«Conosci i tuoi nemici» pensa l’agente nascosto nell’ombra, studiando i membri della band che è appena scesa dal palco, intanto che ripongono gli strumenti nei foderi, scambiano battute e commenti su accadimenti ridicoli, stappano birre e non smettono di sorridere un instante. Prova pena per loro. Una bollita di quarant’anni vestita come un clown con un gatto morto in testa, un dirigente che da troppe settimane non si fa la barba, un padre di famiglia stempiato e una ventenne dall’aspetto ordinario che indossa vestiti più vecchi di lei. «Che accozzaglia di perdenti» conclude l’agente, chiedendosi a quale categoria di sconfitti appartengano. Grazie alla sua esperienza sul campo ha individuato tre tipologie di “rivoluzionari” che tra colleghi distinguono in uomini di latta, spaventapasseri e leoni fifoni.
I leoni fifoni credono di essere i re delle foreste, o ambiscono ad esserlo, ma sono così vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontare il mondo là fuori e, fin tanto che stanno chiusi in questo piano della realtà, possono sognare la rivoluzione ed illudersi di avere un briciolo di importanza e potere. Lo stesso potere che vorrebbero, ma che subiscono, fuori da queste mura e, proprio come nel Mago di Oz, basta lo schiaffo di una giovane donna con le treccine ed un vestito a quadretti che vuole difendere il suo piccolo cane, per smascherare la loro farsa. Essi infatti non sono avvezzi e non tollerano la disobbedienza o il pensiero critico, in quanto non li hanno mai esercitati e vissuti in prima persona, per assenza di coraggio.
Gli spaventapasseri, al posto del cervello, hanno paglia che prende fuoco facilmente. Perdenti, sconfitti ed emarginati in un mondo che obbliga all’eccellenza, si rintanano qui dove non devono far la fatica di pensare, studiare, informarsi e prendere decisioni perché tanto ci sono i leoni fifoni che spiegano loro come vivere, cosa mangiare, come vestirsi, che musica ascoltare, quale battaglia combattere e quale ignorare. Bastano pochi semplici slogan facili da imparare a memoria, grazie alla rima baciata e alla metrica da inno dei tifosi, per dar loro dei riferimenti certi che non saprebbero però argomentare né mettere in discussione. Privati dal sacco che contiene quella paglia, si disperdono con la prima folata di vento, pronti ad obbedire al padrone di turno che li plasma a suo piacimento. E così svolazzano, pronti a prender fuoco, seguendo le correnti.
E poi ci sono gli uomini di latta che hanno rinunciato al proprio cuore per il troppo dolore, le delusioni e le lamiere di sogni infranti che pungono e lacerano il petto ad ogni battito. Meglio smettere di credere, amare, sperare e partecipare perché dove ci sono gruppi sociali c’è il potere e dove c’è il potere c’è ingiustizia. E no, non esiste possibilità alcuna di rompere questo schema e creare una socialità libera dall’oppressione, i giochi di potere, la competizione tra leoni fifoni e l’utile stupidità degli spaventapasseri e allora è meglio strapparsi il cuore e rimanere in ascolto di quel vuoto che può essere colmato dall’ebbrezza, il cinismo e la provocazione.
E Dorothy? In quel film c’era anche una Dorothy con le sue scarpette rosse e l’amaro compito di svelare le illusioni del Mago di Oz e aprire le porte della Città di Smeraldo… Non le capita di picchiare una Dorothy da tantissimo tempo. Non è che gli importi molto poi, al Tutore della Serenità protetto dal suo esoscheletro dai riflessi metallici, ma a volte è così noioso stare lì accucciati nel buio ad aspettare di massacrarli che, per passare il tempo, si diverte ad immaginarli come i personaggi di quel vecchio film. In fin dei conti sia il leone fifone, che lo spaventapasseri o l’uomo di latta, sotto i colpi del suo manganello, piangono tutti allo stesso modo. Eppure non riesce a capire a quale categoria appartenga quella ragazza dall’aspetto ordinario.
