconoscibile fin dal primo accordo che era una sorta di lamento o un ululato che portava in sé la memoria del branco. Quando lui suonava, fuori, era tutto silenzio. E poi c’era Guenda, sintonizzata su quell’ululato, capace di tradurlo in testi che erano artigli che sibilano nell’aria, prima di conficcarsi nella carne. La timida Guenda, che i primi tempi dava le spalle al pubblico, perché non riusciva a cantare guardandoli in faccia.

«Come fai ad essere timida e scrivere queste cose?» le aveva chiesto un giorno.

«Io non sono timida, ma mi vergogno della rabbia che ho dentro» aveva risposto, salendo sul palco di quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto, in cui avrebbe trasformato quella rabbia in luce.

Quando si tolse la vita, a pochi giorni dal suo arresto durante un concerto proibito, nonostante il virus fosse stato debellato ed era cessata la pandemia ma non le misure repressive, scrisse che quello che faceva quando saliva sul palco e urlava dentro un microfono, non aveva nulla a che fare con la musica, ma era una questione di sopravvivenza e di resistenza alle brutture del mondo in cui vivevano. 

Troppo sensibile per scegliere la violenza e la lotta, non le rimaneva altro che fagocitare tutta quella rabbia e quel dolore – suo e di chi stava sotto il palco – in ogni respiro che le gonfiava la pancia, prima di attaccare a cantare. 

Era stata lei a regalare a Giulio quell’adesivo. E a lei dedicò i 5 pezzi strumentali che registrò in una sorta di demo di ciò che rimaneva dei “This machine” e, proprio nel momento in cui pensava di cercare Monica e Panatta per farglielo sentire, venne contattato da una giovane ragazza di nome Dorotea che voleva parlargli. 

Si presentò come una ex dipendente della Woland Corporation, una disertora caduta in rovina, a causa di un certo suo studio che non era piaciuto ai piani alti. Raccontò a Giulio ciò che aveva in mente e lui, ben sapendo a cosa stavano andando incontro, accettò e le mostrò subito la sala prove suonando per lei alcuni dei brani che aveva composto. 

«Sei consapevole che rischiamo di essere arrestati, vero?» chiesi.

Sì, Giulio lo sapeva ma non gli importava nulla, perché da quando quella giovane ragazza con la faccia da matematica gli aveva parlato, aveva smesso di pensare a Diana. Ed era un segno. Non poteva essere un caso se dopo tutto quel lavoro, senza nessuna motivazione o ragione evidente, fosse arrivata lei a rendergli manifesto quel desiderio inconscio a cui non riusciva dare una forma, ma era sempre stato lì, nei suoi pensieri, da quando Diana lo aveva lasciato. E forse anche prima, non poteva esserne certo. 

Ormai non aveva nulla da perdere ed era disposto anche ad accettare che Fausto rientrasse nella sua vita e, con lui, il ricordo doloroso di Guenda e della sua morte ingiusta. Non era mai stato così convinto di qualcosa in tutta la sua vita.

«Sì, lo so che rischiamo l’arresto» rispose, con una risata che continua a risuonarmi nelle orecchie come una tortura. 

5. Report#2 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

5. Report#2 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

13 giugno 2040 – Monte Orsa, Frontiera Nord. Distretto montano della Valceresio. 

La nostra camminata per i ripidi sentieri dei boschi di castagno si è conclusa davanti al cancello degli Inferi della mitologia Cristiana. O un portale, forse, che ci avrebbe fatto viaggiare nel tempo per atterrare coi piedi nel fango delle trincee della Prima Guerra Mondiale. Le premesse non sono delle migliori. Ho pensato.

E infatti, se non avessimo disarticolato i nostri dispositivi occhio-orecchio, una serie di notifiche incalzanti ci avrebbe sconsigliato di seguire Signor Conto alla Rovescia per un Tumore e le sue sigarette puzzolenti, in quella fossa greve. Eppure lui, reso impavido, forse, dalla certezza che presto sarebbe comunque morto male per via del cancro ai polmoni, ci ha sorriso con un solo angolo della bocca – quello libero dalla sigaretta fumante – per far cigolare i battenti di quel cancello arrugginito che ci separava da quel buio così profondo ed estraneo. 

Ho cercato di trasmettere il desiderio di luce al mio dispositivo occhio-orecchio, l’ho cercato con la punta delle dita sulla mia tempia: era ancora lì. Ma era freddo e non pulsava né emetteva quel bianco ronzio, che è il respiro stesso della processione di nuovi dati. Con il dispositivo disarticolato, i miei occhi avrebbero dovuto adattarsi a quel buio. Sono necessari circa trenta minuti affinché la concentrazione di rodopsina sia sufficiente per modificare la fotosensibilità della retina e passare così da una visione diurna a quella notturna. Trenta minuti in cui avremmo dovuto camminare alla cieca, facendo affidamento solo sul suono dei nostri passi e l’aguzzarsi di tutti gli altri sensi. 

Non mi piace il buio e ciò che esso sa celare.

Trenta minuti. 

Trenta minuti in cui avrei dovuto sfidare il mio bisogno epidermico di controllo e accogliere l’imprevisto. Trenta lunghissimi minuti di vuoto che può essere colmato da trappole, agguati e sgambetti di ciò che non può essere previsto o che forse non esiste. Ho cominciato un conto alla rovescia silenzioso, come la sabbia che scivola giù dalla stretta vita di una clessidra, dividendo la luce dall’oscurità. Trenta minuti prima di addomesticare le ombre e definire la loro cattività… 

«Non vuoi una torcia?» mi ha chiesto Mister Enfisema vendendomi paralizzata all’ingresso del lungo tunnel oscuro.

«È buio dentro!» ha concluso con un sorriso storto e giallastro, sfregando una torcia sferica tra le mani per generare un campo magnetico. La torcia a carica elettrostatica si è attivata emanando un alone freddo di luce senza riflessi, più simile alla nebbia che a raggi pronti a fendere le tenebre, ma meglio di niente!  Ho sfregato le mie mani una contro l’altra e ho schiuso le dita affinché la luce, attratta dal mio campo magnetico, ha fatto un balzo controllato verso di me e lì si è depositata, senza toccarmi, come un bombo disturbato che fluttua da un fiore all’altro,  senza mai rinunciare al volo. 
Con la sfera sospesa davanti a me, sono riuscita a scorgere delle scale oltre al cancello. Mi sono voltata, un’ultima volta, per cercare con lo sguardo Fausto, Giulio e Monica. Ognuno di loro aveva la propria sfera luminosa che balenava sui palmi delle mani. Mi hanno sorriso e Monica mi si è messa accanto e, insieme, abbiamo varcato la soglia di quella lunga trincea scavata nel XX secolo. 

Fu durante la Prima Guerra Mondiale che il Generale Cadorna decise di portare a termine il grande progetto di fortificazione del confine settentrionale del Paese, dalle valli ossolane fino ai passi orobici. Quarantamila uomini vennero impiegati nella costruzione di strade, sentieri, mulattiere, trincee e depositi dai 600 a 2mila metri di altitudine. Vennero così scavati oltre settanta chilometri di trincee nella roccia della montagna e fatti esplodere centinaia di ordigni, per ricavare più di ottanta postazioni di artiglieria lungo le trincee e noi, a distanza di oltre un secolo, ci trovavamo proprio lì, in una di quelle postazioni – ferite aperte nella roccia – predisposte ad ospitare cannoni, mortai e disperati con un fucile carico in mano. 

