sci-fi
13. Muori, muori mia adorata! | IL GRANDE ROGO DEL ’25
Yeah, I’ll be seeing you in hell
1983, Die, die my darling, MISFITS
Seguimi in questo tunnel di rovi, di rampicanti e macerie dove i baci sono morsi che sbranano il dolore.
2016, L’amore in tempi dispari, KALASHNIKOV COLLECTIVE
Il ginocchio di Fausto sfiorava il mio. Ed io ricambiai spingendo il mio, contro il suo con una maggiore pressione perché sapevo che ciò era sconsigliato e inappropriato. Pochi centimetri di pelle a contatto che parlavano un linguaggio che solo noi potevamo comprendere. Fausto abbassò il volto per nascondere un sorriso sconveniente. Ed io spinsi ancora più forte la mia gamba (ora, persino la coscia) contro la sua, perché era qualcosa che non avevo mai fatto prima e il mio corpo, in quei centimetri di pelle, esercitava un potere che io non avevo mai sperimentato. Come il mio ginocchio contro il suo, così i nostri corpi nudi sotto i palmi delle nostre mani e quei baci che assomigliavano a morsi, pronti a sbranare voracemente quella che era stata la mia, e la nostra vita, prima di quella notte , quella stessa vita che però si ERA FATTA strada, ostinata e inamovibile, insieme alla luce del giorno.
Avevo già fatto sesso, certo, ne avevo fatto quanto basta, eppure stavo sperimentando la sensazione più erotica della mia vita, in quella pressione del mio ginocchio contro il suo, nella sala d’attesa dell’ufficio dell’assistente del signor Woland in persona e della sua squadra di lavoro.
La nostra “presentazione” del progetto per la conquista del segmento di pubblico, che rifiutava di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma di musica digitale della Woland Corporation, aveva fatto parecchio rumore… nel vero senso del termine. Così tanto rumore da arrivare ai piani altissimi dell’edificio e, da lì a pochi istanti, avremmo dovuto parlarne direttamente con la squadra di lavoro che, non solo era a capo della delegazione di Milano, ma lavorava a stretto contatto e si relazionava direttamente, ogni giorno, con Michail “Huxley” Woland in persona.
Avevamo ottenuto ciò a cui nemmeno i più alti livelli potevano ambire. Arrivare al nucleo, alla testa pensante dell’edificio dai vetri dei colori del cielo, era qualcosa che neanche Fausto aveva mai vissuto o sperato di poter vivere nell’intero arco della sua carriera. Ed era nervoso. Era eccitato, ancora. Ed io come lui, sebbene nell’ultima notte passata insieme non avessimo fatto nulla di eccezionale se non ubriacarci, ascoltare musica e fare sesso.
Ma ciò che rendeva tutto così sconveniente, sbagliato ed “emotivo” era l’averlo fatto perché lo desideravamo e senza pensare alle conseguenze e ai vantaggi che bere, fare sesso, ascoltare musica e raccontarci i nostri più intimi pensieri, avrebbe generato nelle nostre vite a breve, medio o lungo termine.
Non avevamo fatto foto e non avevamo immaginato le possibili reazioni delle nostre comunità elettriche. Fare sesso con un utente con il seguito che vantava Fausto, mi avrebbe portato ad un aumento di fedeli e seguaci, mi avrebbe catapultata nel mondo di quelli che la gente imita e assume a figura di riferimento e statistica. Documentare l’aver fatto sesso con lui, avrebbe aumentato il mio punteggio sociale, eppure non mi aveva minimamente sfiorato il pensiero di interrompere ciò che stavo vivendo per estrapolarne un istante ad uso e consumo del mio pubblico. Non avevo pensato a didascalie buffe e profonde da associare alla nostra esperienza comune. Non sentivo nessuna voce interiore che narrava il presente, immaginando poi come sarebbero suonate quelle parole nel report sociale quotidiano sul mio diario digitale. Avevo vissuto e basta… senza lasciare traccia.
Me ne ero resa conto solo dopo aver riattivato il mio dispositivo occhio-orecchio, ed essermi accorta, che tanti mi avevano cercato non vedendo più la mia testimonianza di essere viva. Avevo mangiato e cosa? Avevo fatto esercizio fisico? Quanti chilometri o a quale frequenza cardiaca? Quante calorie o oggetti di cultura e intrattenimento avevo consumato?
Uno scatto alla copertina e una serie di stellette per giudicare, con un semplice tocco delle dita, il lavoro di mesi o anni di un altro individuo. Avevo comprato dei vestiti o provato una nuova acconciatura grazie ad un simulatore virtuale? Non esisteva testimonianza del maglioncino nero abbinato alla camicia verde smeraldo che avevo indossato la mattina, guardandomi allo specchio. E i miei esami del sangue senza asterischi? Scatto. Esami del sangue con qualche infausta diagnosi? Scatto e foto-ritratto nel letto di ospedale. Perché senza la reazione di un pubblico, il fatto non sussiste. Perché da quando abbiamo rinunciato alle emozioni e le passioni, è solo l’approvazione o la contestazione degli altri a misurare la nostra gratificazione e miseria. Perché se non lo racconti, non lo hai vissuto. Se non lo fotografi non lo ricorderai. Se non lo comunichi, non lo senti.
Eppure io avevo ascoltato Fausto per delle ore. I suoi ricordi, le sue emozioni, il suo vissuto di quell’epoca che ricordavo solo nei racconti epici, frammentari e distratti di quel fantasma dell’uomo che doveva essere stato un tempo mio padre. Ai tempi non sapevo neanche se fosse ancora vivo. Il mio genitore che non avevo mai chiamato papà…
Non avevo rapporti con i miei genitori da quasi sette anni. Da quando, compiuti i sedici, avevo abbandonato la casa in cui ero cresciuta e preso una stanza in dormitorio, secondo quanto stabilito dalla legge. Sotto il regime del buonsenso nessuno è obbligato moralmente o legalmente a mantenere un rapporto con la coppia genitrice se, statisticamente, la relazione non rappresenta un vantaggio per tutte le parti coinvolte. Ma ciò non accade quasi mai e, come una malattia genetica, nonostante tutte le precauzioni di igiene pedagogica adottate, gli errori dei genitori si riversano sui figli che a loro volta contaminano di aspettative, bisogni puerili di affetto, affermazione, rivalsa e approvazione irrazionale ogni altro legame.
Staccare il cordone ombelicale non ha mai avuto così tanta importanza come nell’epoca post-pandemica in cui fummo tutti costretti ad accettare che, per tornare alla vita, dovevamo liberarci della zavorra.
Vecchi, malati, indigenti, disoccupati, tossici, disturbati, alienati, handicappati, depressi cronici, stupidi dal QI infimo… Senza di loro, spazzati via dal virus, dal rifiuto di vaccinarsi o dall’interruzione dell’erogazione di qualsiasi servizio sanitario e assistenziale statale, che troppo spesso si dava per scontato, venne rianimata un’economia attaccata ad un polmone artificiale che prometteva, senza alcun buon senso, il benessere di molti a discapito di tutti. Senza stolti, fragili e malati a pesare sulle spalle di noialtri sani studenti e lavoratori dalle eccellenti prestazioni, si vive decisamente meglio.
Durante i miei studi universitari ho dato un esame di Storia del sentimentalismo con un focus sulla “disperazione”. Non mi fu difficile immedesimarmi in un mio coetaneo degli anni Venti, ma mi sembrava così assurdo che così pochi avessero preferito una razionale interruzione della propria vita, in nome di una non computabile speranza che qualcosa sarebbe cambiato nelle loro vite, migliorandole. Loro, di certo, non potevano sapere che Woland avrebbe rivoluzionato, salvandole, le nostre esistenze.
Ma uno come Fausto, per esempio, che aveva studiato in una scuola pubblica in cui i docenti non insegnavano la storia più recente che andava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, passando per gli anni di piombo, per arrivare a tangentopoli – argomenti che la politica considerava divisivi – perché , buona parte di ciò che era accaduto in quegli anni, non aveva ancora una verità ufficiale (o pronunciata dai tribunali) che potesse essere raccontata. E allora ecco che la storia finiva con la vittoria della democrazia al referendum del ‘46 ed un breve cenno su chi, quella democrazia, l’aveva conquistata, costruita e rivendicata.
Fausto poi aveva frequentato l’Università statale e cercato un impiego, rendendosi conto di essere in ogni caso scavalcato da chi, grazie ad un percorso accademico e formativo a pagamento, era più preparato per il mondo del lavoro, più inserito, più colto, più bravo a scrivere una lettera d’impiego e a sostenere un colloquio.
Fausto aveva passato i primi 10 anni dopo il diploma di laurea a collezionare contratti di lavoro precari, mal pagati e non specializzati, che gli avevano fatto dimenticare quel poco che aveva appreso durante gli studi. Era riuscito ad ottenere un contratto decente, che di anni ne aveva trenta e un ruolo decisionale solo a 35 anni.
«E per voi donne era anche peggio» mi aveva detto quella notte, confermando il frutto dei miei studi per quella tesina sulla disperazione. «Attorno ai 30 anni, dopo oltre 10 anni che lavoravo e studiavo, mi è arrivata una lettera da quello che un tempo era l’ente provvidenziale, grazie alla quale appresi che avrei dovuto lavorare fino a 79 anni. Ed era stato così anche per Giulio, che lavorava con gli anziani non autosufficienti che al tempo venivano ancora tenuti in vita e c’era gente come lui, per l’appunto, che veniva impiegato per nutrirli, lavarli, farli andare persino in bagno» mi aveva raccontato.
«Era una strana epoca la vostra. Mi stai dicendo che il protocollo DEATH ( Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene) non veniva applicato?» avevo chiesto.
«Negli anni Venti, prima della pandemia, il protocollo DEATH era soltanto l’acronimo di Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene ed era uno strumento di misurazione per valutare la gravità dello stato di salute di un individuo e la sua autonomia nello svolgere le attività quotidiane. Non era come oggi, col sistema attuale, in cui se un individuo non è in grado di vestirsi, mangiare, camminare, andare in bagno e lavarsi in autonomia, allora viene eseguita la sentenza e quindi c’era bisogno di persone come Giulio che se ne occupavano e, se non fosse stato per Woland, l’aspettativa era quella che avrebbe dovuto farlo fino agli ottant’anni e badare così a suoi coetanei!»
Follie democratiche che ci siamo lasciati alle spalle. Ora, disabili permanenti, malati terminali e anziani non autosufficienti vengono accompagnati con dolcezza, verso una morte liberatrice. Non ha alcun senso obbligare loro ad un’esistenza di sofferenze e umiliazioni, sovraccaricare di fastidi e imporre sacrifici alle famiglie e costi per lo Stato ed i contribuenti. Senza neanche bisogno di prelevare una singola goccia di sangue o materiale organico, inoltre, un potente programma di calcolo è in grado di individuare, facendo interagire tra loro le due sequenze di DNA di chi desidera un figlio, le possibili malattie genetiche invalidanti o la tendenza a gravi patologie prima ancora del concepimento.
«Assurdo! Vivevi in un’epoca priva di senso. E lo Stato? Come giustificava questa follia? Voglio dire, come poteva risultare credibile nell’emanare leggi che obbligavano una carcassa ambulante a dover prendersi cura, per lavoro, di altri soggetti inutili al benessere comune?» avevo chiesto, pur sapendo la risposta. Sapevo molto bene che, ai tempi, il mondo era in mano a uomini (soprattutto) e donne che avevano superato da tempo l’età del ritiro e che, avidamente (anche l’avidità era frutto del sentimentalismo dopotutto), partivano dal presupposto che la propria condizione di privilegio, come essere in buona salute, l’accessibilità all’assistenza e alle cure mediche, fare un lavoro intellettuale con la possibilità di delegare a schiere di schiavi ed assistenti, fosse applicabile ad ogni strato e classe della società. No, per loro non sarebbe stato un problema lavorare, in quelle condizioni, fino agli ottant’anni. E poco importava se non avevano formato degli eredi capaci di proseguire il loro lavoro, perché fintanto che fossero stati in vita, avrebbero costituito una minaccia e, una volta morti, non avrebbero avuto alcun interesse sulle sorti dell’azienda che gestivano, dell’ente di cui erano presidenti, della cattedra universitaria che occupavano, del ruolo amministrativo per cui erano stati eletti e così via. Egoisti e avidi che non vedevano al di là della propria ricchezza terrena da proteggere con tutto il potere che erano in grado di esercitare.
La vera svolta della rivoluzione di Michail “Huxley” Woland fu quella di smascherare l’avidità liberale, in quanto frutto corrotto di un sentimentalismo irrazionale. Che le masse proletarie fossero manipolabili attraverso l’emotività su cui facevano leva i cosiddetti populisti non era una novità, ma che persino i vertici del mondo fossero messi su di un patibolo e svestiti delle proprie corazze, privati di quel potere abusante e distruttivo, liberati dalla gerarchia che li proteggeva indebolendo il tessuto sociale, era qualcosa che raramente si era visto prima; ad accezione delle grandi rivoluzioni che però erano partite dal basso e poi fallite per motivi, purtroppo, maledettamente emotivi e irrazionali.
L’epoca che aveva preceduto la pandemia era stata decisamente assurda e disperata. Di tutte le storie che mi aveva raccontato Fausto quella notte, l’unica sensata era stata quella di Wendy che aveva deciso di ammazzarsi.
12. Il grande rogo | IL GRANDE ROGO DEL ’25
A partire dalla pandemia del 2020 e nel decennio successivo, queste cloache di illegalità e sporcizia, vennero sgomberate, murate e dispersi i collettivi che le occupavano e le abitavano. Il medesimo trattamento fu riservato ad ogni forma di illegalità e devianza che minacciava una possibile nuova ondata di contagi o di incendi. Il terrore per la malattia e il caos del 2025 spianò la strada all’applicazione scientifica delle teorie di Woland e della sua riforma.