L’agente visualizza nel dispositivo occhio-orecchio il rapporto su quella che viene identificata come Dorotea D., classe 2018, ex dipendente della Woland Corporation e scopre che alcune note relative al soggetto sono secretate. La sua posizione all’interno della gerarchia dei Tutori della Serenità, però, gli concede di accedere solo ad alcune delle informazioni criptate. Sono delle istruzioni circa l’imminente operazione. Le legge e le cancella. “Massacrare Dorotea D. chirurgicamente senza rompere ossa o lasciare danni permanenti, concentrare i colpi sul volto, ma senza sfregiarla irreversibilmente”. L’agente non si fa domande e chiude il collegamento con il dispositivo occhio-orecchio. Nulla di quello che accadrà potrà essere registrato. Mancano pochi secondi al via e l’agente guarda per l’ultima volta quella ragazza a cui dovrà rovinare quel faccino acqua e sapone. Dorotea, proprio come la Dorothy di quel vecchio film… «Nient’altro che una coincidenza» pensa l’agente, prima di scagliare il manganello dietro alle ginocchia della ragazza.
«Sei pronta DeeDee?» mi aveva chiesto Fausto, sulla soglia della sala riunioni della Woland Corporation, togliendomi il berretto e spostando i capelli di lato, per mostrare la metà del mio cranio che mi avevo rasato – proprio come in quelle vecchie foto di Guenda – quella notte stessa.
«Chi è Guenda?» avevo chiesto, sfiorandogli il tatuaggio con inciso quel nome, con le dita. «Una che è morta» aveva risposto. «Suonavamo insieme – proseguì – vivevamo insieme, dormivamo insieme e facevamo sesso, sogni, progetti insieme, ma poi ha deciso che era meglio morire piuttosto di realizzare quei sogni con me, fare sesso con me, vivere e suonare con me» disse forzando uno dei suoi sorrisi da clown stronzo, ma fallendo nel tentativo di sembrare divertente. «Forse perché, per lei, io non ero abbastanza speciale e d’altronde nulla lo era per la mia Wendy. O meglio, era tutto così straordinariamente bello o doloroso per cui, alla fine, ogni cosa risultava troppo difficile da gestire. Per Guenda era tutto troppo o troppo poco e ha deciso di non essere niente». Nel dirlo si era alzato dal letto per poi tornare con una vecchia rivista cartacea in mano. Sulla prima pagina che faceva anche da copertina, ed era della medesima carta sottile e ingiallita di ogni pagina, vi era un collage di foto tra cui spiccava l’immagine di una ragazza sul palco rasata a zero per metà cranio e con lunghissimi capelli rossi che le cadevano giù fino alla spalla destra. Urlava in quello che doveva essere un vecchio dispositivo voce – un microfono – che fino agli anni Venti era stato usato per amplificare la voce durante le esibizioni in diretta di musica suonata dal vivo.