Abbiamo camminato per diversi minuti lungo un tunnel scivoloso e ostile, con le gocce di umidità che cadevano da quel soffitto scavato nella pietra e spaccato, qua e là, dalle radici degli alberi che aveva avuto l’esclusiva di invadere, storicamente, la fortezza. 
«Sono anni ormai che ci troviamo qui. Queste trincee sono diventate la nostra casa. Qui ci sentiamo come se… Maledetto figlio di uno stronzo malcagato da un cane malato e puzzolente!» ha urlato a un certo punto la Valchiria, arrestandosi di colpo sui suoi piedi e interrompendo il cammino della carovana che la seguiva. La marcia è ripartita pochi istanti dopo, senza però che si fosse interrotta quella rara e maleducatissima manifestazione di improperi e turpiloquio da parte della Valchiria che si è avvicinata, con lunghe falcate agili e minacciose come lo scatto di un predatore, verso il volto nobile e seducente di Michail “Huxley” Woland in persona che riempiva un’intera parete della caverna. 
«Willy Wonka e la tua fabbrica di merda, che tu sia maledetto!» ha detto avvicinandosi con aria di sfida a quello che però era solo il simulacro dell’uomo più potente e subdolo del mondo. 
«Ti piace?» ha chiesto Ballard. «L’idea è sua…» ha detto, indicando Fausto, che ci ha raggiunto sorridendo, come al suo solito, deformando la bocca in un ghigno cattivo.
«Durante la nostra esibizione chiederemo di lasciare un segno sulla gigantografia del faccione del Signor Woland. Una scritta, una firma, una foto… uno sputo!»Ballard non se l’è fatto dire due volte e, abbandonato il suo carico a terra, ha raggiunto la gigantografia di Woland e ci ha pisciato sopra nonostante le proteste, non abbastanza autorevoli, di Monica.
«Hey, abbiamo intenzione di portarcelo dietro per tutto il tour! Non ho voglia di viaggiare su un camper puzzolente della tua urina!» ha detto, fornendomi così il gancio per poter affrontare con lei un discorso a me molto caro: l’igiene di Monica. O meglio, il suo concetto di igiene e la sua percezione degli odori che emana. 

Conosco Monica da ormai diversi mesi e credo che cambi più spesso i vestiti della sua gallina che i suoi. Mi chiedo cosa ci sia in quel vano puzzolente sotto il suo letto da cui attinge abitini, tutù e gonelline colorate per la gallina, ma da cui non tira mai fuori qualcosa per se stessa. Indossa la stessa maglietta da quando la conosco.
«Tanto non ha le ascelle!» si è giustificata, non senza ragione, dal momento in cui definire ciò che indossa una t-shirt effettivamente è un po’ fantasioso. Monica indossa quella che un tempo, molto lontano, doveva essere una maglietta ma di cui, adesso, ciò che rimane, sono dei lembi con un buco in mezzo per la testa e due lunghi squarci che partono dalle spalle, arrivano sui fianchi dove un nodo sigilla i lembi. Ed è oggettivo che il vuoto costituito dagli squarci laterali, non possa essere contaminato dalla puzza di sudore che il contatto diretto con le ascelle può creare, ma è altrettanto vero che da quegli squarci laterali gli esca sovente una tetta. 
«Tanto non ce le ho le tette e non le ho mai avute!» si è giustificata, ancora, nel momento in cui chiedevo lumi in merito alla sua presa di posizione di non lavarsi, non cambiarsi e ignorare il buonsenso di non uscire di casa con le tette di fuori. No, non c’entra il pudore. Nella nostra società non esiste la vergogna, perché non esiste l’idea del peccato carnale e il corpo della donna non è più sessualizzato o usato per sedurre, vendere o tentare ma, dati alla mano, si è rivelato molto più vantaggioso educare le donne a coprirsi piuttosto di insegnare agli uomini a non mal interpretare certi segnali e, per evitare le aggressioni di natura sessuale, molestie e abusi, il regime del Buonsenso sconsiglia vivamente alle donne di indossare capi che possano essere oggettivamente considerati sexy. 
La Woland Corporation rilascia una lista stagionale aggiornata poiché, si sa, i canoni erotici cambiano in base al momento storico, le tradizioni culturali, il clima, il benessere psico-sociale collettivo e tanti, tanti, altri fattori. Uscire con le tette di fuori, devo dire, che è una presenza piuttosto costante all’interno di queste liste.  

Ma sembra che a Monica non importi. Per lei niente ha valore, tranne quella maglietta puzzolente o quella borsa logora e sbiadita o quegli anfibi sbucciati. Il suo basso consumato che non cambierebbe con nessun altro strumento al mondo. Il camper rattoppato e sfinito dalla strada che ancora dovrà percorrere. Apparecchiare la tavola in qualsiasi situazione, chiederti un milione di volte al giorno “come stai?” e non ascoltare mai davvero la risposta. Monica vive in un mondo in cui il senso di ogni cosa è mutevole e arbitrario e, in assenza di certezze, bisogna abbandonare il superfluo, il dovuto, il non sentito. Aggrapparsi con tutte le forze, invece, celebrare e proteggere quei minimi rituali che sono luogo di cura e amore. 

Per fortuna Monica, con quella sua voce da bambina con la raucedine, è riuscita a convincere altri punx, che già avevano abbassato la zip dei pantaloni, a non far diventare un rituale (decisamente privo di amore) il pisciare contro la gigantografia di Woland. 
«Trasformate quella cosa gassosa e pesante che è l’odio, in linee e colori! Non sprecate quell’energia! Liberatevi della rabbia con gioia e creatività!» ha sussurrato Monica, nelle orecchie dei ragazzi e delle ragazze – sempre più numerosi – che si erano arrampicati fino a lì per assistere ad un concerto. Abbracciandoli tutti, posando una mano sopra le loro spalle, baciandoli sulla fronte come una zia ubriaca ad un matrimonio e dando via al primo segno, dopo il piscio di Ballard,  a quell’opera d’arte corale, situazionista ed  iconoclasta. 

Dopo una cena a base di fagioli in scatola e panini avvolti nella stagnola, innaffiando tutto con ingenti quantità di birra in lattina, siamo tornati nella caverna centrale per assistere al primo concerto della band di apertura e ciò che abbiamo trovato ci ha tolto il respiro: armati di pennelli, pennarelli e bombolette spray un gruppetto di artisti improvvisati, ha trasformato il volto di Woland in quello di un mostro, sotto la cui pelle lacerata si nascondono le verdi squame di un rettile. E in quegli occhi, gialli e rossi dalla pupilla a taglio, lo sguardo feroce e afflitto di chi viene smascherato. Accanto a quel volto, al posto delle lettere che compongono il suo ed il nostro credo – la felicità se non è misurabile, non è – ne è comparsa un’altra che recita: “To the heroism of resistance fighters – past, present and future” con una grande “A” cerchiata in calce.   