E così vennero chiusi i centri sociali e le case occupate, repressi gli scontri durante i cortei e le proteste simboliche apparentemente pacifiche, messe a tacere le radio clandestine e sequestrata ogni singola fanzine o volantino, ma ciò che ne emerse è che la gente, senza questi luoghi in cui organizzarsi e aggregarsi tra simili, creare musica, arte e altre inutili baggianate politicamente ininfluenti – in fin dei conti – in quel momento storico in cui si resero conto di vivere la vita dei loro padri e delle loro madri tra monogamia, famiglia, casa, lavoro e routine asfissianti (eppure infinitamente più poveri rispetto ai propri genitori), sbroccarono del tutto nell’acquisire la consapevolezza di essere, dal lunedì al venerdì, degli schiavi.
I primi fuochi vennero appiccati dai fascisti e dagli anarchici, gli uni contro gli altri. Seguirono mesi e anni di incendi, disordini e distruzione in cui i libertari davano fuoco alle macchine dei padroni, ai simboli dell’oppressione e ai palazzi dei potenti.
I fascisti al potere incendiavano gli animi del popolo più povero di capacità critica (e facilmente infiammabile) puntando il dito sulla sovversione anarchica, l’insofferente miseria dei migranti e la coesa autodeterminazione di popoli con un dio, e un’idea di società, in disarmonia con la propria tiepida condanna di rana bollita su un fornello acceso. E ancora fuoco.
I roghi dei campi Rom si estesero fino ai quartieri popolari dove i più giovani figli della miseria e dell’invidia, approfittavano del caos e dei continui black-out, per scagliare molotov contro le Forze Armate e lanciare mattoni contro le vetrine di quei negozi di tecnologia elitaria, per cui erano stati sfrattati dalle strade in cui erano cresciuti giocando a pallone o facendo il palo ai fratelli maggiori che spacciavano. Questo esercito in poliestere, puzza di piedi e hashish, sfregiava le macchine dei borghesi, vandalizzava i loro ristoranti biologici e saccheggiavano i negozi di design e atelier di arte sperimentale, sbucati come foruncoli grazie alla riqualificazione urbanistica intossicata dai fondi destinati alla cultura, all’istruzione e al benessere sociale. Tutto questo prima di dargli fuoco, ovviamente.
E gli impiegati, vedendo ridotta in cenere quella che (ancora 32 rate e) sarebbe stata la loro automobile, ibrida, perché si può parcheggiare all’interno delle linee blu del centro davanti a quel bar dove diluire, insieme al ghiaccio dei cocktail, la convinzione di non essere mai all’altezza delle situazioni, sentirono tutto l’affanno e la stanchezza di quella corsa verso la prossima promozione, la prossima vacanza, la prossima scopata, il prossimo weekend… e cominciarono, letteralmente, a darsi fuoco.
Senza preavviso, senza sorpresa, smisero di buttarsi sotto i treni, sedarsi con l’alcol e lo yoga per inzupparsi gli abiti di vodka polacca e trasformarsi in torce umane nella metropolitana all’ora di punta, nelle sale riunioni sotto il fascio di luce di un proiettore, nelle palestre open space… essi bruciavano, sorridendo e urlando di gioia e dolore.
In quegli anni il cielo era rosso sangue e l’aria puzzava di grasso arrosto. Lo chiamarono il Grande Rogo Civile del 2025 e morirono centinaia di persone in ogni città, tra migranti di seconda generazione con le tasche piene di smartphone da migliaia di euro, pompieri martiri, sbirri linciati, gay e femministe messi al rogo dai sovranisti, pire di medici puniti da chi si sentiva vittima di un’inverosimile dittatura sanitaria, presunti untori colpevoli di focolai infettivi in occasione di feste di compleanno festeggiate in un fast-food… Fuoco, fuoco e ancora fuoco, con la stessa furia di quell’eruzione vulcanica che doveva aver distrutto Ercolano e Pompei.
A spegnere il fuoco ci pensarono i neonati Tutori della Serenità della Woland Corporation. E furono proprio i primi sostenitori della dottrina del buonsenso – alcuni di loro erano stati gli incendiari della primissima ora – dopo aver contribuito a spegnere anche il più innocuo tra i falò, a sussurrare nell’orecchio dell’apparato statale che, forse, concedere al popolo (soprattutto a quelle tribù più insofferenti come i punk e gli appartenenti alle controculture in generale o a quei grandissimi rompiballe degli anarchici) qualche piccola libertà in quelle minuscole e controllate sacche di illegalità, rendeva di conseguenza possibile il lavoro nelle fabbriche, negli uffici amministrativi o nelle agenzie creative, per esempio.
I punk, gli anarchici, i sedicenti rivoluzionari, i bombaroli e gli incendiari tornarono a pulire culi o lavorare nelle scuole (relazionandosi con genitori che non accettavano autorità all’infuori dell’eccellenza e la genialità del figlio). Accettarono di passare dalle otto alle dodici ore con persone con cui non avevano nulla da dirsi a parlare del meteo – ma non della crisi climatica – per non turbare la suscettibile armonia di quella cattività illuminata dai neon.
Chi aveva appiccato i primi fuochi tornò ad occuparsi di disabili, di reti idriche, impianti elettrici e patatine fritte servite con il ketchup a parte, pacchi e pizze al kamut da consegnare in fretta ed evitare una valutazione negativa o un richiamo formale. Si tornò, insomma, a lavorare esattamente come prima del Grande Rogo.
Tutto questo fu possibile grazie a quella becera promessa festiva, ma a tempo determinato, di un concerto in cui esprimere le inclinazioni artistiche, di un piccolo corteo o sit-in in cui manifestare il proprio dissenso, tra una settimana lavorativa e l’altra. Dopotutto, a questi insofferenti e ribelli a cui “non vanno bene le cose”, basta la ricercata alienazione di queste oasi dove si sentono protetti e tra simili, per poi tornare il lunedì ad indossare un sorriso comune e timbrare il cartellino. Permettere l’esistenza di certi spazi non è altro, dunque, che una calcolata questione di buonsenso, di utilità e di efficienza.
11. REPORT | Novembre 2041, Mosca. Pochi istanti prima del concerto n°200
Un autobus di linea rallenta e si ferma davanti all’ingresso di ciò che un tempo doveva essere uno strip club e che, di quel passato, conserva i velluti, l’ammiccante penombra e gli affreschi di cattivo gusto. L’autobus è fuori servizio eppure è pieno di passeggeri. Hanno caschi neri, passamontagna e un esoscheletro di silicone, anch’esso nero ma che riflettendo la luce dei lampioni libera riflessi cangianti che vanno dal verde al viola e che gli ricopre il corpo dal torace agli stinchi. I grossi fucili che imbracciano, sono caricati con proiettili di gomma, ma hanno comunque l’aspetto minaccioso di zampe urticanti e pungiglioni di aracnidi mutanti.
Scendono tre alla volta, in un batter d’ali senza emettere neanche il più debole dei brusii, dalle tre porte dell’autobus che si sono aperte sulla strada brulicante di persone accorse per il concerto. Il locale è già pieno, ma loro vogliono comunque entrare. Vanno dai 14 ai 50 anni e sono lì perché vogliono sentirci suonare dal vivo. Sono qui per la nostra musica. Se non fosse per questa motivazione, e cioè l’ultima data del nostro tour organizzata da una radio clandestina universitaria, probabilmente sarebbero nelle loro case. Al caldo e al sicuro. Ma invece la voce è girata in fretta e si è sparsa anche oltre i confini della città e ora ci sono centinaia di persone riversate in strada, che vogliono entrare in quello che un tempo era uno locale di spogliarelli e strusciamenti. Ma le porte sono chiuse dall’interno ed è inutile accalcarsi contro, in cerca di protezione o di una via di fuga da quegli uomini scesi dall’autobus che sparano, picchiano e calpestano chiunque, facendoli cadere sotto i loro colpi.
Chi è stato più veloce dei proiettili, scappa verso quelle porte che non possono aprirsi, perché dentro sono state sprangate da altri soldato-insetto che da ore aspettavano il segnale concordato. Nel buio e nel silenzio di quelli che un tempo dovevano essere i camerini delle spogliarelliste di un club sexy ormai in rovina. Tra specchi vandalizzati e separé con scorci di paesaggi orientali ed eleganti geishe, nella calma apparente di un ragno che si nasconde nell’angolo della sua tela. E come ragni affamati, ma pazienti, hanno aspettato il via che è arrivato tramite il loro dispositivo occhio-orecchio e così hanno dato inizio al massacro. Una carneficina di quell’adunata per nulla igienica, di nostalgici della musica suonata dal vivo che, ricordiamocelo bene, non solo è lesiva per l’immagine della Woland Corporation, ma minaccia la serenità di tutta la città promuovendo un comportamento lontano anni luce dal buonsenso, uno stile di abbigliamento fuori dagli standard del mercato ed un consumo di bevande prive di status. Non è la prima volta che ai Tutori della Serenità si chiede di reprimere nel sangue questo tipo di iniziative e sapevano molto bene come sarebbe andata a finire.
Quegli individui all’interno dello strip club, che non aderiscono a nessuno dei buyer persona ufficiali, che non rivendicano l’appartenenza a nessuna comunità merceologica e non sfoggiano nessuno status, sono in effetti privi della benché minima struttura ossea come coleotteri senza cuticola. Molli e viscidi che si accasciano sotto i colpi del manganello.
Basta colpirne molto bene e con molta violenza una decina, per ottenere la resa di tutti gli altri. La cosa più difficile è comprendere quali vanno poi arrestati e quali soltanto spaventati. Non è semplice individuare, all’interno di quel flagello di lacrime, sangue guizzante e ossa fracassate, quali siano i musicisti e quali gli organizzatori. Distinguere chi viene pagato per suonare, da chi guadagna nell’organizzare il concerto e chi acquista un biglietto per assistervi ed è lì come pubblico pagante, è praticamente impossibile. Stessi vestiti, stesso cibo, stessi spazi. Nessuna area riservata per i musicisti o manovalanza per portare gli strumenti e fare il soundcheck in attesa delle star. E c’è chi si assenta dal mixer, per sbucciare cipolle e friggere falafel in cucina. Chi, dopo aver finito di suonare, si siede dietro a quei tavoli disseminati lungo le mura del capannone fatiscente o in alcuni casi addirittura lungo il perimetro immaginario di uno spiazzo di un bosco, per vendere magliette dai disegni spettrali, riviste in bianco e nero e rilegate con fili di spago o graffette metalliche, dischi incisi su vecchie lastre con crani, carpi e metatarsi fratturati ed esposti senza codici a barre o etichette con il prezzo.
Per non parlare dello schifo e lo sporco. Perché è tutto così maledettamente lercio, polveroso e brutto. Cessi puzzolenti spesso rotti, dai pavimenti scivolosi di fango, piscio, birra e vomito. Pareti piene di scritte, adesivi e volantini sbiaditi con le indicazioni cifrate del prossimo concerto clandestino. Cani e merde di cani. Ratti e bava di lumaca. E gli abbracci tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne, a gruppi di due, tre o anche mezza dozzina di persone abbracciate tra loro e i baci con la lingua, schiacciati contro le pareti sudice o buttati per terra in mezzo alle lattine vuote e i mozziconi di sigaretta, come cani.
L’agente a capo del blitz odia tutto questo e, sebbene per la legge del buonsenso, sia sconsigliato l’uso della violenza fisica e l’abuso di potere da parte delle Forze della Serenità, non può fare a meno di provare una sensazione di liberazione e catarsi nel momento in cui può finalmente rompere qualche osso di quei selvaggi con il suo manganello in dotazione.
Ciò che fanno è pericoloso, brutto e inaccettabile. Non guadagnano crediti, punti Autorevolezza o fedeli della propria Comunità Elettronica e mettono loro stessi in una situazione di rischio sanitario e imprevedibilità, per cosa? L’agente camuffato nel suo esoscheletro non lo capisce e ciò che non può essere capito, che mette in discussione quelle regole che ci permettono di avere il controllo sulle nostre esistenze, va combattuto e sconfitto.
Le regole di una comunità sono dogmi che non ammettono eccezioni, trasformazioni o alcuna forma di evoluzione perché la società è un’organizzazione di tipo razionale e non un organismo vivente che muta, si adatta e reagisce in base ai fattori esterni, all’emotività dei singoli e, soprattutto, alle fragilità degli ultimi. Perché una società basata sulla fragilità o il sensibile sentire è destinata a mettersi sempre in discussione, rivedere le proprie regole, o adattarle, e nessuno vuole questo. Nessuno vuole vivere nell’incertezza e nella paura. Non più. È una questione di buon senso, per esempio, concedere che esistano ancora – in misura controllabile – questi spazi.
10. Cuore di cane | IL GRANDE ROGO DEL ’25
“Unlimited tolerance must lead to the disappearance of tolerance. If we extend unlimited tolerance even to those who are intolerant, if we are not prepared to defend a tolerant society against the onslaught of the intolerant, then the tolerant will be destroyed, and tolerance with them.”
1945, Open society and its enemies, KARL POPPER
Non potevo sapere che un cuore di cane è la disgrazia più grande,
2004, Cuore di cane, KAFKA
non potevo sapere che un cuore di cane è la colpa più forte.
Giulio, dopo anni e anni, aveva finito per crederci che il punk non fosse altro che un genere musicale o, al limite, una fase necessaria di rottura in cui gli adolescenti costruiscono la propria identità nel mondo, per contrasto. Siamo quello che siamo, in fondo, perché abbiamo fatto delle scelte in opposizione a quello che era l’autorità costituita. Sia che essa fosse rappresentata dai genitori e dai loro canoni estetici e morali, sia che essa trovi forma in una qualsiasi delle istituzioni del sistema a partire dalla scuola per finire con la Chiesa.