«Sei sicura di quello che stiamo facendo, DeeDee?» mi aveva domandato con il rasoio in mano. «DeeDee?» chiesi. «DeeDee. Non ti piace come soprannome? Ne avevamo tutti uno, ai tempi. Il cognome era qualcosa che non ci apparteneva davvero e se lo si usava era per storpiarlo in qualche modo grottesco e unico. Ho avuto amici e amanti con cui ho vissuto, suonato e lottato per anni e ne ignoravo il nome e il cognome, perché smettevamo di essere il figlio dell’operaio o il figlio del banchiere. Smettevamo di essere quello che viveva nelle case popolari o nel quartiere residenziale. Non eravamo più lombardi o siciliani. Eravamo parte di una famiglia tribale che non teneva conto di chi fosse tuo padre e che lavoro svolgesse tua madre. E così avevamo nuovi nomi. Nomi che raccontavano qualcosa di te e, la maggior parte delle volte, raccontavano qualcosa di molto imbarazzante, divertente ed epico. Io ero Fausto detto Panatta, eppure non ho mai giocato a tennis in vita mia, ma quando avevo circa quindici o sedici anni, mi capitò di trovare questo borsone sull’autobus – raccontò mimando con le braccia nude l’ingombro di quella borsa e guardando il vuoto tra le mani, come se fosse ancora in grado di vederla, lì, sotto i suoi occhi – pieno di vestiti puzzolenti e una racchetta. “Il tennis è roba da ricchi” penso, e cerco di barattare quella roba per del fumo al parchetto del paesino di merda in cui vivevo. Da lì gli spaccini hanno cominciato a chiamarmi Panatta, “Panatta che vuole un panetto di fumo” chiosarono e basta, quel nome non me lo sono più staccato di dosso, come un odore, come una pisciata territoriale riconoscibile senza bisogno di parlare» «Ti chiami Dorotea D.? DeeDee! Come Dee Dee Ramone o come le iniziali incise sul tuo dispositivo occhio-orecchio aziendale che indossi con tanta fierezza? Nessuno lo saprà, perché è un nostro segreto. Qualcosa che sappiamo io e te e che nessuno all’infuori della nostra famiglia tribale, può vedere o comprendere» «Oppure DeeDee, come Dorotea Disastro? Sembra il nome perfetto per una poetessa punk o per una cantante di una band» avevo azzardato. «Bellissimo! Dorotea Disastro detta DeeDee! Ho fatto proprio bene ad assumerti, sei brava!» disse prendendomi la faccia tra le mani e scoccando un bacio rumoroso sulla fronte, cominciava a piacermi questo… toccarsi.
«Guarda! Questa era la mia di band al completo» aveva detto, indicando due pagine piene di foto e parole all’interno di un’altra fanzine ingiallita. «Noi eravamo i This machine: Guenda alla voce, Giulio alla chitarra, io alla batteria e Monica al basso». «Ma è lei la donna della metro, quella con la gallina, sai? Come è possibile? L’ho incontrata proprio prima di venire da te!» gli dissi incredula. «Incredibile! Non è cambiata di una virgola allora e il fatto che tu l’abbia incontrata proprio oggi, venendo qui da me, non può essere una coincidenza! Il fato sta cercando di dirci qualcosa – disse alzandosi in piedi sul letto, calpestando le riviste e alzando le mani come durante le meditazioni – Cosa hai da dirmi, destino? Perché hai messo questa enfant prodige dell’analisi dei sentimenti e quella rimbambita kamikaze di Monica sulla mia strada? Quale mistero si cela dietro a tutto ciò, dammi un segno, crudele e oscuro destino ma, soprattutto, quale ruolo ha quella scatoletta di mousse per gatti?» «Posso sapere cosa stai facendo e a chi stai parlando?» chiesi. Fausto mi guardò perplesso e un po’ deluso. «Dobbiamo lavorarci su questo, ok? Questo tuo essere così respingente ad ogni cosa che non può essere misurata e calcolata, mannaggia, sei così… seria. Dovevi vederti! Era una scena divertente e del tutto priva di logica, tu che entri in casa mia con una scatoletta di pesce sintetico frullato in mano, tutta zuppa come una gattina randagia e quell’espressione da monitor del parchimetro!»