La band ha preso posto in quello che doveva essere il palco. Alcune ragazze gotiche vestite di pizzi neri e tutù di tulle funerei urlavano, da una parte all’altra della caverna, comandi ed indicazioni per attivare i generatori elettrostatici. Per avviarli era necessario dare una spinta iniziale attraverso un sistema di propulsione dinamica – ovvero delle cyclette modificate – e le tre spose delle tenebre si sono sfidate a carta, forbici e sasso per stabilire a chi sarebbe toccato pedalare. Una volta avviato il generatore, sarebbero bastati i nostri corpi in movimento, il sudore e il calore generato dai cori e le danze, per avere l’energia necessaria all’alimentazione dell’impianto luci e audio. 
Ballard, ancora sporco di vernice, ha preso posto dietro al mixer da cui partivano tanti e diversi cavi, che sembravano le viscide propaggini di un mostro paludoso tentacolare. Gli altoparlanti, ai lati della band, sono stati ricavati modificando quelle che dovevano essere delle casse di munizioni, in cui erano stati inseriti grossi coni, tenuti insieme con nastro isolante e filo di sutura. 
La Valchiria si è seduta dietro alla batteria. Una vera batteria. Con cassa, tom, timpano, rullante, piatti e persino il charleston. Fausto ne è rimasto rapito. La Valchiria, seduta là dietro, con le bacchette in mano, era una dea guerriera pronta a dare inizio e governare i tempi feroci di una battaglia tribale per la sopravvivenza.   

So che esiste un mercato di veri strumenti destinati a collezionisti e nostalgici dell’epoca ma ovviamente è vietato suonarli e, per non creare infruttuose tentazioni, gli strumenti musicali in vendita non sono nelle condizioni di emettere alcun suono.
Chitarre con corde in polimeri rigidi che riproducono, ma solo all’apparenza, la spessa elasticità e la ruvidezza del Mi basso o l’algida tensione del Mi Cantino. Corde impassibili al tocco di dita senza calli, che sono dono degli errori e della dedizione. Timpani flosci le cui pelli non possono assorbire l’urto dei colpi inferti. Pianoforti che sono gusci senz’anima, il cui bianco e nero di tasti ciechi non saprebbe come intonare meccanica alcuna.  

Non c’è musica senza movimento.

4. D.D. è una punk rocker, ora | IL GRANDE ROGO DEL ’25

4. D.D. è una punk rocker, ora | IL GRANDE ROGO DEL ’25

But she couldn’t stay,
She had to break away.
Sheena is a punk rocker, RAMONES

Era primavera ed io fui convocata alla mia prima Officina di Lavoro riservata ai dirigenti. Ero stata trasferita dal secondo al terzo piano del Grande Palazzo, grazie all’individuazione dello schema alla base di questo redivivo bisogno di passione, che mi aveva fatto ottenere una promozione. Venni accolta nell’auditorium, secondo il regolamento aziendale, con un video messaggio – sempre lo stesso – di Michail “Huxley” Woland in persona che recitava il nostro credo. 

Non esistono macchine senza acciaio o drammi senza instabilità sociale. Ho scelto la serenità di ottenere ciò che voglio e non desiderare ciò che non posso ottenere. Io sto bene. Sono al sicuro. 
Ignoro la malattia e non temo la morte, perché diserto la vecchiaia di quel padre e quella madre che ingombrano la mia mente. Non ho figli da proteggere, amanti da sedurre o amori da conquistare, perché ho rinunciato alla violenza delle emozioni e alla fragilità della carne. 
Scelgo la felicità misurabile ed effettiva a discapito della lotta contro la sfortuna, le tentazioni, i dubbi e le passioni. 
Non ho bisogno di eroismo o di salvezza, perché non esistono vittime e martiri in assenza di carnefici e non esistono carnefici se non ci è concessa la vulnerabilità. 
Non cerco l’avventura perché non accolgo l’imprevedibile. 
Ho scelto l’armonia degli ingranaggi, la poesia della programmazione e la grazia dell’infallibilità del calcolo. 
Ho scelto di non scegliere e vivere nella beatitudine che non è mai maestosa o spettacolare. La felicità non è mai grandiosa. 

«La felicità se non è misurabile, non è! La felicità se non è misurabile, non è!» cantilenarono tutti in coro e io li seguii, sfiorando con la punta delle dita il mio nuovo dispositivo occhio-orecchio di nano-chips, acciaio chirurgico, silicone e rame e stirando qualche piega della mia nuova divisa color smeraldo, riservata ai collaboratori del terzo piano del Grande Palazzo.

 Di fronte alla mia seduta era stata lasciata una copia serigrafata di “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley, riscritta da Michail Woland, nella sua edizione speciale per l’anniversario della fondazione della Woland Corporation. Un dono per il mio passaggio di livello alla classe superiore all’interno dell’organizzazione aziendale. 

La sfogliai ripercorrendo quella storia che già conoscevo. 

Il lento e inarrestabile processo di disumanizzazione, di rinuncia all’empatia e di accettazione della logica e del buonsenso, come unica forma di sopravvivenza e pace sociale, trovò il suo dogma tra le pagine del romanzo di Huxley, i cui diritti vennero acquisiti dalla più grande azienda della Federazione Post-Europea, la Woland Corporation, appunto.

Con le economie dell’antica Russia e l’antica Cina riunite, grazie alla fusione delle più importanti aziende nazionali (nanotecnologia cinese e fabbrica del consenso sovietica), Michail Woland – l’amministratore delegato dell’omonima corporazione – è l’uomo più potente del Nord del Mondo, in grado di controllare l’industria tecnologica, farmaceutica e logistica, il mercato dell’intrattenimento, dello spettacolo e della cultura. Qual è l’origine della sua fortuna? Essere riuscito a conquistare il monopolio dei dati e della loro elaborazione. 

Fu la direttrice della Divisione di Commercializzazione che, dopo aver sorpreso una sua sottoposta leggere quel libro in pausa pranzo – violando il regolamento interno che vietava i passatempi solitari e sfidando l’etichetta sociale che sconsigliava la lettura di romanzi – incuriosita dal volume sequestrato, lo sfogliò e ne scoprì il potenziale.

Organizzò un gruppo di lavoro a cui commissionò una scheda ed un’analisi approfondita del testo, che passò alla Divisione di Gestione delle Crisi la quale, a sua volta, ne fece derivare alcuni algoritmi applicabili ai fenomeni sociali contemporanei. Ne emerse che la fantascienza distopica negli Anni Settanta era in realtà un ottimo modello sociale replicabile ed esportabile, sia nel Nord ché nel Sud del Mondo. Vi era persino un caso storico, riportato nella diapositiva n°1984, in cui si faceva riferimento ad un altro romanzo di fantascienza elevato a testo sacro da una setta chiamata Scientology. 

E così Michail Woland divenne Michail “Huxley” Woland, di sua spontanea iniziativa ed intuizione, galvanizzato dall’idea di vedere il proprio nome stampato sulla nuova Bibbia, il nuovo Corano o il Mussar della modernità. La direttrice della Divisione di Commercializzazione la reputò una scelta molto saggia e, nell’arco di un semestre, una nuova versione di “Il Nuovo Mondo” era sul comodino, nelle biblioteche aziendali e nelle sale d’attesa di buona parte del Nord del mondo. 