E così, complice la pandemia degli anni Venti che rivoluzionò la vita sociale, un buon lavoro come educatore che lo portò a sporcarsi le mani nella vita reale e del tutto scollegata dagli idealismi della militanza, una moglie che amava sinceramente (e i quattro figli tutti voluti e cercati) e finanche la anch’essa autentica convinzione che oggettivamente il sistema in cui vivevano, andava distrutto dalle basi e ricostruito, Giulio C. dimenticò presto la sua chitarra elettrica in cantina e fu uno dei primissimi sostenitori della dottrina del buonsenso di Michail “Huxley” Woland.
Una soluzione razionale e misurabile che, dati alla mano, valicava qualsiasi potere precostituito era la “cosa” più vicini all’anarchia che quell’uomo, ferito dalle brutture del mondo e deluso dalle ideologie, avesse mai sperimentato. Perché se è vero che amava moltissimo i suoi figli, era altrettanto vero che il suo stipendio poteva garantire una vita adeguata e un’istruzione prestigiosa solo ai primi due. Il terzo e il quarto erano “arrivati” per pura irrazionalità. E quella folle gioia di volersi circondare di figli amati e felici, in un mondo pieno di bambini sfruttati, picchiati, traumatizzati o semplicemente cresciuti da idioti, aveva portato ad una serie di rinunce (sua moglie, per esempio, non ricominciò più a lavorare) e di sacrifici che contribuirono alla crisi sfociata in un divorzio lampo.
Con la fine dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della dittatura dell’Emotività, era sufficiente portare un test della compatibilità per ottenere, seduta stante, l’annullamento di ogni matrimonio stipulato prima delle riforme.
Dopotutto il mondo era allo sbando. Famiglie ignoranti e indigenti sfornavano cucciolate di futuri schiavi che non potevano mantenere, condannandoli ad un futuro sieropositivo, intanto che il ricco Nord cresceva piccoli psicopatici fascisti, dando loro in dote armi da fuoco e ansia.
Ma questo era il passato, ora, ad una coppia con una bassa compatibilità genetica atta alla procreazione viene consigliato di ricorrere all’adozione, di uno dei tanti bambini, che vengono portati via da quelle famiglie incapaci di mantenerli o crescerli, a causa di scarsa intelligenza, cultura o reddito e che hanno concepito senza l’avallo del sistema sanitario nazionale.
Sia ben intenso: non è vietato procreare in quei casi ma è sconsigliato e il buonsenso insegna che quando si prendono decisioni avventate, dettate dall’emotività o dall’arroganza che trascende il sapere scientifico ed empirico, si deve essere, di conseguenza, responsabili in toto delle proprie scelte. Niente sussidi, parchi giochi inclusivi, permessi speciali sul lavoro, insegnanti di sostegno, accesso alla sanità pubblica, bonus fiscali o altre forme di accatto. Un antico adagio diceva qualcosa del tipo “hai voluto la bicicletta? E ora pedala”. Niente pedalata assistita per chi non accoglie il buonsenso nella propria vita, cittadino.
D’altronde era finita da molto tempo l’ossessione, tipica dell’epoca delle Democrazie Apparenti, di dover sovrappopolare un pianeta già al limite di sopportazione. L’istinto materno era stata un’invenzione inculcata nella mente delle classi meno abbienti in quei tempi irrazionali in cui, l’avidità dei padroni, voleva forza lavoro da impiegare nelle fabbriche, nei campi e carne da macello per le guerre e i lavori degradanti o logoranti.
Facendo loro credere che l’ultralavoro e i sacrifici servissero per far vivere meglio i propri eredi, come in una sorta di martirio religioso pregno di ricompense ultraterrene, ma non godibili a breve termine nel qui e ora, essi obbedivano e si moltiplicavano. Una volta insegnato il buonsenso anche nelle scuole e smontata la mitologia e le credenze superstiziose legate all’istituzione della famiglia, il problema della sovrappopolazione svanì e così la carenza delle risorse e la loro distribuzione che divenne finalmente equa.
La non-logica del profitto capitalista, aveva raggiunto un tale livello di sclerotizzazione, che aveva fatto il giro su se stessa in un loop auto-cannibale. Un avido uroboro che tutto consuma e tutto distrugge nel tentativo di mangiare persino la propria coda.
Nel nord del mondo si moriva di malattie debellate da secoli o per un acquazzone improvviso, sommersi nel fango e nella propaganda anti-scientifica. Nel Sud del mondo si moriva in campi di concentramento fatti di mattoni e fondamentalismi religiosi, avallati esplicitamente – i primi – e in modo subdolo i secondi, dalle antiche democrazie al di qua del Mediterraneo.
In un mondo che si definiva laico, la gente aveva smesso di lapidare le donne adultere, ma era disposta a credere a qualsiasi cosa pur di non sentirsi l’inutile merda sfruttata, la cui vita ruotava attorno alle dieci ore lavorative giornaliere e a famiglie focolai di nevrosi e aspettative deluse.
Le azioni politiche e i movimenti per i diritti della comunità LGBTQ+, dei neri e delle donne avevano soltanto alzato la posta in gioco, portando il conflitto persino tra le mura domestiche. E ai fascisti che rimpiangevano la dittatura, ma si sentivano vittime nel momento in cui gli si diceva che era meglio non dire negro o troia a chi taglia la strada, non andava bene neanche che fosse un frocio a comandare sul lavoro e nell’esercito o ad operarli in un ospedale.
E in quella zattera alla deriva, tormentata dalle tempeste, in cui la percentuale di suolo calpestabile era in deficit perenne, con l’acqua alla gola, erano pronti a sacrificare il più debole in nome della propria libertà, dandogli fuoco. Fuoco nei locali LGBT+ e fuoco nelle sedi anarchiche. Fuoco nei centri di accoglienza dei migranti. Fuoco alle Case delle Donne. Fuoco alle automobili di chi osava condannare la violenza, senza però sacrificare il bon ton e l’autoinganno del pluralismo. Fuoco a chi voleva dar loro fuoco. Un fuoco distruttore, che voleva abbattere ogni ostacolo alla loro libertà di esercitare il proprio privilegio su questa terra.
Ma la libertà è qualcosa che non si può misurare. La libertà è soltanto un’idea che può essere mal interpretata anche delle più semplici e pure delle menti. E per Giulio, tra accettare la loro “libertà” violenta di opprimere, sfruttare e depredare o affidarsi alla logica iper pragmatica dei sostenitori della prima ora di Woland, scelse il male minore e aderì con convinzione alle prime iniziative indette dalla Woland Corporation. Perché un mondo privo di amore è, però, anche un mondo libero dall’odio.
La calma, la stabilità e l’efficienza dettati dal buonsenso erano un ottimo compromesso a cui ambire nel nome delle fotocopie sbiadite dei simulacri di quelli che erano i suoi valori in giovinezza.
Eppure il divorzio da Diana era stato devastante. Seppur comprendesse le motivazioni razionali che l’avevano spinta a chiedere l’annullamento del matrimonio, il suo dolore era così tangibile. Non vi era alcun coefficiente che potesse esplicitarlo, ma era vero, maledizione, come è vero il caldo del sole bollente nel deserto e il gelo degli inverni nelle terre del permafrost. E se nessuno poteva misurarlo, come un termometro misura i 50° gradi nel Sahara e i –70° della lontana Yakutsk perché forse qualcuno doveva ancora inventarlo uno stramaledetto termometro capace di farlo!
E non c’era incontro con partner compatibili al 100% o pratiche meditative di induzione al buonsenso, che potessero alleviare quel dolore provocato dal non potersi svegliare accanto a lei e in mezzo al caotico vociare dei suoi figli. Come puoi tradurre in numeri la differenza tra nutrirti e mangiare o misurare in centimetri quel vuoto nello stomaco, causato dal vedere un frigo in cui mancavano i succhi di frutta che piacevano al più piccolo o i gusti di birra che Diana comprava sapendo di fargli un piacere? La loro assenza era un assedio a cui lui sentiva di doversi ribellare. Perché il dolore è qualcosa che non si deve subire. Bisogna dichiarare guerra alla disperazione con ogni arma in nostro possesso.
Fu durante il trasloco di Diana e i piccoli, che si trasferivano dal nuovo compagno di classe superiore, che la vide in un angolo della cantina: la sua Yamaha Pacifica nera e quell’adesivo “This machine kills fascists” e si ricordò all’improvviso che già in passato aveva provato quel dolore così intenso e che quella chitarra ne era stata la cura.
Nei mesi successivi abbandonò ogni attività extra-lavorativa offerta dalla Corporazione Sociale per cui lavorava e aspettava che i vicini di casa si chiudessero nei loro appartamenti, per scaricare in cantina le assi di legno, i pannelli di polistirolo e la lana di roccia. Ci aveva messo delle settimane per prendere tutte le misure al millimetro per farsele tagliare dall’addetto del Centro Fai da te. Si giustificò dicendo che voleva soppalcare una stanza per creare un’area adibita alla meditazione al buon senso e il commesso annuì senza neanche ascoltarlo. Nessuno lo aveva mai fatto, d’altronde.
Non era stato difficile creare la parete in cartongesso a pochi centimetri da quella esistente, riempire l’intercapedine di lana di roccia, e rivestire tutto con i pannelli fonoassorbenti. La vera impresa fu trovare la strumentazione necessaria per poter mettere in piedi un piccolo studio di registrazione con tutto il set necessario. Impiegò settimane per trovare amplificatori sfondati, batterie gonfie di muffa e umidità e un mixer sdentato per poi smontarli, smembrarli e ricostruirli, mischiando e assemblando i pezzi tra loro. Comprava tutto online dai collezionisti, cambiando ID di volta in volta, e usando persino quello dei suoi figli. Doveva essere impazzito! Eppure portò a termine lo studio e gli bastò una manciata di settimane per scrivere e registrare decine e decine di canzoni. Era come un fiume in piena. Riff dopo riff, assolo dopo assolo. Una diga aperta all’improvviso che custodiva quasi un ventennio di sentimenti repressi, emozioni sedate e parole non dette. La parole… ecco, quelle mancavano.
Lui si era sempre espresso attraverso il suono della sua chitarra, riconoscibile fin dal primo accordo che era una sorta di lamento o un ululato che portava in sé la memoria del branco. Quando lui suonava, fuori, era tutto silenzio. E poi c’era Guenda, sintonizzata su quell’ululato, capace di tradurlo in testi che erano artigli che sibilano nell’aria, prima di conficcarsi nella carne. La timida Guenda, che i primi tempi dava le spalle al pubblico, perché non riusciva a cantare guardandoli in faccia.
«Come fai ad essere timida e scrivere queste cose?» le aveva chiesto un giorno.
«Io non sono timida, ma mi vergogno della rabbia che ho dentro» aveva risposto, salendo sul palco di quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto, in cui avrebbe trasformato quella rabbia in luce.
Quando si tolse la vita, a pochi giorni dal suo arresto durante un concerto proibito, nonostante il virus fosse stato debellato ed era cessata la pandemia ma non le misure repressive, scrisse che quello che faceva quando saliva sul palco e urlava dentro un microfono, non aveva nulla a che fare con la musica, ma era una questione di sopravvivenza e di resistenza alle brutture del mondo in cui vivevano.
Troppo sensibile per scegliere la violenza e la lotta, non le rimaneva altro che fagocitare tutta quella rabbia e quel dolore – suo e di chi stava sotto il palco – in ogni respiro che le gonfiava la pancia, prima di attaccare a cantare.
Era stata lei a regalare a Giulio quell’adesivo. E a lei dedicò i 5 pezzi strumentali che registrò in una sorta di demo di ciò che rimaneva dei “This machine” e, proprio nel momento in cui pensava di cercare Monica e Panatta per farglielo sentire, venne contattato da una giovane ragazza di nome Dorotea che voleva parlargli.
Si presentò come una ex dipendente della Woland Corporation, una disertora caduta in rovina, a causa di un certo suo studio che non era piaciuto ai piani alti. Raccontò a Giulio ciò che aveva in mente e lui, ben sapendo a cosa stavano andando incontro, accettò e le mostrò subito la sala prove suonando per lei alcuni dei brani che aveva composto.
«Sei consapevole che rischiamo di essere arrestati, vero?» chiesi.
Sì, Giulio lo sapeva ma non gli importava nulla, perché da quando quella giovane ragazza con la faccia da matematica gli aveva parlato, aveva smesso di pensare a Diana. Ed era un segno. Non poteva essere un caso se dopo tutto quel lavoro, senza nessuna motivazione o ragione evidente, fosse arrivata lei a rendergli manifesto quel desiderio inconscio a cui non riusciva dare una forma, ma era sempre stato lì, nei suoi pensieri, da quando Diana lo aveva lasciato. E forse anche prima, non poteva esserne certo.
Ormai non aveva nulla da perdere ed era disposto anche ad accettare che Fausto rientrasse nella sua vita e, con lui, il ricordo doloroso di Guenda e della sua morte ingiusta. Non era mai stato così convinto di qualcosa in tutta la sua vita.
«Sì, lo so che rischiamo l’arresto» rispose, con una risata che continua a risuonarmi nelle orecchie come una tortura.
9. Report#4 – 31 ottobre 2041, lasciando Minsk per la 100° data del tour. Destinazione Kiev.
Ho svegliato Fausto tirandogli una lattina vuota di birra addosso perché tocca a lui guidare fino a Kiev ed io dovrei fargli compagnia, ma lui sta ancora dormendo rannicchiato come una larva di maggiolino riesumata controvoglia, sul sedile del passeggero di quel camper fatiscente, unico superstite dell’incendio che ha devastato l’intera vita di Monica. Il camper, Monica e la sua gallina nera di nome Siouxsie: unici sopravvissuti di una vita randagia da lupa.
Sebbene ci sia andata bene fino ad ora, non possiamo abbassare la guardia e così ci alterniamo 24 ore su 24 alla guida, con turni di quattro ore a testa e poche soste programmate per ridurre al minimo il rischio di essere ripresi dalle telecamere delle centraline di rifornimento. Evitiamo l’autostrada e percorriamo così centinaia di chilometri ogni giorno, che ci portano da una città all’altra toccata dal nostro tour clandestino.