Lo stava facendo ancora. Si stava prendendo gioco di me. Imitò persino il mio volto e la mia rigidità espressiva, dicendo “miao”. Ed io provai qualcosa che ai tempi mi era difficile spiegare e capire. Qualcosa che mi riportò all’infanzia e agli scherzi che mi faceva mio padre o a mia madre che mi metteva la crema balsamica sul petto per calmare la tosse, ma mi faceva il solletico e ridevo, ridevo forte nel vedere ridere mia madre e anche quella sera, davanti a Fausto nudo che diceva “miao” imitando la mia espressione di qualche ora prima, lo feci… mi mise a ridere anch’io! E non riuscivo a smettere. Più cercavo di trattenere questa violenza che mi sconquassava il petto e mi toglieva il respiro, mi deformava la faccia fino a far male e mi faceva lacrimare, piegandomi su me stessa in cerca di placare quella che dall’esterno assomigliava ad una danza tarantolata o corrente elettrica che attraversa il corpo folgorato da un fulmine. E più ridevo, più Fausto persisteva nel portare in atto la messinscena, dire “miao”, muovere la sua mano stretta in un pugno come zampette di un gatto, fingere di lavarsi la testa e il muso. Mise fine al mio tormento, strusciandosi su di me, facendo le fusa, mordendomi il collo e trasformando lo scherzo in un gioco per grandi, con la voglia di darmi e ricevere ancora piacere dipinta negli occhi e scolpita in mezzo alle gambe. Ormai la luce dell’alba illuminava tutta la stanza e l’intera città, svelando ciò che avevo perso negando il sentire del ventre, i battiti della notte, la verità dei sospiri e del proprio sudore mischiato a quello di un altro.
Mi svegliai ancora ubriaca, con la testa rasata ed un’idea.
Noi camminiamo lungo i binari del treno e riposiamo sui gasdotti il nostro fiato è il fumo nero di una ciminiera, la nostra stella polare è la luce gialla di un lampione. 2016, Lungo i binari del treno, Kalashnikov collective (orig. “По трамвайным рельсам” by Yanka Dyagileva 1987)
«Sei pronta DeeDee?» mi chiede Panatta.
«Sì, sono pronta» rispondo e salgo su quel palco davanti a così tante persone ammassate l’una sull’altra da ricordare il brulicare del piccolo popolo nella vita batterica dell’humus del sottobosco. Una massa calda e percorsa da battiti, vibrazioni, ronzii, respiri, condensa, puzze, ruvidità, attriti e morbidezza, umidità e ossa dure, giunture spigolose e denti che sembrano candidi sassi. Salgo sul palco del concerto illegale che farà la nostra storia e la storia della musica, perché è dagli anni Venti che non si assiste ad un fenomeno, anche solo paragonabile, in quanto a numero di partecipanti e ore suonate dal vivo di seguito.
In ogni data del nostro tour, lungo 6 stagioni, abbiamo portato con noi chiunque avesse voglia di seguirci o fosse in possesso di uno strumento. C’è chi ci ha seguito con batterie realizzate con pentole e pezzi di elettrodomestici, chitarre ottenute da scatole di legno ed elastici ben tirati, strumenti a fiato ottenuti dai desueti tubi di scappamento di automobili abbandonate e chi ci ha seguito suonando la propria voce o perché non aveva mai visto Mosca o chi non voleva interrompere un discorso iniziato sotto il palco e allora, così come era venuto, è salito sul camper perché certi discorsi non si possono interrompere a metà.
Abbiamo percorso migliaia di km su strade distrutte dalle piogge e dal gelo. Pozzanghere ghiacciate che, come in un contagio, si diffondono di crepa in crepa fino a far sparire il manto stradale. E fango, fango e alberi a perdita d’occhio per ore e ore.