«La felicità se non è misurabile, non è» si dicevano l’un l’altro, scambiandosi il formale segno di pace previsto alla conclusione del credo. Il segno non prevedeva alcun contatto fisico ma i due interlocutori, voltandosi faccia a faccia, chiudevano pollice e indice della mano sinistra incorniciando l’occhio con uno zero, mentre alzavano l’indice della mano destra verso il cielo ad imitare il numero 1. Zero e uno, zero e uno, dopo zero e uno, venne il mio turno e così risposi al segno di pace all’uomo che stava alla mia sinistra, e lo replicai voltandomi verso la donna che stava alla mia destra, ripetendo: «La felicità se non è misurabile, non è» unendomi a quel brusìo che riempiva l’aria aromatizzata alla menta piperita dell’auditorium. Ma, nel pronunciare quelle parole che tante volte avevo ripetuto nell’arco della mia vita, suonarono diverse. Suonarono come sbagliate e producevano un suono sgradevole. E allora le sillabai di nuovo nella mia mente, ancora e ancora. Ed era come masticare stoffa al posto della succosa pesca che credevo di aver addentato. 

Ma perché? Il punto è che non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto – concreto e tangibile – che i dati da me raccolti ed elaborati raccontavano qualcosa di diverso circa l’idea di felicità. Ma come potevo mettere in discussione l’intero apparato su cui si reggeva la nostra società e il nostro benessere? Chi ero io per oppormi o criticare ciò che andava bene agli altri. Gli altri… 

Mi guardai attorno e la sensazione fu quella di non essere più parte, di non appartenere, a ciò che mi circondava. E no, non era colpa di essere stata promossa da poco ed essere magari l’ultima arrivata. Questa mia condizione, semmai, mi aveva portato soltanto a non dare per scontata ogni cosa. Ad osservare le circostanze con un occhio nuovo e non assuefatto alla norma, come quando si legge la prima pagina di un trattato di una scienza ignota e ogni cosa è aliena e la mente è carica di elettrostaticità, eccitata e pronta a balenare di scosse e scintille al minimo contatto o attrito. 

Ero sconnessa, scollegata, dalle persone che mi circondavano ma, soprattutto, in quel momento mi resi conto di non credere alle parole dell’uomo più potente del mondo. Questa nuova consapevolezza si convertì in un brivido lungo tutto il corpo, per poi passare e lasciarmi spaesata, con un sorriso sulle labbra, potente e confusa, ma presente per davvero, in quel qui e ora in opposizione all’esistente, che aveva un nome ed era il mio. 

Mi chiamo Dorotea Disastro e prima di allora non sapevo cosa fosse il punk.

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

12 giugno 2040 – Linea Cadorna, Monte Orsa. Distretto montano della Valceresio.

Il nostro tour è partito dalla provincia.

Non ricordavo più cosa volesse dire vivere sconnessa dal mio dispositivo occhio-orecchio. L’avanguardia della tecnologia, della modifica del corpo e il design di innesti magnetici microdermali che nascono dietro al padiglione auricolare, brillano di luce pulsante sulla tempia e strisciano sotto il sopracciglio per agganciarsi ad un gioiello di acciaio chirurgico a ponte, nella parte alta del naso, tra i due bulbi oculari. 

Da quando ho disarticolato il mio dispositivo dal servitore della rete della Woland Corporation, devo essere io a capire, per esempio, se ho voglia di patatine fritte e dove posso trovare la friggitoria più vicina e più quotata dalla comunità elettrica.  

Devo essere io a bere quando ho sete e ricordarmi di farlo. 

Non ho il conforto di un immediato riscontro in merito a ciò che indosso o ascolto o frequento. Né di ciò che penso. Dobbiamo essere noi a scegliere, a prendere le nostre decisioni.

E infatti ci siamo persi. 

Siamo finiti in mezzo ad un bosco e lasciato il camper a lato della strada, per evitare una fusione del radiatore surriscaldato dalle fatiche della salita impervia e degli imperturbabili tornanti, le curve a gomito e a zig-zag, indifferenti alla sofferenza del vecchio camper di Monica. 

Abbandonata la pianura piastrellata della grande metropoli di Milano, non c’è rettilineo che non si trasformi, all’orizzonte, in una svolta. Curva che non sia in discesa o salita che non nasconda una rovinosa china dietro al suo picco.  

Abbiamo visto il paesaggio cambiare. Addio città-fabbrica e addio città-commerciali. Addio campi lasciati incolti dalla pianificazione agricolo-economica del Buon Senso. Addio tele-strada regolare e magnetizzata su cui non è necessario essere vigili alla guida. Una volta entrati in Provincia, disarticolati i nostri dispositivi e afferrato il volante, la strada ha cominciato a inasprirsi e lungo la nostra prospettiva, si stagliavano le prime colline. Soffici collinette ricoperte di un verde rigoglioso e brillante, in principio, ma poi il verde si è fatto sempre più cupo, fino ad alternarsi a rocce grigie, ruvide e dall’aspetto minaccioso.  

Sbucando oltre una lunga galleria, ci hanno accolto  cinque vette aguzze a saturare la nostra vista. Oltre quelle vette brilla il Lago di Lugano e la costa Elvetica. Ed è lì che abbiamo progettato di fuggire nell’eventualità che qualcosa vada storto in occasione del nostro primo concerto clandestino. 

Abbandonato il camper abbiamo deciso di proseguire a piedi, grazie alle indicazioni scarabocchiate su un foglietto da Fausto,  intanto che parlava con un arcaico telefonino cellulare con A. del collettivo clandestino alla regia della nostra prima data del tour. 

Monica stava legando la sua gallina con un guinzaglio fuori dal camper, quando abbiamo sentito alle nostre spalle una voce maschile che ricordava, però, il tubo di scappamento di un mezzo a motore. 

 «Non vi conviene lasciarla lì, a meno che non vogliate applicare il protocollo D.E.A.T.H. alla gallina. Qui – disse alzando entrambi le mani come a verificare che non piovesse – vivono liberi e selvatici diversi animali come leprotti, tassi, cinghiali e volpi ghiotte di tutto ciò che ha le piume e il becco!» aveva detto il ragazzo con la voce a scoppio, accogliendoci con un grande sorriso giallo di nicotina. 

Dopo essersi presentato stringendoci le mani ed abbracciandoci, si è acceso una sigaretta davanti a noi ed io ho abbassato lo sguardo per la vergogna. 

«Volete? – ci ha chiesto porgendo il pacchetto – ne abbiamo scoperto, e continuiamo a farlo, a quintali qua tra le montagne!» 

Lo sapevo. Conosco la storia di questi luoghi eppure ho ascoltato volentieri il suo racconto di queste montagne, rotta di contrabbandieri e criminali in fuga. Durante le mie indagini preliminari e la pianificazione dei concerti, ho svelato parte dei segreti che questi boschi nascondono. E ricordo, che nel farlo, la mia pelle si era ricoperta di puntini in rilievo e mi si era rizzata la peluria sulle braccia, intanto che un brivido strambo mi ha attraversato il corpo. Ho tremato nonostante le miti temperature di una Primavera inaspettatamente così calda, da ingannare persino le lucertole che, irrompendo tra le crepe del cemento,  si scaldavano alla luce degli schermi pubblicitari. 

Ero a conoscenza del fatto che determinate emozioni potevano generare dei corto-circuiti sensoriali, come tremare anche se non fa freddo, appunto, o svegliarsi in un bagno di sudore persino in pieno Inverno. Ridere fino a lacrimare o ridere nel pianto. Il Buon Senso mi diceva che sarei dovuta stare alla larga da un posto del genere, ma avevo sentito una sorta di livida attrazione per la storia, meschina e sbagliata, di quei boschi. 