Da stasera dovremo usare tre cifre per contare le notti che ci siamo lasciate alle spalle. Ieri era il nostro novantanovesimo concerto e, questo di Kiev, sarà il numero cento.
L’estate ha lasciato spazio all’autunno ma, ormai da diverse settimane, le temperature ricordano uno di quei rigidi inverni che hanno preceduto l’estinzione dei ghiacciai. Queste terre, ambite mete dei turisti climatici, conservano ancora quel senso di sospensione e prospettiva di chi cela per mesi la propria nudità sotto una spessa coltre di vestiti, e che trasforma l’azione in immaginazione e dimenticando l’impazienza.
So che in passato veniva considerato sconveniente il silenzio e ci si sforzava di intrattenere conversazioni, anche con chi, non si aveva nulla di cui parlare. Esistevano ormai pochi argomenti che non rischiavano di trasformarsi in conflitto e c’è stato un tempo, prima che il sopravvivere alle intemperie diventasse un privilegio, che uno di questi argomenti – neutri, leggeri e versatili – fosse proprio il clima e il succedersi del tempo e delle stagioni.
Che fosse in una sala d’attesa di un medico o nella sospensione claustrofobica di un ascensore, sui mezzi di trasporto pubblici o in pausa caffè a lavoro, con una sconosciuta dietro ad un bancone che ci serve una birra ed un rimedio d’emergenza alla nostra solitudine, lamentarsi del fatto che non ci fossero più le mezze stagioni, era un modo per rompere quel ghiaccio che si scioglieva nel silenzio e nell’indifferenza di troppi, alle estremità opposte del globo. Nell’affermare ciò – questa tesi secondo la quale avremmo dovuto presto piangere l’assenza della primavera, la scomparsa dell’autunno ed il dominio della risolutezza di climi, temperature, festività, ritmi e umori, troppo distanti tra loro, per essere così vicini e appiccicati – si rivelò senza troppa meraviglia precisamente sbagliata. No, non avrebbero sentito la mancanza delle cosiddette “mezze stagioni” ed il buon senso avrebbe presto rese vane e ridicole, quelle invocazioni di concederci di tenere strette a noi l’autunno e la primavera, affinché ci fosse più facile accettare il passaggio di testimone dall’afa e la siccità, al gelo e il buio. Perché davvero non si può passare dai tormentoni pop estivi, dai ritmi latini di cuori anelanti o spezzati, al dondolare di jingle pieni di accenti che balenano come luci natalizie nella capitale del non troppo compianto impero americano.
Sbagliavano, sai che novità, perché nessun funerale è stato celebrato per Signorina Primavera e Signora Autunno dal momento che a sparire, da quella che era considerata la zona temperata al di sotto 60° meridiano terrestre, è stato il tanto ingiustamente odiato inverno che nessuno avrebbe salvato, se non fosse stato per le ferie concesse dalle festività e dalla parziale assoluzione della nostra pigrizia letargica.
Ed eccoci qui, nelle terre in cui l’inverno è reale.
Eccoci qui a imparare (per me) e ricordare (per Fausto, Monica e Giulio che l’inverno lo hanno già vissuto) come sia facile amare per contrasto. Il tepore di un sacco a pelo, dopo aver passato una notte in una fabbrica abbandonata, senza finestre a trattenere il calore e respingere la bufera di neve. Il conforto di un abbraccio, nell’attesa di quel momento in cui, quello stesso sacco a pelo, da gelido diventa ospitale per il nostro corpo e quel calore che altrimenti andrebbe disperso. Ed è nell’ammirare e vivere l’inverno che ho scoperto cosa sia il desiderio che qui, oltre il 60° meridiano terrestre, ancora esiste nonostante l’instaurazione del regime del Buonsenso.
In queste terre in cui l’inverno è reale, e sopravvive il desiderio, ogni concerto è stato incredibile. Due generazioni di persone disposte a sfidare il freddo, il rischio di contagio batterico e la legge del buonsenso in assembramenti disordinati e incuranti dell’etichetta, avevano urlato con noi e riso e ballato, fino alle prime luci dell’alba, intanto che la bufera infuriava là dove il silenzio non portava più imbarazzo ma morte.
«Stasera faresti meglio a recuperare la quarta corda del basso. Passiamo da una città più o meno civile in cui esistono ancora negozi stabili come quelli di una volta e, magari, in qualche bottega di modernariato per collezionisti, viene fuori qualcosa di utile per il tuo basso» urla Fausto, cercando di coprire il rumore della turbina solare del camper, innervosito per il brusco risveglio causato dall’urto della lattina sulla sua fronte. Si è svegliato con la luna storta e preferisce fare lo stronzo piuttosto di chiedere scusa per aver dormito troppo ed obbligato me, non solo a guidare più del previsto, ma a farlo nel silenzio e in solitudine.
«Sarebbe magnifico» ha risposto Monica, accogliendo e perdonando quell’aggressività che Fausto vorrebbe rivolgere verso se stesso, ma che non fa, e che rovescia su di lei come le feci che si staccano dal tutù di Gallina Siouxsie, fuori dal finestrino del camper, sotto gli occhi divertiti di Giulio.
«Concima» si giustifica Monica, sebbene fuori ci sia solo asfalto, ghiaccio e fango da giorni e giorni e che le feci della gallina, in ogni caso, si sono spalmate tra il vento e la fiancata del camper.
Il viaggio prosegue, con Fausto alla guida adesso, lasciandoci alle spalle le feci di Siouxsie, l’irascibilità del nostro batterista e la città di Minsk, ma non quell’acufene al mio orecchio destro, dono di un piccolo incidente avvenuto sul palco.
Al nostro arrivo la città si è presentata ostile e polverosa. Per attraversare quella che ricordo come la rotonda più grande e trafficata mai vista in vita mia, abbiamo impiegato mezza giornata! Quando le istruzioni criptate ci hanno portato fuori dal centro, oltre la zona industriale, in mezzo alla foresta dove vivono contadini, taglialegna e tagliagole ne siamo stati sommamente contenti.
Durante il concerto, però, un giovane orso di circa un paio di tonnellate, invadente e ferale poiché digiuno – essendo un orso – della conspevolezza del proprio e dell’altrui ingombro e delle leggi non scritte del pogo, si è introdotto tra il pubblico. L’inesperto orso ha infastidito, tocchicchiato, trussato e urtato diverse ragazze accanto al palco e, all’ennesimo respingimento osato questa volta dalle scheletriche braccia di una ragazzina microscopica coi capelli nerissimi, l’orso (infiltratosi tra i punk di Minsk) ha reagito, spingendola con violenza e scaraventandola per terra. Tra lei e il pavimento si ergeva però, minaccioso, il manico della chitarra di Giulio, troppo perso nella cacofonia di un assolo improvvisato e non richiesto, per rendersene conto.
Come in una premonizione a rallentatore frutto del calcolo – dopotutto è il mio lavoro – ho visto l’occhio della ragazza infilzato da qualche chiavetta dell’accordatura del manico della chitarra e mi sono lanciata, tra lei e Giulio, accogliendola tra le mie braccia e arrestando così la rovinosa caduta e la probabile futura necessità di trovare un bulbo di vetro abbastanza simile all’occhio sano rimato.
Di risposta ho ricevuto un bacio morbido, umido e lungo, sulle labbra.
Ho abbracciato quel piccolo corpicino sudaticcio, che poteva essere scambiato tranquillamente per quello di una bambina di undici o dodici anni, il cui bacino non si è ancora schiuso per plasmare i fianchi di una donna. Era così piccola, che aveva dovuto alzarsi sulle punte dei piedi per baciarmi e aveva usato il mio corpo per aggrapparsi e mantenersi in equilibrio. Sotto le mie dita, attraverso il tessuto della maglietta intrisa di sudore, potevo contare le costole, una per una, così come i nodi sporgenti della colonna vertebrale. Ossa esposte, che spingono sulla pelle, tipiche di una fame che nessuna pasto può saziare. La voracità di chi ha ribaltato tutta la propria vita dalle fondamenta e non vuole sottostare a quelle leggi, che suonano come una lingua morta e incomprensibile, che la vogliono fragile, così fragile, da non poter sfidare la danza appassionata e frenetica delle prime file di un concerto, un autentico concerto suonato dal vivo. Leggi sbagliate che la vorrebbero privare di quel legame che si crea tra musicisti e pubblico. Un legame sincero e vero, come quel bacio.
No, nessuna voglia di épater la bourgeoisie o accendere fantasie erotiche maschili con saffiche effusioni. Nessun desiderio di manifestare la propria liberazione sessuale o ammiccamento alle battaglie civili in voga tra gli uffici di marketing e le assemblee dei collettivi, ma solo un bacio – rivoluzionario per davvero – che sovverte il concetto di intimità tra due soggetti partecipi e protagonisti e che hanno compreso la differenza tra esibirsi e darsi completamente ad un pubblico. Tra chi si mostra e chi, invece, si espone su un palco attraverso il proprio corpo, la propria voce, le parole che scrive e il rumore che le accompagna.
Una volta messa in salvo la piccola rivoluzionaria dai capelli neri, ho sentito montare una rabbia improvvisa che è partita dall’altezza dello stomaco. Faccio ancora molta, molta fatica a gestire il mio sentire e le emozioni, e ho perso il controllo. È molto più facile inibire e reprimere il proprio sentire, rispetto all’accettare e controllare la propria emotività. Ed era dall’inizio del concerto che avevo voglia di prendere a schiaffi quel grezzo energumeno che menava ginocchiate, gomitate e pugni a caso come una trottola inebetita, facendo il vuoto attorno a sé, sfidando quel nugolo di altri suoi simili con furiose flessioni e torsioni, tra un calcio e l’altro, a petto nudo sul pavimento sudicio.
«No macho bullshit» ho urlato al microfono – me lo ha insegnato Monica – prima di scagliarglielo in testa, stretto nel mio pugno. Non ce l’ho fatta. Volevo fargli del male. Avrei voluto vederlo implodere, rattrappirsi e trasformarsi in una micro-merda di gallina plasmata dalla violenza del vento contro la fiancata del camper di Monica. Volevo punirlo e fargli del male affinché smettesse di essere così maledettamente bullo ed individualista, in mezzo a quella danza violenta ma armoniosa nel suo essere un coro di membra e muscoli e pelle e sudore.
Come fa a non capire? Come fa a non vedere tutta la bellezza di questi corpi che, come elementi chimici, si attraggono e si allontanano, si fondono e tornano unici, si spingono e si abbracciano senza alcuna paura?
Dritta in piedi, su quel palco alto come le orecchie di un coniglio, l’ho sfidato puntando i miei occhi dentro il suo unico occhio che riusciva a tenere aperto dal momento in cui l’altro occhio era protetto dalle palpebre raggrinzite e impegnate a tenere fuori quel sangue che colava giù dal sopracciglio che io, io, gli ho spaccato col microfono stretto in pugno. – Monica avrebbe parlato di karma, nonostante sia stata provata l’inverosimilitudine di quel principio per cui tutto viene vendicato e nessuno resta impunito –
“Non serve parlare la stessa lingua, ora” ho pensato, intanto che Fausto, Giulio e Monica continuavano a suonare e ridere come se nulla fosse accaduto.
Eppure non riesco a togliermi dalla testa il ricordo di quel sangue, forse a causa della mia scarsa familiarità con esso.
Ad eccezione del flusso mestruale con cui conviviamo di rado, poiché il buonsenso suggerisce sì, di mestruare ma non più di una manciata di volte all’anno, onde evitare lo spreco di energia combustibile in emozioni distorte ed inganni ormonali, non è che siano poi così tante le situazioni in cui si ha a che fare col sangue oggigiorno. Non esistono film violenti. Non esistono macellerie. Rari sono gli incidenti sul lavoro, quelli stradali e persino quelli domestici. Nessuno si taglia più nell’affettare una cipolla, né si addormenta alla guida, poiché non abbiamo più la possibilità di distrarci grazie al nostro dispositivo occhio-orecchio che vigila sui nostri impulsi neuronali e rivela il calo di attenzione.
Stai ancora guardando?
Non ci sono risse nei bar e nessun uomo accoltella un altro per debiti o dipendenze. Nessun uomo ammazza i figli per punire l’ex moglie che lo ha lasciato. Abolita la rabbia, il sangue è diventato un’esclusiva della scienza.
Ma quanto può essere potente la rabbia? Può far scoppiare temporali, esplodere macchine, incendiare città, far scorrere il sangue ed io con le mia ferocia e le mie mani ho provocato una lesione ad un essere umano. Ho violato il confine di ciò che è dentro e ciò che è fuori, ho aperto un varco nell’integrità del corpo, bucato un sistema e, da quella lacerazione, è uscito il sangue che prima scorreva, invisibile, nelle vene di un individuo confezionato in un corpo che non credevo così friabile. Pura follia! Eppure nessuno mi ha fermato e nemmeno condannata per aver manifestato una così vile, pericolosa e sconveniente emozione. Mi sono ritrovata, invece, circondata da diverse donne e ragazze molto giovani, che urlavano contro quell’idiota – ormai obbligato ad una poco virile ritirata con la coda tra le gambe – quelli che dovevano essere i più spietati appellativi che la lingua slava concedeva loro.
No macho bullshit! No macho bullshit! No macho bullshit! Urlavano le mie streghe dall’accento sovietico e a loro si sono uniti anche gli uomini. E così Fausto, alla batteria, ha assecondato quel ritmo primordiale con i giusti colpi di cassa e rullante. Ci siamo guardati negli occhi e, senza parlare, abbiamo attaccato con quel pezzo, mai suonato prima, composto durante il tragitto verso Minsk.
Abbiamo scritto una nuova canzone durante il mio turno di guida, improvvisando con basso e chitarra non amplificati. Giulio ha simulato la distorsione della chitarra, soffiando tra gli incisivi socchiusi e i molari serrati. Monica accentuava la linea di basso gonfiando e sgonfiando le guance e facendo rimbalzare le labbra. Fausto teneva il ritmo picchiando con le bacchette su cruscotto, sterzo e portiera del camper, intanto che io urlavo una canzone di suoni senza senso, facendo fatica a tenere entrambe le mani sul volante di questo mezzo di trasporto che è custode di tutto ciò che ci serve in questa nostra nuova vita.
Tutto ciò che io, Monica, Giulio e Fausto abbiamo abbandonato prima di partire per il tour, sembra così lontano e distorto. Come quell’incontro-scontro in metropolitana tra me e Monica.
«Te lo ricordi Monica? Ero io quella ragazza che ti ha fatto cadere in metro» le ho confessato, girando la testa verso la zona a giorno del camper.
«Certo che me le ricordo, non dimentico mai la gentilezza e tu eri stata gentile, che è una cosa rara di questi tempi» risponde, con quel suo sorriso stralunato che non abbandona mai il suo volto, senza lasciarle in dono occhi umidi di affetto.
«Sai, io non ho mai voluto rinunciare alla gentilezza anche a costo di perdere moltissimo. Hanno ragione a dire che l’emotività porta rogne, ma è quello che sono e che sempre sarò: non riesco a immaginarmi, neanche nel più schifoso dei mondi, ad agire secondo ciò che è più conveniente, utile o gratificante, se ciò non è fedele e coerente alla persona che vedo guardandomi allo specchio» scandisce le ultime parole, sillaba dopo sillaba, puntandosi un dito sul petto e, per la prima volta, in questa tenera gattina un po’ addormentata, vedo manifestarsi la fierezza di una predatrice.
«Non tutto può essere deciso secondo un calcolo che ci garantisca un’adeguata ricompensa, un ritorno di investimento vantaggioso, anche a scapito degli altri e della nostra individualità. Anche prima di tutto questo – dice indicando la strada oltre il parabrezza – essere noi stesse era un problema, piccola, Woland o non Woland…» conclude, strizzandomi l’occhio.
«Io ho sempre amato e odiato con tutta me stessa. Senza calcoli, freni o inibizioni. Ho fatto del male e me ne è stato fatto molto di più, ma in tutta la mia vita io non ho mai mentito, tradito i miei valori o ignorato i miei sogni perché in quella determinata situazione ne avrei ottenuto qualcosa di vantaggioso in cambio. A che prezzo? L’amicizia, la devozione, l’amore e la solidarietà non sono mai relazioni in cui si vince e basta. Non c’è nessuna, nessuna, ricompensa al mondo che legittimi e giustifichi il calpestare i propri valori. Non ho un dio né un marito e tanto meno un dispositivo occhio-orecchio con un logo aziendale che riporta il mio nome e che mi dica chi sono o chi devo essere. Sono una reietta? Una fallita? Ho quarant’anni e vivevo in mezzo al nulla in compagnia degli alberi e degli animali? È vero, ne sono consapevole e fiera, ma ho deciso di essere me stessa fino in fondo e, ciò che provo, nessuna delle tue analisi potrà mai misurarlo. I tuoi ex-colleghi analisti, per esempio, avrebbero mai potuto prevedere che perdere ogni cosa in un incendio, mi avrebbe fatto trovare un’amica come te e che grazie al nostro incontro mi sarei ritrovata di nuovo in tour con la mia band?» chiede senza aspettarsi una risposta, che io non potrei comunque darle.
«Credo proprio di no, Monica – ho risposto, forse troppo seria e scura – ma se io fossi in te non mi darei tutta questa importanza, ecco. Io non sono altro che una che fa calcoli, dopotutto…»
Quel giorno piovoso di circa un anno fa, in cui avevo incontrato Monica sulle scale della metro, era stato il primo giorno di quella che non può essere definita una stagione fortunata per lei e quei randagi che ospitava nella vecchia baita di legno, dispersa nell’hinterland periferico non cementificato di Milano.
Eppure ieri notte sul palco dopo aver colpito l’orso bielorusso, ho cercato lo sguardo di Monica e ho trovato quel suo sorriso di viaggia libera dall’ingombro del passato, senza però dimenticarlo o rinnegarlo. Ho ricambiato il suo sorriso, sincera, per davvero. E, senza bisogno di parlarci, abbiamo seguito Fausto che, alla batteria, aveva dato inizio a quella canzone mai sentita da nessuno.
Picchiava come un fabbro sul rullante e prendeva a calci la cassa. Pam-pam-pam-pam! Dopo i quattro giri di Monica al basso – con sole tre corde – e Giulio alla chitarra, è arrivato il mio momento di attaccare, ma mi è risultato impossibile. Capitanate dalla piccola punk con caschetto nero, le donne del pubblico mi hanno tirato su di peso e mi sospendevano sopra le loro teste, ed io mi sono abbandonata a quella marea che, passandomi di braccia in braccia, tra una mano sul culo, una in mezzo alle gambe, nell’incavo delle ginocchia o sotto le ascelle sudate, alla base del cranio, mi aveva portato a zonzo sulle teste rasate, colorate e appuntite presenti nel capanno per boscaioli in cui si teneva quel concerto clandestino.
Paura di cadere? Mai avuta.
Eppure il mio volo d’angelo decadente, sulle mani dei punk di Minsk, è atterrato contro l’amplificatore ed il mio microfono ancora insanguinato, che non si staccava mai dalle mani come in una sorta di patto magnetico, puntava il suo diaframma verso i coni. Il feedback è stato così assordante che ne porto ancora la testimonianza in questo biiiiip persistente che mi infastidisce, persino durante i miei turni di guida. Eppure, per la prima volta nella mia vita, provo una strana forma di piacere nel nascondere la stanchezza e il dolore.
Prima di questo strano tour, non ho mai fatto qualcosa che mi arrecasse un danno o una scocciatura, per il bene comune. È il mio turno di guida? Ho una responsabilità. Gli altri possono riposarsi perché contano su di me. Si fidano e si affidano a me. E quel senso per cui, in quelle quattro ore uguali per tutti e tutte, ognuno dà un pezzo di sé per gli altri, così come sul palco. Ed è davvero come dice Monica: qualcosa che nessuna formula può misurare.
Dal momento in cui scendiamo dal camper per scaricare gli strumenti, a quando il concerto è concluso e brindiamo insieme. Persino nel momento in cui ci laviamo in fretta, affinché la poca acqua calda concessa dai boiler mezzi rotti dei luoghi in cui dormiamo, permetta a tutti il lusso di una doccia calda, non esiste più io o voi, ma siamo solo un “noi”, in cui ognuna delle nostre individualità splende e fa brillare gli altri di rimando, come raggi di luna che si frammentano tra le increspature di un mare mosso, come una maledetta palla da discoteca in un night club abbandonato e pieno di specchi rotti.
«Sei stanca?» mi ha chiesto Giulio, vedendomi sbadigliare.
«Se sei stanca posso fare io compagnia a Fausto, intanto che tu ti riposi. Il concerto di ieri è stato impegnativo e quello che è successo con quel tizio, il pugno, il sangue e tutto il resto… avrebbe turbato chiunque, persino te, DeeDee figlia del rogo» ha proseguito, sorridendo.
«Figlia del rogo?» ho chiesto.
«Oh, sì… quel fuoco che hai dentro arriva proprio da lì. Non so come sia possibile, ma dentro di te c’è tutta quella forza incendiaria che credevamo spenta per sempre.»
8. Senti il richiamo | IL GRANDE ROGO DEL ’25
Mi lasciai alle spalle il Grande Palazzo, sede della filiale italiana della Woland Corporation, che non era ancora scoccato mezzogiorno per accorgermi che diluviava. All’interno dell’edificio le finestre erano, in realtà, schermi che irradiavano la giusta intensità di raggi solari per stimolare la produzione di Vitamina D, proiettando cieli azzurri solleticati da qualche nuvoletta candida e soffice, come la schiuma che ricopriva l’aquapark dei Navigli, dividendo in due la città.
Mi fiondai giù per le scale della Metropolitana che mi avrebbe portato nel quartiere residenziale di Fausto quando, il mio dispositivo occhio-orecchio, mi trasmise il dato di aver portato a termine la sfida del digiuno intermittente e concluso il mio periodo di disintossicazione settimanale.
Confermai di non avevo assimilato calorie, né sprecato risorse alimentari nelle ultime 48 ore con un tocco sulla tempia. Con altri due tocchi ravvicinati scattai una foto, sorridendo in direzione del mio dispositivo microdermale innestato sul polso. Un altro tocco ancora e l’autoscatto venne pubblicato sul mio diario alimentare e condiviso tra la mia comunità elettronica della piattaforma dedicata ad una sana e corretta alimentazione e all’equa redistribuzione delle risorse della Terra.
Mi voltai con un dietrofront improvviso, per tornare nella mensa del giardino pensile del Grande Palazzo, ma un ostacolo bloccò il mio cammino con un urto violento. Da quell’incontro-scontro ne venne fuori un trambusto di lattine rotolanti giù per le scale della metro, piume nere ed un concertino di starnazzamenti, strilli vibranti e delle scuse emesse da una voce che ricordava il sapore dello zucchero filato un po’ sbruciacchiato.
«Oh, che sbadata. Scusami, amica. Scusami, ma non ti ho vista!» disse l’ostacolo, confondendomi con un sorriso stralunato e bellissimo, nonostante fossi io la colpevole di disattenzione e la parte attiva di quel placcaggio metropolitano. La aiutai a raccogliere quelle lattine che scoprii contenevano cibo per animali e le infilai in una borsa logora di un nero sbiadito, in cui intravidi un logo scrostato di un’azienda che non conoscevo ma che doveva, un tempo lontano, raffigurare la zampa di un cane accanto al pugno di un umano, entrambi circondati da’un aureola di lettere che non riuscivo ad interpretare.
Era una donna assurda con nastri e dadi di acciaio tra i capelli stopposi, che avevano i colori slavati di un timido arcobaleno che si riflette sulla superficie di una pozzanghera. Non aveva un buon odore, o meglio, aveva un odore che io non avevo mai attribuito ad una donna ed era simile al fango, all’erba dei prati, alla pelliccia dei gatti, alla resina degli alberi, alla ciccia dei bimbi, ai broccoli bolliti e all’ammoniaca.
«Grazie, amica mia» ripeté, prendendomi le mani tra le sue, per poi andare via con una gallina nera, stretta in una buffa pettorina piena di balze e fiocchetti, attaccata ad un guinzaglio.
«Pol-pot, pol-pot, pol-pot» chiocciava la gallina guardandomi con severa dignità, nonostante il grosso tutù di pizzi e merletti viola, che avvolgeva metà del suo corpo.
Ma più della pennuta al guinzaglio col tutù, mi colpì il fatto che per la seconda volta, nell’arco di una manciata di minuti, due persone avevano stabilito un contatto fisico non occasionale con me. Potevo ancora sentire quella sensazione improvvisa, ma ferma, della mano di Fausto sulla mia spalla che persisteva, come se avesse lasciato delle spore sulla mia pelle.
È dal 2020 che il distanziamento sociale è diventato legge, a seguito della pandemia, ed è stato adottato come buona etichetta anche dopo aver debellato il virus, per una mera questione di buonsenso. Toccarsi rappresentava comunque un rischio e allora perché baciarsi, abbracciarsi o stringersi le mani per salutarsi? Eppure pochi minuti prima Fausto mi aveva appoggiato una mano sulla spalla ed ora la donna della gallina, con quella sua stretta avvolgente e delicata e quella sensazione di contaminazione.
Mi guardai le mani, convinta che quel contagio si doveva tradurre anche in una manifestazione visibile ai miei occhi. Ma niente… le mie mani erano quelle di sempre e tenevano in mano una scatoletta di cibo in mousse per gatti anziani.
«Perché hai in mano una scatoletta di cibo per gatti senza denti?» mi chiese Fausto, non appena varcai la soglia di casa sua.
«Se hai fame possiamo ordinare qualcosa» disse piegando un sopracciglio che trascinò con sé, come il filo di un burattino, anche l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco e scanzonato.
«Il fattorino sarà felice di farsi il viaggio in una così bella giornata» disse. Stavo per obiettare indicando i miei vestiti zuppi, tralasciando il fatto che non avrei mai mangiato cibo per gatto neanche in una situazione di emergenza, ma poi capii che lo aveva fatto ancora. Quella cosa dell’ironia. Che schifo.
Gli raccontai cosa mi era successo, della donna coi capelli del colore dell’arcobaleno sbiadito, della gallina al guinzaglio e di quel logo aziendale che non avevo riconosciuto.
«Non è un logo – rispose – è un simbolo».
E non disse più nulla per qualche minuto, ma mi fece accomodare con un cenno sul grosso divano color perla e accendendo con un telecomando un camino a led, incurante del mio giacchino di jeans fradicio e delle piccole pozzanghere di pioggia e sporcizia che avevo lasciato lungo il mio cammino.
«Quello che hai visto era uno dei simboli usati dagli animalisti prima della grande riforma del Buonsenso. Ai tempi c’era chi aveva deciso di battersi in difesa di chi non poteva farlo» urlò dalla cucina.
«E perché? Quale beneficio portava, a questa gente, combattere per chi non poteva dare nulla in cambio? Mi sembra poco sensato e ancor di più rivendicare questa stupida irrazionalità indossando un marchio che lo renda manifesto» obiettai.
«Si tratta di qualcosa che tu non hai avuto tempo e modo di conoscere. Parliamo di un ideale ed è anche di questo che ti devo parlare, se vogliamo lavorare bene e presentare il rapporto più sensato di tutte le altre squadre dell’Officina di Lavoro» disse, tornando con due grosse lattine di birra in mano ed un asciugamano con cui cercai di asciugare il ricordo di quel temporale inaspettato di cui erano intrisi miei capelli.