Luoghi di sofferenza.

«Tra queste vette nessuna guerra è mai stata combattuta, eppure ogni singola pietra deposta è frutto della miseria, dello sfruttamento e della follia militare» ci ha svelato Signor Nicotina, Monossido di Carbonio, Catrame ed Ammoniaca.  

Ci siamo guardati intorno. Ai lati del sentiero, che aveva smesso di assomigliare una strada da troppo tempo, all’ombra degli alberi e tra il marcire e il rigenerarsi delle foglie in humus, facevano capolino delle cupole di pietra con scorci, finestrelle e feritoie scolpiti nella roccia per far passare luce, aria e la canna di un fucile. 

Messa al sicuro Gallina Siouxsie abbiamo proseguito il nostro cammino con basso, chitarra, gli zaini e il resto della strumentazione sulla schiena. Ci hanno raggiunto, superandoci, altre persone cariche all’inverosimile; chi di panini, chi di birre in lattina ammassate in grandi bidoni di latta adattati a zaino o grosse giare di pioppo intrecciato sorretti con fasce in tensione sulla fronte. 

«Questo è l’ultimo carico, Ballard» ha detto una ragazza dalla larghe spalle e le braccia ricoperte di brutti tatuaggi, appoggiando a terra una cassa che teneva in bilico sulla testa. L’urto col terreno ha dato origine a sbuffi e nuvole di polvere, provocando alcuni colpi di tosse in serie alla ragazza che non si è preoccupata, però, di coprire la bocca con l’incavo del gomito né tantomeno, di disinfettare il perimetro di aria che la circondava. Ho abbassato lo sguardo, ancora una volta, per la medesima sgradevole sensazione che si avverte nel vedere il pus di una ferita infetta e le gocce di sudore di chi perde il controllo dove altri resistono.  

“Credo che il bosco non sia regolato dalle stesse leggi della città e così chi li vive” ho pensato.

 «Questa volta ti sei superata, Lara. Dove ne hai trovati così tanti?» ha chiesto un altro ragazzo che ricordava un cyborg mutante, con una grancassa sulla schiena, aste agganciate a gambe e braccia, cavi che si attorcigliavano come serpenti attorno al collo e un mixer al posto del torace. 

«Non ne ho la più pallida idea. Lo sa la Dea, lo sa! Non mi è mai successo di avere così tanta fortuna. Ma al momento spero solo di darli via tutti per non doverli riportare giù! Pesano, mannaggia. Pesano così tanto che sto rivalutando la mia posizione in merito alla piattaforma digitale di Willy Wonka!» ha detto scoppiando a ridere, seguita da Ballard e il cyborg avvolto nei cavi. 

«Willy Wonka?» ho chiesto senza ottenere risposta, poiché il bottino di Lara ha catalizzato l’attenzione di tutti i presenti, compreso Fausto che si è inginocchiato, come in preghiera, verso la cassa. 

Al suo interno: decine e decine di musicassette, CD e vinili proibiti con teschi, robot, esplosioni nucleari, bestie feroci, filo spinato, armi e bombe a mano, divinità terribili, città in rovina e motoseghe disegnati sulle copertine. Erano uguali a quelli dell’illecita collezione di Fausto. Simili a quei dischi sequestrati dai Tutori della Serenità e che ci erano stati assegnati dalla Woland Corporation durante la nostra officina di lavoro nei primi giorni di Primavera.  

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Per i politici, gli uomini d’affari e i comuni consumatori il datismo offre tecnologie all’avanguardia e nuovi immensi poteri. Anche ad accademici e intellettuali permette di rivelare il Sacro Graal scientifico che è sfuggito loro per secoli: una sola teoria onnicomprensiva che unifichi tutte le discipline scientifiche dalla musicologia all’economia e alla biologia. Secondo il datismo, la Quinta sinfonia di Beethoven, una bolla finanziaria e il virus dell’influenza sono soltanto tre pattern di un flusso di dati che può essere analizzato usando gli stessi concetti di base e gli stessi strumenti. Quest’idea è estremamente attraente. 

Homo Deus, YUVAL NOAH HARARI

L’idea sulla carta sembrava vincente. 

Sedevo in una trattoria minimalista, che serviva solo cibo color arancio, insieme a quelli che erano i miei colleghi dell’ufficio “analisi dei sentimenti” della Woland Corporation, una grande multinazionale presente in ventisette paesi del mondo. Bevevamo vino da centotrentatré euro a bottiglia, ottenuto da uva dal DNA modificato per ricordare il colore del tramonto. Era stata una nostra invenzione, la mossa giusta che ci aveva fatto ottenere quell’ambito premio aziendale al merito, per cui stavamo brindando in occasione della festa mensile dedicata alla socializzazione tra dipendenti del colosso sino-russo. Il vino, una volta stappato e fatto decantare, cambiava colore seguendo le mille e una sfumature del sole che tramonta per poi diventare nero come la notte. E, insieme al colore, aumentava la gradazione alcolica passando dai 5° di un leggero aperitivo, per arrivare ai 15° di un cocktail annacquato. Alta ingegneria genetica e una scientifica strategia di comunicazione, per un vino che era composto per il 65% da inchiostro e sintesi. Ma i consumatori lo trovavano romantico e in quei tempi, dati alla mano, la passione e l’emotività erano tornate sulla cresta dell’onda dell’intrattenimento a pagamento. Da noi venivano editori, politici, discografici massoni e industriali a capo di corporazioni che producevano dalle merendine ai sex-toys. L’analisi dei sentimenti stava alla base di ogni decisione commerciale e diplomatica. Il mio lavoro consisteva nel mappare e misurare le cyber-emozioni attraverso un sistema metrico basato sulla vanità, individuare uno schema ricorrente e passare le informazioni ai miei colleghi specializzati nella formulazione dell’algoritmo. 

Il popolo dichiara pubblicamente, di fronte alla propria comunità elettrica, ciò che acquista, mangia, ascolta e pensa poiché indossare quelle scarpe, seguire quella dieta o quel guru,  sostenere o aborrire quella opinione in merito ad una determinata questione sociale, politica o mondana, è motivo di vanto e appartenenza. Qualcosa da esibire, come la felicità di essere ciò che siamo, a proprio agio nelle nostre identità additive di bambole con mille accessori intercambiabili in dotazione. Ogni scelta, una volta individuato lo schema, può essere prevista, suggerita, corretta e appagante, anticipandone il desiderio.  

Io leggevo, osservavo e scavavo nei meandri dell’iperspazio. Ed ero brava in questo, perché non mi fermavo mai a ciò che era manifesto e fatto alla luce del sole, con filtri “bellezza” e innumerevoli scatti scartati a causa di pappagorge traditrici o rotolini di adipe svelati da elastici e cuciture. 
Senza troppa fatica era facile scoprire il sottotesto: noi della Woland abbiamo, dopotutto, accesso agli impulsi neuronali di tutti gli utenti che indossano un dispositivo occhio-orecchio. E se un tempo esistevano cronologie di navigazione da cancellare, musica da ascoltare soltanto quando si è soli, articoli morbosi letti con vergogna di cui non parleresti con nessuno, domande sussurrate in cerca di una diagnosi medica o parole chiave digitate con una mano sola, intanto che l’altra è nelle mutande alla ricerca di un colpevole piacere… adesso ci pensa l’algoritmo a mostrarti quello che vuoi liberandoti dal senso di colpa, la vergogna o l’abulia del dover scegliere tra le infinite possibilità. Che si tratti di cosa mangiare a pranzo o su cosa masturbarsi. 