Osservai quei buffi cilindri di alluminio attraversati da sentieri di condensa, che si trasformava in piccole gocce nello scivolare verso le mani ben curate di Fausto. Le lattine… un formato che nessun produttore di birra, in grado di pagare uno studio di commercializzazione e di analisi dei sentimenti, metterebbe mai sul mercato! Un arcaico e sgradevole metodo di assunzione degli alcolici che riportava a quella volgare mediocrità di quegli anni in cui, la birra era ancora una bevanda economica, popolare e monosapore. Non sapevo neanche come si bevesse una birra da una lattina e mi faceva anche un po’ schifo l’idea di appoggiare le labbra sull’alluminio. Chi poteva rassicurarmi sul fatto che non fossero rotolate per terra o che chi le aveva maneggiate, per l’intero arco della filiera, avesse sempre avuto le mani ben lavate? E la polvere che cade dal cielo, l’inquinamento domestico dei toner e…
«Toh, bevi – disse brusco Fausto intuendo i miei pensieri – non essere paranoica» concluse, porgendomi la lattina che aveva appena aperto. Trovai eccessivo associare una psicosi, alla mia razionalissima attitudine a destrutturare una filiera produttiva per individuare le possibili falle igieniche, ma con Fausto era così, stavo imparando a conoscerlo, iperbole e paradossi disseminati nella conversazione, come bolle di anidride carbonica che frizzavano nella schiuma della birra in una lattina troppo fredda e che tenevo in mano.
La studiai con sospetto per qualche istante. Non conoscevo l’azienda produttrice poiché non era presente sulla rete, né sugli spazi pubblicitari urbani, né tanto meno in quelli astrali o onirici con cui controlliamo i nostri sogni.
La lattina era verde scuro e conteneva circa mezzo litro di liquido, ma nessun gusto veniva indicato tra le poche scritte che comparivano su di essa (una birra al gusto birra?), ma riuscii ad individuare un simbolo di divieto attorno alla sagoma di una donna incinta. Davvero c’era bisogno di illustrare su una lattina il divieto di bere alcolici per le donne incinte? Doveva essere un’altra delle stranezze di quell’epoca in cui il buonsenso non era ancora legge.
Finkbrau: nome e confezione non promettevano nessuna ricompensa sociale e non raccontava nulla che potesse farmi capire a quale potenziale comunità di consumatori appartenessero i bevitori. Nessun manifesto. Nessuna adesione ad un modello. Nessuna dichiarazione d’intenti. Una birra e nient’altro. Eppure mi feci coraggio e appoggiai le labbra al cerchio argentato della lattina e, inclinando la testa all’indietro, lasciai scorrere nella gola un generoso sorso di liquido giallastro e amarognolo, che mi solleticò il palato. Il mio primo sorso della mia prima lattina di Finkbrau, di quelli che sarebbero stati innumerevoli sorsi di innumerevoli lattine di squisitissima birraccia, che io e Fausto avremmo bevuto insieme.
Mancavano esattamente 382 giorni al nostro arresto da parte dei Tutori della Serenità, ma quella notte non avremmo potuto neanche programmarlo nei nostri incubi più oscuri.
«Dammi il pacchetto» ordinò Fausto, alzandosi e dirigendosi verso la cucina con la sua lattina in mano, che svuotò in un ultimo lungo sorso, per poi accartocciarla tra le dita e liberarsene con un canestro nel lavandino. Tornò con altre due lattine e delle patatine nel sacchetto che cominciò a sgranocchiare, tuffandoci le dita dentro, incurante delle norme basilari di igiene ed educazione. Pensai che bere le bevande in voga negli anni Venti lo avesse reso nostalgico. Non potevo spiegarmi altrimenti quella forma puerile di ribellione alla legge sulla sicurezza batteriologica che, in effetti, era sconosciuta nell’epoca pre-pandemica in cui Fausto doveva essere stato adolescente.
Aprii lo zaino e sfilai quel pacchetto avvolto in carta color tabacco, che lui mi strappò bruscamente dalle mani per scartarlo come un selvaggio, come se ignorasse i corretti passaggi dell’arte dello spacchettamento dei prodotti, che tanti savi avevano reso dogma. La volgare, frettolosa e disordinata lacerazione dell’involucro aprì uno spiraglio su qualcosa che lo fece sorridere.
«Non ci credo! Questo mi mancava» disse euforico, fiondandosi verso un mobile di metallo color canna di fucile che custodiva un giradischi. Mi risultò bizzarro che lo nascondesse dietro a delle antine e che non ne facesse sfoggio come ci si aspetterebbe da ogni amatore della musica di statistica! Persino io ne avevo uno esposto nella mia stanza affittata, tra un vecchio mangianastri e la mia collezione di vinili mai ascoltati e sigillati ermeticamente.
Ognuno di quegli album, che avevo fotografato e condiviso a favore della mia comunità elettrica di fedeli, mi aveva garantito un avanzamento nella gerarchia di ascolto della piattaforma musicale della Woland Corporation. La mia collezione di dischi e i relativi video di spacchettamento in cui mostravo il contenuto, per poi apporre nuovamente il sigillo in ceralacca, non passò inosservata alla Woland Corporation con cui, ben presto, iniziai una relazione lavorativa come assistente di Fausto. Alcuni colleghi dissero che era stato lui a segnalarmi e a volermi con sé, ma il suo essere così rude, imprevedibile e irriverente nei miei confronti non mi fece mai sposare quella teoria, eppure quel giorno mi aveva cercato – ancora – e voluta per quel lavoro così importante!
E così mi ero ritrovata da sola a casa sua, nella sua camera da letto, davanti a ciò che poteva essere considerato disdicevole agli occhi di chiunque, ma che aveva deciso di mostrarmi.
Fausto, aprendo le antine di quel mobile color canna di fucile, mise in luce un caos di copertine scolorite e logore, musicassette dalla confezione di plastica ingiallita e addirittura dei dischi compatti d’argento ammassati uno sopra l’altro. Quell’uomo nascondeva diverse stranezze e atteggiamenti fuori statistica, non c’era più alcun dubbio in merito – come bere la birra e ascoltare per davvero la musica su supporti fisici – e così fece, cercando i miei occhi e con un sorriso che non era però una smorfia, appoggiò quel piccolo disco in vinile grande come un piatto da dessert, sul giradischi.
Dalle casse dello stereo partì un sibilo di una chitarra distorta in lontananza ed il riff di una motosega sempre più vicino e minaccioso, l’eco di un urlo soffocato e poi il frangersi di onde contro la roccia e l’acciaio, per tre volte, e poi il ringhio di una voce maschile sull’orlo del precipizio ed io che mi sentì con le spalle al muro. Quello… quell’istante e quella voce. Quello fu il momento in cui capii di essere spacciata.
Seguirono diversi minuti di silenzio e stordimento. Mi attaccai alla lattina di birra che mi dissetò come nessuna bevanda aveva mai fatto prima.
«Di nuovo» chiesi, e Fausto spostò il braccino del giradischi per riporre la puntina sui solchi più estremi del vinile. Quando finimmo di ascoltare l’EP ero ormai sbronza e così Fausto. Il sole stava tramontando e noi non avevamo lavorato a neanche una diapositiva da presentare il giorno successivo. Ci eravamo a malapena parlati. Non avevamo fatto altro che bere birre e ascoltare a ripetizione ogni singola traccia del disco, con gli occhi fissi sull’astuccio di cartone logoro che lo custodiva.
Dal nero dello sfondo si stagliava una luce che, come raggi di luna, esplodevano da una crepa della notte. Una luna maledetta che ha il volto della morte e gli artigli di un rapace, pronto a dilaniare un cuore. Il mio cuore, ormai lo sapevo. Studiai per momenti interminabili anche il retro dell’album in cui la morte, dai lunghi capelli spettrali, stende un sudario su cui vengono svelati i titoli delle sei tracce che stavamo ascoltando da ore e ore. E quelle foto così fuori dal tempo e dalle statistiche e i loro nomi: Giammario, Fabio, Zambo e Daniele. Chi erano questi uomini? Avrei voluto chiederlo a Fausto che sembrava conoscere tutte quelle parole urlate impunemente e che sembrava sul punto di piangere. Per la prima volta lo vidi così fragile, autentico e fiero.
Conoscevo la fragilità di chi, per il troppo lavoro o perché ebbro, fa emergere le proprie emozioni, così come conoscevo la fierezza di chi non permette al proprio sentire di indebolirlo. Ma non avevo mai visto queste due dimensioni dell’aspetto più animale, dell’essere umano, convivere.
Io, che mi truccavo per nascondere i segni della stanchezza, cintura nera di autodifesa emozionale, fedele al buon senso e all’analisi dei bisogni indotti, perché non esistono bisogni all’infuori di quelli che non sappiamo di avere, ma che sappiamo di poter soddisfare; tra i corridoi e gli uffici della Woland Corporation, tra le vie delle città costruite a misura d’azienda, nei negozi temporanei in cui vendono kit identitari dalle mille opzioni, nessuno mi vieta di essere stanca o fragile, ma è considerato inopportuno e teneramente sconsigliato. Così come la gioia violenta e la devastante tristezza sono state sconfitte, poiché facce differenti della stessa moneta, che ora tintinna nel fondo del barattolo delle mance di chi ci offre soluzioni usa&getta.
Fausto mi guardò, come rapito da una forma di eros e mi confessò:
«Io ne ho molti altri! Ho rubato un’intera scatola oggi, se vuoi li ascoltiamo insieme» mi tentò ed io gliene fui grata. Ubriaca. Elettrificata.
Giunse l’alba e noi non avevamo lavorato un solo istante. Avevamo finito anche per fare sesso, dimenticandoci di registrarlo sulla piattaforma di incontri sessuali e, vedendolo nudo, scoprii trai suoi bei tatuaggi visibili in maniche di camicia, altri segni indelebili di inchiostro che non avrei potuto vedere se non andandoci a letto insieme. Sulla sua spalla una A cerchiata sembrava incisa sull’osso parietale di un teschio con la cresta. Sul suo petto un pugnale fendeva la carne all’altezza del cuore.
Sul manico della lama c’era scritto “Guenda, 6 aprile 1998 – 31 dicembre 2023”
7.Report#3 | IL GRANDE ROGO DEL ’25
14 Giugno 2040, in strada verso il Bauwagenplatz di Strasburgo.
Mi sono svegliata, con la testa di Fausto appoggiata tra la mia spalla destra e la tetta. Quest’uomo che ha l’età per essermi genitore, dorme avvinghiato a me, senza smettere mai di stringermi in un forte abbraccio disperato. Come sull’orlo di un precipizio. Le mie gambe oltrepassano in diagonale il suo corpo rannicchiato contro il mio.
Qui, nei boschi sul fianco dei monti, le notti estive sono gelide e abbiamo avuto freddo. Abbiamo studiato ogni incastro di braccia, torso, gambe e guance per dormire, facendo aderire la maggiore superficie possibile dei nostri due corpi. Cambiando e stravolgendo ogni possibile innesto, ogni qual volta il sangue che faticava a scorrere nelle nostre vene, lo esigeva trasformando il suo bisogno in un nostro fastidio.
Fausto si è svegliato pochi istanti dopo, con un sorriso, bestemmiando.
«Mi fa male ogni cosa, ogni singolo muscolo del mio corpo» ha grugnito, stiracchiandosi nel poco spazio concesso dalla piccola mansarda, posizionata sopra la cabina di guida del camper in movimento.
Fausto mi ha baciato sulla fronte e dopo essersi messo le mani a conchetta davanti alla bocca, espirato e inspirato ciò che avevano trattenuto, ha fatto una brutta smorfia che si è trasformata in un sorriso da bambino.
«Merda… mi sembra di aver mangiato un ratto» ha borbottato.
«Non mi sembra ci fosse stata carne di ratto nei panini di ieri» ho obiettato.
Fausto ha schiuso le labbra per dire qualcosa, ma le parole gli si sono congelate prima di abbandonare quella lingua ispessita dal sonno e dai postumi. Ci ha riprovato, con maggiore determinazione, ma niente… Mi ha stretto in un abbraccio, mi ha baciato di nuovo la fronte – DeeDee, DeeDee… povera piccola – ha detto, scavalcandomi e saltando giù dalla mansarda, per atterrare nel corridoio del camper con un “oplà”.
«Non ci avete svegliati» ha protestato, borbottando, rivolgendosi a Giulio, al volante, e a Monica con una vetusta cartina stradale cartacea spiegata sul cruscotto davanti al sedile del passeggero.
«Eravate maledettamente carini» si è giustificata la seconda, girando il busto all’indietro e allungando un braccio, in cerca di un bacio da parte di Fausto, che l’ha accontentata, abbracciandola di sbieco.
«Buongiorno anche a te» lo ha salutato Giulio, che si è girato al tocco della mano di fausto sulla sua spalla, lasciando la presa del volante per rispondere con un pat pat sul dorso della mano di fausto.
«Buongiorno a te» ha risposto, accennando un inchino grottesco. Dopo alcuni istanti di silenzio, gli occhi di Fausto hanno incrociato quelli di Monica, Monica ha scambiato uno sguardo con Giulio, i due uomini si sono guardati ancora e sono scoppiati, tutti e tre, a ridere.
«Cosa cazzo è successo ieri sera?» ha chiesto Giulio, squassato dalle risate e con le lacrime agli occhi che faticava a domare lo sterzo del camper in corsa.
«Io non me lo so spiegare» ha risposto Monica, in affanno, per ritrovare tutta quell’aria che il ridere aveva sottratto dai suoi polmoni.
«Io… io, boh… non ho parole» replicò Fausto.
I tre infine si sono girati verso di me che nel frattempo ho raggiunto, abbandonando quel nido caldo e dall’aria viziata, in cui ho lottato contro il freddo e la scomodità con la complicità di Fausto.
Muti, mi hanno osservato, sorridendo. Nei loro occhi c’era qualcosa che io non conoscevo. Ed è stata Monica a infrangere il silenzio.
«Chiunque tu sia, dea furiosa che ti sei impadronita di questo corpo, non fare del male alla brava ragazza che ti ospita» ha detto, sollevando le mani e giungendole in preghiera davanti alla fronte, china verso di me.
Mi sono voltata, pensando si stesse rivolgendo a qualcuno alle mie spalle, ma no, non c’era nessuno a parte Siouxsie la Gallina che, appollaiata nel lavandino del bagno, cercava di fare un uovo tra starnazzi e improperi strazianti.
«Monica sono io, Dorotea, ed è da decenni che è stata provata l’inesistenza di divinità ultraterrene od eventuali possessioni ad essi riconducibili» ho fatto notare, sorpresa del fatto che Monica, per quanto possa essere considerata oggettivamente “originale” e fuori statistica, non mi sembra quel tipo di donna che possa credere nell’esistenza di dio. Davvero esiste ancora qualcuno che sente il bisogno di avere un’anima da salvare, nutrire e proteggere da un male che trascende il nostro controllo?
Fausto ha sbuffato, o forse era un sospiro, Monica ha alzato gli occhi al cielo e Giulio ha scosso la testa in segno di sconforto e diniego.
«Monica, perdonala, è una causa persa, ma ci sto lavorando – ha detto Fausto, passandomi un braccio attorno al collo – questa ragazza non sa cosa sia l’ironia e di tutte le lordure e le porcate fatte nel nome del Buonsenso, questa, è la più subdola delle ingiustizie» ha sentenziato, diventando cupo.
«Non saprà cosa sia l’ironia ma, capperi, sa come stare su un palco!» ha detto Monica.
«Perché state parlando di me come se non fossi presente? Anche questa è una forma di ironia?» ho chiesto ma poi, all’improvviso, ho ricordato e tutto mi è stato chiaro.
I lividi sugli stinchi, i capelli appiccicosi di birra, i graffi sulle braccia. Il taglio sul labbro superiore, la cui tenera carne ha eroicamente protetto, sacrificandosi, i miei incisivi dall’urto con il microfono stretto in un pugno che mi si è rivoltato contro. È stata una lucida follia. Una psicosi collettiva ed una suggestione corale. Da quando Fausto ha battuto quattro con le bacchette a quando Giulio ha lasciato vibrare le corde dell’ultimo accordo…
Qualcosa deve avermi posseduto per davvero.
Sono già stata ad un concerto, è ovvio… ho sempre amato la musica, ma l’intrattenimento e lo spettacolo nelle grandi arene, costruite e gestite dalla Woland Corporation, non ha nulla a che fare con quello che ho vissuto questa notte.
I concerti del 2040 avvengono in piccole città-fortezza, che ricordano l’urbanistica di certi borghi medievali e quel complesso sistema di mura e portali di accesso tra un settore e l’altro. Una volta varcato il grande portone centrale, il percorso recintato si apre su una grande area in cui è possibile convertire i propri crediti, in gettoni utili solo dentro quelle mura. Fuori da lì, quei gettoni, non hanno alcun valore mentre all’interno sono essenziali per acquistare i beni esposti – i cui i prezzi sono espressi in cifre esadecimali – nei diversi presidi delle aziende sostenitrici dell’artista.
I gettoni servono anche per poter scattare foto e condividerle sui propri diari digitali, mangiare, bere o usufruire delle toilettes.
Oltre la piazza centrale, superate le seconda mura, ecco che si arriva nel cuore dell’arena dove si svolgerà il concerto che è così organizzato: al centro di una dozzina di cerchi concentrici, si erge il palco diviso in un numero variabile di spicchi. I settori vengono popolati in base ai dati di ascolto della piattaforma di musica digitale Woland. Maggiore è il tuo punteggio all’interno della piattaforma (numero di fedeli della comunità elettronica, frequenza delle interazioni, acquisto di accessori e dispositivi a tema o pacchetti extra, fedeltà alla linea e allo stile dettati dal genere musicale, per esempio) maggiore è la possibilità che la scaletta dell’esibizione sia fedele alle tue abitudini di ascolto e, il posto che ti spetta di conseguenza, è all’interno dei settori più prossimi al palco con accesso esclusivo e quindi minore possibilità di entrare in contatto con altri utenti di classi inferiori. Chi può sedere in prima fila, insomma, ha la certezza di assistere ad uno spettacolo che soddisfa appieno le proprie aspettative. Mano a mano che si arretra, invece, i settori sono sempre più popolosi e raggruppano persone che non hanno espresso le stesse preferenze in quanto alle canzoni che avrebbero voluto sentire e in quale ordine.
E così la musica, distribuita per settori attraverso diversi canali radio e impulsi nervosi captabili dai dispositivi occhio-orecchio, raggiunge ogni singolo abbonato che ha pagato il biglietto per varcare la soglia di una delle grandi arene della musica dal vivo della Woland Corporation.
Ballerini e attori, distribuiti strategicamente attorno al totem a led che si erge al centro del palco, accentuano i 100 BPM standard (che le analisi sostengono sia il tempo ideale – e quindi l’unico possibile – per le esibizioni dal vivo) con coreografie frenetiche, cambi d’abito e spettacoli pirotecnici.
Ai musicisti sotto contratto della Woland spetta solo il compito di registrare la musica, che viene generata dagli algoritmi determinativi, per poi perdere qualsiasi diritto di reinterpretazione anche in occasione di feste private, esibizioni amatoriali o diletto personale.
Un musicista può suonare la musica che ha inciso, per cui è stato retribuito e per cui è conosciuto dalla sua comunità elettronica, solo a patto che non commetta errori. Una cattiva interpretazione rappresenta un vero e proprio atto di vilipendio nei confronti della Woland Corporation, poiché costituisce un danno alla sua immagine.
Ed è stato così che abbiamo messo fine alle proteste dei musicisti: ad ogni artista che commette un errore durante un’esibizione dal vivo o ha atteggiamenti, frequentazioni od opinioni che si discostano dal dogma e dal canone Woland, vengono decurtati alcuni crediti (anche noti come “Punti Autorevolezza”) ed è obbligato al pagamento di severe sanzioni.
Ogni passo falso costa crediti, credibilità e l’abbandono dei propri fedeli, poiché i Punti Autorevolezza fanno la differenza tra un artista credibile e capace di influenzare i consumi e le opinioni, da un artista che non promette alcun tipo di ricompensa sociale o passepartout per le élite della propria comunità elettronica.
Ci sono artisti che è bene ascoltare, leggere, indossare, esibire e seguire ed altri che piacciono solo ai perdenti. E nessuno vuole essere un perdente. Non lo volevamo prima del Grande Rogo Civile del ‘25 e non lo vogliamo adesso, in questi anni in cui il fallimento personale è calcolabile e misurabile con criteri scientifici. Desideriamo tutti piacere agli altri e ora abbiamo la possibilità di conoscere e dimostrare il nostro valore attraverso una valutazione imparziale, oggettiva e libera dagli inganni della percezione che abbiamo di noi stessi.
Quando la Woland Corporation ha proposto di fare a meno dei musicisti durante i concerti, e di preferire delle registrazioni coreografate, nessun artista aveva ormai più voglia di protestare.
6. La vita che loro ci devono | IL GRANDE ROGO DEL ’25
Il relatore sul palco dell’auditorium era molto noto tra i corridoi della Woland Corporation poiché aveva isolato il grappolo di utenti che, seppur ascoltassero molta musica, rifiutavano di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma digitale Woland. Lo sciame identificato era restio ad abbandonare un preistorico portale, in cui chiunque poteva caricare registrazioni audio e video amatoriali low-fi. Video storti di canzoni mal arrangiate che facevano gracchiare il dispositivo di ricezione audio, interpretate da gente fuori statistica che si dimenava su palchetti improvvisati, in mezzo allo sporco, al sudore e ad un’euforia che non poteva essere misurata. Si faceva persino fatica a distinguere gli strumenti, così come era pressoché impossibile distinguere il pubblico dal gruppo che cercava di suonare, respingendo e accogliendo come in una danza, quel ribollire di lava umana e lapilli incandescenti di spruzzi di birra lanciata per aria.
Ci si chiedeva cosa spingesse queste persone a un tale comportamento irrazionale. E lui aveva scorporato, destrutturato e ricostruito pezzo per pezzo ogni passaggio che portava al cosiddetto “abbandono del carrello”, ma nessuno dei dogmi dell’ingegneria inversa riuscì a spiegarlo.
«L’esperienza dell’utente che atterra sulla piattaforma è piacevole e senza ostacoli, i punti di contatto col potenziale utente hanno le giuste parole chiave ed sono ben piazzati, l’imbuto commerciale lubrificato a dovere eppure… eppure non siamo riusciti a sfondare le resistenze di questo blocco di utenti, identificati come ascoltatori di musica. Milioni di canzoni su richiesta, elenchi di riproduzione mutanti a seconda dello storico di navigazione e dell’umore dell’utente, artisti con trilioni di visualizzazioni la cui musica rispetta tutti i parametri richiesti dagli analisti e una qualità del suono cristallina, ma no… nessun abbonamento e accordo siglato che ci permetta di accedere ai loro impulsi neuronali, in cambio della garanzia di non dover scegliere cosa ascoltare e non doversi interrogare sui propri gusti musicali. Perché la piattaforma di musica digitale della Woland Corporation sceglie per te. E anticipa ogni tuo desiderio, interruzioni pubblicitarie comprese. Ma allora perché? Perché un grappolo di individui continua ad ascoltare quel rumore e guardare quei video bui e malfermi? Perché, alla perfezione calcolata della piattaforma, perseverano a farsi carico di dover scegliere e, infine, scelgono questa merda?» disse il relatore. Concludendo, ad arte, il suo intervento con una parolaccia, perché così gli aveva suggerito l’algoritmo per rendersi più informale, affabile e performante.
Il nostro compito era capire ciò che nemmeno l’algoritmo aveva compreso, elaborare una tesi, impacchettarla a dovere e presentarla il giorno successivo. Il relatore ripose sul tavolo che lo divideva dal resto dell’auditorium, alcuni pacchetti avvolti in carta color tabacco.
«Quasi tutta la musica che il nostro target preferisce alla piattaforma Woland è stata prodotta nei quarant’anni che vanno dagli anni Ottanta del XX secolo e gli anni Venti del XXI. Anno in cui, a causa di una pandemia mondiale e del Grande Rogo Civile, sono stati interrotti e interdetti quegli spettacoli in cui la musica veniva suonata, in diretta, dagli stessi musicisti e in presenza di un pubblico reale. Il materiale che troverete ci è stato prestato dai Tutori della Serenità – che ai tempi si chiamava Esercito – ed è frutto dei sequestri e delle perquisizioni avvenute tra il 2020 e il 2025, quando ancora, gruppi clandestini si trovavano qua e là ad organizzare concerti illegali. Potete scegliere se procedere da soli o in squadra. Buon lavoro! La felicità se non è misurabile, non è» concluse il relatore, con il consueto segno di congedo.
Mi guardai attorno. Non conoscevo nessuno, o meglio, li conoscevo ma non avevo mai parlato davvero con nessuno dei presenti. Erano appartenuti tutti, fino a pochi giorni prima, ad una classe lavorativa superiore alla mia. Sentii una mano sulla mia spalla – chi poteva essere così stupido da stabilire un contatto fisico non consensuale sul luogo di lavoro? – mi girai di scatto e rimasi interdetta nel riconoscere Fausto, il mio superiore in grado.
«Per questo lavoro faremo squadra insieme» mi disse con una voce che non era la sua.
Qualcosa non tornava. Fausto, il signor cronometro digitale a cui bisogna inserire nell’agenda elettronica anche l’invito a bere un caffè alle macchinette, mi stava chiedendo di fare squadra con lui e lo stava facendo in modo assai bislacco.
I suoi occhi erano fissi dentro i miei, l’espressione era quella di chi cerca di mettere a fuoco qualcosa che gli risulta familiare, la voce era di qualche tono più alta del solito, quasi strozzata, come se fosse in affanno nell’emettere quei suoni. Pronunciare quelle parole gli costava tutta la fatica che grava, di solito, sulla gola di chi sa che potrebbe ricevere un rifiuto. Sebbene l’intonazione non fosse quella di una domanda, perché a me pareva tale? Il mio capo mi stava forse chiedendo di poter lavorare insieme? E prendeva in considerazione il fatto che io avessi il diritto di non obbedire? Bizzarro! Un comportamento piuttosto atipico per quell’uomo preciso e fedele alla gerarchia, che non mi aveva mai sfiorato neanche con lo sguardo. E quella mano sulla spalla, poi!
«Certo – risposi – coinvolgiamo anche qualcuno del reparto Ingegneria Inversa?» chiesi.
«No, solo io e te» rispose, dopo quell’attimo di esitazione, come lo stronzo che conoscevo bene.
«Hai fatto un lavoro apprezzabile con quel tuo studio sul ritorno delle passioni, per quanto le argomentazioni risultino a tratti elementari e didascaliche. Ma per questo lavoro dobbiamo partire da alcune delle tue intuizioni che, devo ammettere, sono state davvero brillanti. Piccole scintille che non voglio vedere spente da quelle teste analitiche del reparto di Ingegneria Inversa. A furia di destrutturare ogni cosa, hanno perso persino la capacità di farsi un panino» gorgogliò in un unico borbottio senza prendere fiato, concludendo con una volgare risata.
«In verità credo di averli visti qualche volta mangiare dei sandwich in pausa pranzo» obiettai, ma lui non mi stava più ascoltando.