Ecco, fu proprio da lì, dalle tendenze nella pornografia, che mi accorsi con grande e inaspettata meraviglia, che i video più popolari, suggeriti dagli impulsi neuronali, erano quelli in cui c’era una storia e che il ritmo di questa storia, spesso, era sostenuto da un concatenarsi di invidie, drammi della gelosia, competizione e faide tra classi sociali, ambientate in epoche passate. Ritmo accentuato da una sincopata tensione narrativa che esplodeva, risolvendosi, in grandissime scopate appassionate.

Quella mattina avevo fissato un appuntamento con il mio capo e i miei sette colleghi presenti in ufficio, usando i nostri dispositivi occhio-orecchio. Sette diversi bip, con uno scarto di qualche secondo, notificarono l’invito. Dopo un’altra manciata di secondi mi arrivarono cinque conferme su sette. Il mio collega seduto accanto a me – responsabile della moderazione delle polemiche accese dai nostalgici carnivori – era impegnato in una video-chiamata con la responsabile delle attività extra-lavorative. Il mio superiore mi inoltrò una proposta di anticipare l’incontro di otto minuti. Tolsi il dispositivo occhio-orecchio agganciato alla tempia, feci un giro di 90° sulla mia sedia girevole e chiesi ad alta voce se agli altri andasse bene, ma tutti erano rapiti come falene dalla luce dei monitor e non ottenni risposta. Tutti, tranne l’addetta allo svelamento delle superstizioni e pulsioni anti-scientifiche che annuì, dicendo:
«A me va bene, ma aggiorna l’evento sul calendario condiviso se non ti dispiace»§«Ok, va bene» risposi e altre sette volte i nostri dispositivi occhio-orecchio suonarono per allertarci. Ottenute le sette notifiche di conferma, aspettai i tre minuti che mi separavano dall’ora proiettata in caratteri verde acido oltre la mia retina, mi alzai per andare verso la sala riunioni e così fecero gli altri. 
«Ho sedici minuti e quaranta secondi – disse il mio capo, impostando un orologio digitale a forma di cubetto di ghiaccio al centro del tavolo – parla».

E così, in sedici minuti e trentasei secondi, raccontai cosa avevo scoperto.
«La comunità elettrica ha bisogno di passione» dissi, e illustrai la mia tesi con diverse diapositive con il logo aziendale, grafici a torta e statistiche illustrate, che confermavano ciò che era già intuibile dal titolo della presentazione e cioè: “Tutto è misurabile? Come trasformare la fidelizzazione del cliente in apparente passione, attraverso la trasmissione e il contagio degli ideali liberali”. 

Tra gli intellettuali e i dissidenti dell’epoca delle Democrazie Apparenti, andava molto forte una teoria argomentata e divulgata con cinismo, rassegnazione e con un’implicita sfumatura di biasimo e condanna: la critica verso la società, a loro contemporanea, era quella di non saper imparare nulla dalla Storia e dagli errori del passato. Ed ecco che ogni giorno si vestiva a festa per ricordare quella violenta strage da non perdonare, un olocausto da non ripetere o quelle vittime, seppur generosamente vendicate, da non dimenticare. Nulla di più falso. Ogni individuo e ogni essere vivente (del regno vegetale e animale) lotta per la propria sopravvivenza e, razionalmente, non dovrebbe commettere errori fatali, fare scelte controproducenti o assumere atteggiamenti autodistruttivi per se stessi o la propria specie a cui trasmette, attraverso i geni, queste informazioni essenziali. Questo sul piano razionale, appunto.

Prendiamo ad esempio il cosiddetto “vizio” del fumo, palese manifestazione delle assurde gabbie mentali, delle menzogne confortanti e dell’irrazionale e sconfinata ricerca del profitto di quell’epoca. 
Fumare il tabacco è un inutile passatempo dispendioso, che crea dipendenza psicologica, fa venire il cancro e causa gravissimi danni all’apparato broncopolmonare e al sistema cardiovascolare. Eppure, ai fumatori, non sembrava importare quanto il rapporto tra vantaggi e svantaggi fosse sbilanciato verso questi ultimi. E su questa anomalia, nell’elaborazione e nella lettura ed interpretazione dei dati, che si inseriva l’avidità delle lobby del tabacco, il cui potere influenzava quei governi da cui però ci si aspettava che curassero tutti quei malati, sulla cui infantile rivendicazione di libertà,   l’industria del tabacco traeva un generoso profitto. 
Non fu facile individuare e correggere il bug di quello schema secondo cui, sia le vittime che i carnefici, condividevano il medesimo desiderio: essere liberi di vendere e fumare sigarette, sentirsi liberi di fare e farsi del male. Ma una volta formulato l’algoritmo e dopo una serie di azioni chirurgiche di propaganda e repressione, nonostante  la tenacia kamikaze delle parti coinvolte (i fumatori e i venditori di fumo) si arrivò alla definitiva e razionalmente ovvia distruzione dell’industria delle sigarette, la messa al bando del fumo nei luoghi pubblici e privati e, di conseguenza, l’eliminazione di una gravosa voce passiva dal bilancio del sistema sanitario nazionale.

Era stata la Woland Corporation, grazie al suo sterminato archivio di dati e ai suoi processori, a individuare l’anomalia, a correggerla e a sconfiggere l’industria del tabacco. E fu proprio così che la Woland Corporation cominciò ad analizzare ogni cosa. 

Una volta individuato lo schema e formulato l’algoritmo fu chiaro per tutti e tutte – così per i miserabili che per i burattinai di questi ultimi – che guerra, povertà, ingiustizia e violenza erano da imputare all’irrazionalità, all’imprevedibile sentire, alla furia del ventre e alla follia del sognare di essere liberi, desiderare il potere e sperare di ottenerlo o mantenerlo.  La democrazia, allora, è stata sostituita da analisi scientifiche e calcoli statistici atti a creare proiezioni di ogni possibile scenario, al fine di valutare la scelta più conveniente per la stabilità sociale e, questo metodo, viene applicato anche alle scelte intime e private dei cittadini, circa gli amici da frequentare e i partner a cui legarsi. Così come per il concetto di bello, giusto o buono. 

L’algoritmo è in grado di vagliare infinite possibilità in un lasso di tempo irrisorio, inimmaginabile per la mente dell’uomo. L’algoritmo, inoltre, è più fedele alla realtà rispetto alla narrazione che facciamo di noi stessi e di ciò che ci circonda, perché non subisce l’influenza del vociare del nostro intimo soffrire, la pressione delle aspettative sociali, i ricatti affettivi e i pregiudizi culturali tipici così dei singoli individui come della coscienza delle società e dei gruppi sociali. L’algoritmo raccoglie i dati e li elabora. Punto. L’algoritmo sa prendere le decisioni giuste per noi. Anche se sono difficili e impopolari o molto lontane dalla nostra idea di etica e morale. L’algoritmo non conosce paura e insicurezza. Sia che si parli di gusto del gelato o di diritti umani. È una questione di buonsenso.

Immagine in evidenza elaborata da un dettaglio di un disegno di Miles Johnston.

IL GRANDE ROGO DEL ’25 | Prefazione

IL GRANDE ROGO DEL ’25 | Prefazione

PREFAZIONE

NO DREAMS, NO FUTURE

Il vecchio cine è spento da anni
Le scale e i nervi sempre sconnessi
No future, FRANTI 

Sostengono che i sogni non siano altro che il sistema di deframmentazione della memoria. Quel programma di Windows fatto di mattoncini colorati a cui ci si appellava quando non c’era più spazio sull’hard-disk e il sistema operativo andava in confusione. Il processo era alquanto lungo e noioso, ma l’alternativa era dover cancellare intere cartelle di foto e dischi scaricati illegalmente per far spazio a vecchi videogiochi bidimensionali dalla colonna sonora ipnotica e allucinata. 

Non è possibile ricordare tutto. Custodire ogni istante. 

Alcune cose vanno messe in ordine e alcune buttate. Altre, invece, che già sono state eliminate, hanno però lasciato una traccia non visibile a occhio nudo. Sognare vuol dire scegliere ciò che deve essere conservato, ed archiviarlo, o cancellare il ricordo di ciò che dobbiamo abbandonare lungo il nostro cammino. Questo è utile e lo metto qui. Quest’altro invece è pericoloso, fa male oppure è effimero e non è utile a quell’ecosistema di saliva inghiottita, parole taciute e artigli atrofizzati che è il vivere in mezzo agli altri. Deframmentare: Forma e colore dopo forma e colore, fino a ritrovare una zona libera, vuota, di un buio profondo capace di ospitare i nostri domani, come incastri in un Tetris della percezione. 

Perché è solo nel sognare che combattiamo corpo a corpo con la medesima ferocia di un freddo calcolatore (if/then), che è clone dello spietato istinto a sopravvivere delle piante e degli animali, contro noi stessi e il nostro stare e sentire nel reale. Noi, i nostri ricordi e le nostre emozioni indomite e la possibilità di scegliere tra morire da stronzi o un piano a medio-lungo termine di non belligeranza con la realtà (gli altri e ciò che è lecito, utile ed opportuno), oppure sopravvivere, certo, ma come scemi di guerra. Senza alcuna possibilità di issare la bandiera della resa. Questo è ciò che vivi. Questo è ciò che senti per davvero. 

Ed è nel sogno che noi viviamo. 

Come quando sei su un palco fatto di bancali e rifiuti, i tuoi occhi incontrano quelli di chi è lì per sentirti suonare. Senza una cassa-spia a mettere in atto ciò che fai o una gerarchia che ti elevi ad un ruolo. Quando gli impianti sono quello che sono e l’eco delle gelide fabbriche – ex macelli, mercati comunali, case disabitate che trasudano di vita e selvatichezza come mai, prima di allora, nel loro ormai passato essere utili a qualcosa – amplifica la più debole delle urgenze. 

Quando le orecchie servono a ben poco e la musica è tutta una questione di cuore, istinto, memoria muscolare e simbiosi con i tuoi compagni di ventura. Con i piedi a mollo nella birra del discount, i vestiti intrisi di fumo, a costruire un qui e ora che diventerà un ricordo. Un piccolo tassello di una memoria collettiva di cui non saresti mai parte senza chi, quello spazio, lo ha occupato e vissuto, senza il calore (l’odore e il sudore) di quella pelle bucata dall’acciaio chirurgico, le cicatrici che ci siamo scelti e che vengono celebrate dall’inchiostro, quelle parole sulle magliette nere, logore e fradice che sono manifesto, aculei e resistenza. Ogni segno, colori di guerra, per trasformare la rabbia in musica, la musica in elettricità, l’elettricità in moto e azione, l’azione in storia. 

La nostra Storia. 

Perché ad affrontare la realtà così come sogniamo – dichiarando guerra alla disperazione che paralizza e scacciando ciò in cui non crediamo o che ci viene a noia – non c’è trauma che non possa diventare banale. O dolore che non lasci una cicatrice di cui essere fieri. 

Scriviamo questa storia, allora. Affinché i nostri ricordi non vengano ammansiti, addomesticati e resi innocui dal sistema immunitario della memoria che tutto normalizza. Cantiamo per contagiarci, gli uni con gli altri, con quel vivere e quel sentire caotico, fortissimo e a tratti assurdo che significa suonare in un gruppo d.i.y. punk, su questa faccia della Terra, a cavallo dei millenni. 

Ci sono voluti vent’anni per creare questa storia. La racconterò come se fosse un sogno, mischiando il presente col passato, il reale col simbolico, il qui con l’altrove. Non mentirò mai. Poiché non esistono menzogne sotto la dittatura onirica del sogno e in quella dimensione, ai confini della realtà, che comincia il mio viaggio. In quella regione in cui s’innesca ed esplode un ricordo inventato… o forse è un incubo? 

Era il 2041: avevamo il muso rivolto al muro e i fucili puntati alla schiena. Eravamo nella capitale russa della Confederazione post-europea, nell’anno XVI dall’instaurazione del Regime del Buonsenso.

H24: CIRCE PRECIPITA

H24: CIRCE PRECIPITA

GIORNO UNO

Ti ho visto arrivare alle prime luci dell’alba. Hai indossato un lungo cappotto su quei pantaloni ridicoli del pigiama. Ti sei vestito di corsa. Non hai avuto il tempo di lavarti il viso e con gli occhi ancora cisposi hai guidato fino a qui. Hai chiamato tua madre. Lo fate quasi tutti. Tornate bambini incapaci di affrontare la realtà ma adesso che sei qui la tua mamma è più un impiccio che altro, sebbene tu faccia fatica ad ammetterlo.  

Non ti servono le sue mani sulle spalle, le sue parole di conforto poco sincere che non riescono a nascondere il biasimare e recriminare i tuoi errori o il tuo troppo sentire. Perché se sei qui, si sa, è perché ami troppo o forse sei troppo distratto. E l’una e l’altra cosa (o addirittura entrambe) alimentano e giustificano quel sacrosanto sguardo severo, che solo tua madre sa destinarti.

Ti sei pentito di averla chiamata, vero? Vorresti farla scomparire ora, e non dover rispondere alle sue domande, ma adesso è troppo tardi. Ti sei spaventato e l’hai chiamata e lei è venuta subito da te, all’alba, perché è così che fanno di solito le madri. Corrono in tuo aiuto, facendoti notare però il costo che ciò comporta. Te lo dirà come una cosa da nulla, ma farà in modo che quell’informazione colpisca forte e nel punto giusto. Che ha dovuto lasciare solo, per esempio, quell’uomo che un tempo chiamavi “padre” ma che da anni non ricorda più il tuo nome o quanti anni hai. Quell’uomo, suo marito nonostante la malattia, a cui si dovrebbe risparmiare l’inevitabile agitazione che seguirà al suo risveglio in un letto vuoto. Reggerà il suo cuore per il tempo necessario di mettere a fuoco quel biglietto, scritto a caratteri molto grossi, che tua madre ha lasciato attaccato sullo specchio del bagno, per avvisarlo della sua assenza? Lo ha lasciato solo a causa tua, della tua disattenzione e del tuo troppo sentire. Un momento di debolezza, ma fa niente. Possiamo risolvere anche questo problema. Lo faremo insieme, perché da adesso ci siamo io e te e nessun altro.  Lo sai. E, intanto che corri verso di me, cominci ad accettarlo e crei una distanza fisica accelerando il passo. Perché quella che ti cingeva le spalle con un braccio, non è più quella donna che era il tuo tutto, ma è una vecchia che non sa più esserti utile.