«Proseguiremo il lavoro a casa mia. Sai dove abito? – mi chiese senza attendere la risposta – Recupera l’indirizzo e cerca di essere lì tra massimo un’ora» concluse. Si girò sulle suole di quelle scarpe che valevano tanti crediti quanto due dei miei stipendi, e prese la via da cui era arrivato e che io ignoravo. Non avevo la più pallida idea di dove potesse abitare quell’uomo? Aveva una vita fuori dalle mura del Grande Palazzo?
Recuperai il plico di materiale confiscato assegnatomi e mi avviai verso l’Ufficio Accoglienza, dove avrei potuto chiedere l’indirizzo di casa di Fausto.
Il viaggio verso il piano terra del Grande Palazzo non fu vano: il mio nuovo grado all’interno della gerarchia della Woland mi permetteva di ottenere alcune informazioni personali sugli altri dipendenti. L’accesso ai dati sensibili di chi ci circonda è un privilegio accordato a chi, come me, aveva un titolo lavorativo composto da almeno quattro parole sintetizzate in un acronimo. Io ero passata da essere un A.C. (Analista Calcolatrice, due sole parole) ad essere una Fedele Osservatrice e Analista Demoscopica – ben quattro parole – riassunte altrimenti (e per comodità) nel termine F.O.A.D.
Soltanto gli A.A. (Addetti Accoglienza), nonostante le sole due lettere del titolo lavorativo, avevano accesso ai dati sensibili di chi, invece, aveva quattro o più parole a descrivere la propria mansione e posizione gerarchica all’interno della Woland Corporation. Tra le loro mansioni, dopotutto, vi era anche quella di chiamare taxi e concordare il costo in crediti per la tratta verso casa o prendere le telefonate di mogli e mariti, ritirare la corrispondenza e la domiciliazione dei beni di prima necessità, ricordare gli appuntamenti con medici e partner sessuali ecc. ecc.
Un dirigente della Woland Corporation aveva proposto di sostituire gli A.A. con degli automi per digitalizzare la loro funzione, ma presto scoprimmo che questa tecnologia aveva un grande difetto: gli automi non sono in grado di mentire e, un buon ed efficiente A.A., deve padroneggiare l’arte della menzogna ogni qual volta un dipendente della Woland viene esonerato dall’attività lavorativa, cancellato dagli archivi anagrafici e amministrativi, eliminato da tutte le foto che lo collegano all’azienda (o ai suoi dipendenti) e a cui viene inibita la facoltà di mettersi in contatto con gli ex-colleghi rimasti fedeli alla Woland Corporation.
Non siamo ancora riusciti a trasmettere, alle intelligenze artificiali, la capacità di annichilire psicologicamente un individuo. O meglio, l’effetto di annichilimento si è rivelato molto più significativo e impattante quando sono delle persone reali, in questo caso gli A.A., che fino al giorno prima si occupavano silenziosamente, con dedizione e premura alle esigenze altrui, a disconoscere, ignorare e umiliare dipingendo con della vernice spray nera i colori gerarchici della divisa di chi è stato licenziato o, peggio ancora, ha deciso deliberatamente di abbandonare l’azienda.
Nel 2040 nessuno si veste di nero, perché il nero è il colore degli inadatti e di chi non ha un posto all’interno di una gerarchia aziendale. Il nero è il colore di un monitor spento.
La decisione di affidarsi ancora all’emotività delle persone, in questo caso la spettrale indifferenza degli A.A. e la condanna all’umiliazione e al confino degli annichiliti che non si sono adeguati o hanno tradito la fiducia aziendale, è forse uno degli ultimi lasciti dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della Dittatura delle passioni. Istanza accettata, perfezionata e canonizzata in quanto si è rivelata essere la via più efficace per il benessere, la motivazione e l’appagamento di chi rimane e non sfida la gerarchia. Agli A.A., l’ultima ruota del grande carro a cui faceva capo Michail “Huxley” Woland, veniva insomma delegata quella brutta rogna, quel lavoro sporco, del disprezzo.
I veri leader non hanno bisogno di disprezzare chi non si è mostrato all’altezza delle loro aspettative, perché lasciano che siano le fauci dei propri cani a ringhiare e deridere chi non accetta, sfida o abbandona il sistema.
Era capitato anche a me.
Avevo dovuto annichilire un partner con cui stavo valutando l’ipotesi di stipulare un contratto matrimoniale. La nostra proiezione statistica di compatibilità era discreta, ma ambivo ad elevare la mia classe sociale, in cambio di sesso, compagnia e tenerezza, buttandomi definitivamente alle spalle anche l’ultimo lascito della mia condizione di nascita ed ennesimo fardello ereditato dalla mia coppia genitrice,. Dopotutto le uniche due motivazioni per giustificare la monogamia, secondo Woland, erano appunto un’assoluta compatibilità circa i gusti e i disgusti alimentari, sessuali e ludici oppure un contratto bilaterale economico tra membri di diverse classi sociali.
Una volta annichilito il mio partner, colpevole di aver rifiutato una promozione che avrebbe esautorato il suo superiore non più gradito alla Woland, mi ritrovai punto e da capo a cercare possibili candidati per una notte di sesso o per la vita, sulla piattaforma di incontri gestita direttamente dalla Woland Corporation.
Ricordo che una volta l’algoritmo mi propose persino Fausto ma, ai tempi, non l’avevo reputata una scelta dettata dal buonsenso e in ogni caso, nonostante fossi a conoscenza del suo successo sulle piattaforme di incontri sessuali, io non mi sentivo attratta da quell’uomo. L’attrazione sessuale, in quanto istinto condiviso in tutto il regno animale e spiegabile attraverso l’etologia e la chimica, rappresenta a tutti gli effetti una variabile nel calcolo per la determinazione della compatibilità tra due individui ed il mio istinto trovava Fausto repellente. Quella tonda gonfia faccia gioconda amplificata da un sorriso che di raro mancava sulla sua bocca. Un sorriso così osceno, da avergli deformato persino quel mento collassato in una profonda fossetta centrale. Alcune rughe marcavano i suoi occhi fino ad incontrare due grosse basette pelose, ormai più grigie che nere, che gli incorniciavano il viso. Il suo non era un volto, ma un manifesto alla derisione e all’irriverenza. E poi faceva sempre quella cosa strana… di dire il contrario di ciò che pensava. Ogni tanto diceva che si moriva di caldo, ma eravamo nel pieno dell’inverno o dava del genio ad un collega che aveva espresso un concetto particolarmente banale. Diceva che era “ironia” e quanto lo trovava divertente! Rumorose risate! E ridere, diamine, mi risultava così volgare. Nel resto del tempo? Fausto riusciva a essere finto persino in una società in cui non era più necessario fingere di essere felici.
4. D.D. è una punk rocker, ora | IL GRANDE ROGO DEL ’25
But she couldn’t stay,
She had to break away.
Sheena is a punk rocker, RAMONES
Era primavera ed io fui convocata alla mia prima Officina di Lavoro riservata ai dirigenti. Ero stata trasferita dal secondo al terzo piano del Grande Palazzo, grazie all’individuazione dello schema alla base di questo redivivo bisogno di passione, che mi aveva fatto ottenere una promozione. Venni accolta nell’auditorium, secondo il regolamento aziendale, con un video messaggio – sempre lo stesso – di Michail “Huxley” Woland in persona che recitava il nostro credo.
Non esistono macchine senza acciaio o drammi senza instabilità sociale. Ho scelto la serenità di ottenere ciò che voglio e non desiderare ciò che non posso ottenere. Io sto bene. Sono al sicuro.
Ignoro la malattia e non temo la morte, perché diserto la vecchiaia di quel padre e quella madre che ingombrano la mia mente. Non ho figli da proteggere, amanti da sedurre o amori da conquistare, perché ho rinunciato alla violenza delle emozioni e alla fragilità della carne.
Scelgo la felicità misurabile ed effettiva a discapito della lotta contro la sfortuna, le tentazioni, i dubbi e le passioni.
Non ho bisogno di eroismo o di salvezza, perché non esistono vittime e martiri in assenza di carnefici e non esistono carnefici se non ci è concessa la vulnerabilità.
Non cerco l’avventura perché non accolgo l’imprevedibile.
Ho scelto l’armonia degli ingranaggi, la poesia della programmazione e la grazia dell’infallibilità del calcolo.
Ho scelto di non scegliere e vivere nella beatitudine che non è mai maestosa o spettacolare. La felicità non è mai grandiosa.
«La felicità se non è misurabile, non è! La felicità se non è misurabile, non è!» cantilenarono tutti in coro e io li seguii, sfiorando con la punta delle dita il mio nuovo dispositivo occhio-orecchio di nano-chips, acciaio chirurgico, silicone e rame e stirando qualche piega della mia nuova divisa color smeraldo, riservata ai collaboratori del terzo piano del Grande Palazzo.
Di fronte alla mia seduta era stata lasciata una copia serigrafata di “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley, riscritta da Michail Woland, nella sua edizione speciale per l’anniversario della fondazione della Woland Corporation. Un dono per il mio passaggio di livello alla classe superiore all’interno dell’organizzazione aziendale.
La sfogliai ripercorrendo quella storia che già conoscevo.
Il lento e inarrestabile processo di disumanizzazione, di rinuncia all’empatia e di accettazione della logica e del buonsenso, come unica forma di sopravvivenza e pace sociale, trovò il suo dogma tra le pagine del romanzo di Huxley, i cui diritti vennero acquisiti dalla più grande azienda della Federazione Post-Europea, la Woland Corporation, appunto.
Con le economie dell’antica Russia e l’antica Cina riunite, grazie alla fusione delle più importanti aziende nazionali (nanotecnologia cinese e fabbrica del consenso sovietica), Michail Woland – l’amministratore delegato dell’omonima corporazione – è l’uomo più potente del Nord del Mondo, in grado di controllare l’industria tecnologica, farmaceutica e logistica, il mercato dell’intrattenimento, dello spettacolo e della cultura. Qual è l’origine della sua fortuna? Essere riuscito a conquistare il monopolio dei dati e della loro elaborazione.
Fu la direttrice della Divisione di Commercializzazione che, dopo aver sorpreso una sua sottoposta leggere quel libro in pausa pranzo – violando il regolamento interno che vietava i passatempi solitari e sfidando l’etichetta sociale che sconsigliava la lettura di romanzi – incuriosita dal volume sequestrato, lo sfogliò e ne scoprì il potenziale.
Organizzò un gruppo di lavoro a cui commissionò una scheda ed un’analisi approfondita del testo, che passò alla Divisione di Gestione delle Crisi la quale, a sua volta, ne fece derivare alcuni algoritmi applicabili ai fenomeni sociali contemporanei. Ne emerse che la fantascienza distopica negli Anni Settanta era in realtà un ottimo modello sociale replicabile ed esportabile, sia nel Nord ché nel Sud del Mondo. Vi era persino un caso storico, riportato nella diapositiva n°1984, in cui si faceva riferimento ad un altro romanzo di fantascienza elevato a testo sacro da una setta chiamata Scientology.
E così Michail Woland divenne Michail “Huxley” Woland, di sua spontanea iniziativa ed intuizione, galvanizzato dall’idea di vedere il proprio nome stampato sulla nuova Bibbia, il nuovo Corano o il Mussar della modernità. La direttrice della Divisione di Commercializzazione la reputò una scelta molto saggia e, nell’arco di un semestre, una nuova versione di “Il Nuovo Mondo” era sul comodino, nelle biblioteche aziendali e nelle sale d’attesa di buona parte del Nord del mondo.
«La felicità se non è misurabile, non è» si dicevano l’un l’altro, scambiandosi il formale segno di pace previsto alla conclusione del credo. Il segno non prevedeva alcun contatto fisico ma i due interlocutori, voltandosi faccia a faccia, chiudevano pollice e indice della mano sinistra incorniciando l’occhio con uno zero, mentre alzavano l’indice della mano destra verso il cielo ad imitare il numero 1. Zero e uno, zero e uno, dopo zero e uno, venne il mio turno e così risposi al segno di pace all’uomo che stava alla mia sinistra, e lo replicai voltandomi verso la donna che stava alla mia destra, ripetendo: «La felicità se non è misurabile, non è» unendomi a quel brusìo che riempiva l’aria aromatizzata alla menta piperita dell’auditorium. Ma, nel pronunciare quelle parole che tante volte avevo ripetuto nell’arco della mia vita, suonarono diverse. Suonarono come sbagliate e producevano un suono sgradevole. E allora le sillabai di nuovo nella mia mente, ancora e ancora. Ed era come masticare stoffa al posto della succosa pesca che credevo di aver addentato.
Ma perché? Il punto è che non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto – concreto e tangibile – che i dati da me raccolti ed elaborati raccontavano qualcosa di diverso circa l’idea di felicità. Ma come potevo mettere in discussione l’intero apparato su cui si reggeva la nostra società e il nostro benessere? Chi ero io per oppormi o criticare ciò che andava bene agli altri. Gli altri…
Mi guardai attorno e la sensazione fu quella di non essere più parte, di non appartenere, a ciò che mi circondava. E no, non era colpa di essere stata promossa da poco ed essere magari l’ultima arrivata. Questa mia condizione, semmai, mi aveva portato soltanto a non dare per scontata ogni cosa. Ad osservare le circostanze con un occhio nuovo e non assuefatto alla norma, come quando si legge la prima pagina di un trattato di una scienza ignota e ogni cosa è aliena e la mente è carica di elettrostaticità, eccitata e pronta a balenare di scosse e scintille al minimo contatto o attrito.
Ero sconnessa, scollegata, dalle persone che mi circondavano ma, soprattutto, in quel momento mi resi conto di non credere alle parole dell’uomo più potente del mondo. Questa nuova consapevolezza si convertì in un brivido lungo tutto il corpo, per poi passare e lasciarmi spaesata, con un sorriso sulle labbra, potente e confusa, ma presente per davvero, in quel qui e ora in opposizione all’esistente, che aveva un nome ed era il mio.
Mi chiamo Dorotea Disastro e prima di allora non sapevo cosa fosse il punk.