Lasciala dietro di te, cammina più in fretta e parlami ora con parole che sono razzi colorati che si stagliano, fumando, tra il bianco opprimente del cielo e l’urgente candore che accieca della neve in montagna. In quest’alba in cui tutto attorno sarebbe gelo e deserto, anche se fosse la notte di San Lorenzo. Allunga la distanza tra un piede e l’altro perché forse è meglio non farti sentire da lei, tua madre, intanto che fai la tua confessione. Ogni parola che dirai potrà essere usata contro di te, è così che si dice, vero? Perché è così che fanno, le madri e gli sbirri.

 Avvolto in un vecchio asciugamano da spiaggia che risale alla tua infanzia, porti il corpo di un gatto. O forse è un piccolo cane, ancora non riesco a capire ma so, dall’espressione dei tuoi occhi, che se è lì tra le tue braccia è perché pensi di poterlo salvare ed io sono qui per questo. Ora parlami. Confessa la tua colpa e cerca l’assoluzione da questa donna, fino ad ora sconosciuta, che ti accoglie con un sorriso privo di condanna e occhi buoni di chi può perdonare e che, ancora non lo sai, sarà la donna più importante della tua vita nei prossimi sette giorni. Perché sette? Perché questa è la regola. Oltre non reggete. 

È stato un attimo di distrazione. Ho lasciato la finestra aperta e lei – inclini leggermente l’involto per mostrarmi il musetto di una gatta bianca, nera e rossa di sangue –  deve aver cercato di catturare una lucertola, forse, o un uccellino – no, lei non ne ha di colpe anche se una parte di te è in collera per la pena che ti sta causando – ed è caduta dal terzo piano. Di solito c’è la rete, ma avevo steso il bucato e… Shhhh, non permettere al panico di strozzarti le parole in bocca perché quello che dirai adesso, potrebbe dannare la tua anima o salvare la vita di quella creatura che stringi tra le braccia. Quello che racconterai adesso diventerà la verità con cui dovrai fare i conti, forse, per il resto della tua vita.

 «Trascina una zampa e sanguina da un orecchio, potete salvarla? L’ho portata immediatamente qui, appena me ne sono accorto. Mi sono distratto un attimo…»

Non è vero. Non è stato un attimo, ma accetto che tu mi voglia, e ti voglia, raccontare questa bugia. Fa parte delle regole del gioco, lo fate per poter sopravvivere. Una legge fondamentale per non rompervi in mille pezzi a causa di quel peso che grava sul cuore, lo sterno e lo stomaco di chi, come te, avendo la responsabilità di una creatura-altra viene a meno di quel patto, attentando alla sua vita. Un tradimento a tutti gli effetti. Non dovevi far altro, in fondo, che prenderti cura di lei. Ma hai fallito ed adesso sei qui davanti a me con una gatta in fin di vita tra le braccia, i pantaloni del pigiama con dei disegnini scemi e un cappotto nero che non basta a non farti sentire freddo.  

«Ho bisogno del tuo nome, del tuo numero di telefono, del codice fiscale e del nome della tua gattina»
«Io sono Carlo»
«Piacere Carlo, non ti preoccupare, hai fatto bene a portare qui…»
«Circe, lei è Circe e…» a pronunciare il suo nome, quella gatta in fin di vita che stringi al petto, emette un debole miagolio e questo, per te, è decisamente troppo. Piangi. Ed insieme alle lacrime butti fuori tutta l’adrenalina che ti ha fatto guidare fino a qui, da me, senza la consapevolezza di schiacciare la frizione per cambiare la marcia, di premere sull’acceleratore durante i rettilinei, di manovrare lo sterzo per assecondare le curve e frenare agli stop o davanti alle strisce pedonali che, per fortuna, a quest’ora sono deserte. 

Schiaccio un pulsante sulla mia scrivania per chiamare chi sbrigherà le ultime scocciature burocratiche, ma sarò io a farti firmare questo foglio che tu non leggerai in cui, dopotutto, mi autorizzi a salvare la vita della tua Circe. Davvero non hai il tempo e la testa, ora, per leggere ogni piccolo carattere stampato su questo foglio e, d’altronde, sappiamo entrambi che non hai altre alternative od opzioni, se vuoi che Circe torni a sedurti con la sua morbida pelliccia, dormendo sul tuo petto intanto che guardi la televisione sdraiato sul divano, lo stesso petto che Circe infilza con quei piccoli uncini on demand, in cerca di cibo ogni mattina. Quel petto che ora non avverte più il calore del suo corpicino, in questo momento di distacco, in cui io sfilo Circe dalle tue braccia e l’accolgo tra le mie, per portarla in ambulatorio e tu non riesci a guardare e resti a contemplare quel freddo, umido vuoto che è la sua assenza. Gli occhi persi. Ti stai chiedendo se questo è un addio.

FINE PRIMA PARTE, CONTINUA…

Audiolibro | I MORTIFICATORI di Valeria Disagio

Audiolibro | I MORTIFICATORI di Valeria Disagio

Chi sono i mortificatori?

Ascolta l’audiolibro scritto e letto da Valeria Disagio

I Mortificatori è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte, per poi rieducarli a furia di supplizi e schiaffoni.

O.S.T. “Awake Arise Silence” by MARTHE

I MORTIFICATORI | IL PODCAST

I MORTIFICATORI | IL PODCAST

Chi sono i mortificatori? Perché sono così interessati alle forme d’arte più radicali? Partendo dal presupposto che la pazzia è anche un godimento dei sensi, i loro adepti cercano nuove vittime tra i giovani artisti emergenti, i più sensibili alle sirene dei soldi, del successo e dell’egocentrismo, i più golosi di droghe e perversioni. I mortificatori sono consapevoli che dei soggetti così creativi possono andare in pezzi, appena un grammo di caos penetra nelle loro fragilità.

Il confine che divide l’arte dalla morte è troppo vago, chi potrebbe dire dove uno finisce e l’altro inizia. Per scoprirne il segreto si narra che questa setta misteriosa utilizzi la tortura mascherata da body art.

Leggenda metropolitana o realtà? Toccherà a Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.

Un romanzo che offre le chiavi per capire questi tempi feroci e quali pericoli si nascondono dietro la ricerca forsennata dell’apparire sempre sull’onda degli estremismi mediatici, religiosi o politici, in una società dove di estremo c’è solo la solitudine.

Vegan Gyros Vemondo | DISCOUNT OR DIE CHE TUTTO STRIDA

Mai mangiato il gyros in vita mia. La cucina greca è approdata nel post-aperitivo urbano che già non mangiavo bestie e poi i miei vecchi hanno mangiato male in un ristorante greco a Parigi nel 1992. Leggi l'articolo qui
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I mortificatori – Proposta per una serie

I mortificatori – Proposta per una serie

“I Mortificatori: horror d’amore, arte e cicatrici” è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte – a 27 anni – , per poi rieducarli a furia di torture, supplizi e schiaffoni. Leggenda metropolitana o realtà?

Toccherà ad Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.

Presentazione del soggetto