Il nostro contatto russo ha pochi denti in bocca, un sacco a pelo, una spazzola e delle pedine di scacchi avvolte nello stesso asciugamano che dovrebbe usare per lavarsi. Con i denti che gli sono caduti, a causa della carenza di vitamine ed eccesso di alcol tipico di queste lande, ne ha fatto un ciondolo che porta al collo. Ci ha accompagnato per le prime settimane del tour oltre i confini dell’Antica Russia e poi si è fatto lasciare a piedi, nel nulla, con la promessa di ritrovarci a Mosca 5.0 per la data conclusiva del tour. Prima di congedarsi, ci ha fatto tre raccomandazioni:
Non fidarsi mai degli sbirri, che non ha mai accettato di chiamare Tutori della Serenità, perché violenti e corrotti
Non sostare più di 15 minuti all’aria aperta di notte con oggetti metallici in mano, o addosso, per evitare che ci si appiccicassero alla pelle nottetempo
Stare attenti agli orsi
«Come? Come possiamo proteggerci dagli orsi? E quali orsi?» aveva chiesto allarmato Giulio. «Non rimanete mai a secco e non passate la notte in autostrada. Gli orsi hanno lunghi artigli, capaci di dilaniare le lamiere» aveva concluso, allontanandosi coi piedi nel fango oltrepassando quel confine di neve sporca, pozzanghere e bottiglie rotte, dirigendosi verso un nulla siderale fatto di alberi neri, candida neve e molto probabilmente orsi dai lunghi artigli capaci di dilaniare lamiere. «Si sta sicuramente suicidando – aveva commentato Giulio – cerchiamo se ha lasciato un biglietto da qualche parte. Viktoooor – aveva urlato con voce strozzata – Viktoooor, torna indietro!» continuava ad urlare con mezzo busto fuori dal finestrino, intanto che la carovana che si era creata dietro al camper di Monica cominciava a farsi impaziente e a ululare feralmente: “Viktoooor! Viktooor!” tra i clacson e il fragore dei coperchi di pentola adattati a charleston e le botti di legno come grancasse. Viktor si era girato e aveva sorriso con quei due denti che gli rimanevano in bocca e aveva urlato qualcosa che non eravamo stati in grado di comprendere. Lo avevamo dato per disperso eppure è lì, sotto il palco, con la sua aria stropicciata e gli occhi buoni nascosti dalla malinconia di quei lineamenti così marcati dagli anni. Viktor aveva avuto una band piuttosto nota e molto attiva nell’ultimo decennio del secolo precedente. Sebbene non avesse dovuto, come i suoi predecessori, sfidare la censura esplicita del regime comunista che reputava il punk, per esempio, effetto collaterale e marcio del sistema occidentale e, ubiquitariamente, di essere anche troppo critico nei confronti dello Stato, Viktor aveva avuto a che fare con la Russia pre-rivoluzione del Buonsenso.
Un Paese che viveva nel culto della personalità del proprio presidente, in cui a giornalisti troppo curiosi e oppositori politici accadevano strani incidenti con il veleno, i Pride assomigliavano al massacro delle foche sulle coste della Namibia e un collettivo punk, di nome Pussy Riot, venne condannato a tre anni di reclusione e lavori forzati per “teppismo premeditato realizzato da un gruppo organizzato di persone motivate da odio o ostilità verso la religione o un gruppo sociale” a causa di una performance situazionista all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore, in cui nessuno si fece male se non le tre donne protagoniste del concerto improvvisato. Viktor detto “Grob” (che vuol dire “bara” in russo), un vecchio punk di appena 50 anni, nato nell’orribile cittadina mineraria di Mončegorski in cui si estraeva e si lavorava il Nichel destinato al mondo interno, che era cresciuto ascoltando i gruppi imbrigliati dalla dittatura del proletariato, perseguitato dall’ossessione per il controllo della Russia patriarcale e capitalista e infine insterilito dall’attuale sistema del Buonsenso della Woland Corporation & Co. eppure è lì, con la sua collana di denti e una bottiglia di vodka in mano che urla “Davai, davai, porco dio!”. Glielo abbiamo insegnato noi, sebbene le bestemmie non abbiano più molto senso nell’epoca della razionalità laica, in cui nessuno fa guerre in nome di un dio o di un’ideologia.
Nessuno opprime, schiaccia, stupra o si arma per invadere i confini e bombardare le città.
Abbiamo illuminato le nostre città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere ovunque, perché i nostri occhi servano solo ad ammirare quella sezione di tramonto inquadrata dalle finestre del nostro salotto. Non abbiamo bisogno di pregare o bestemmiare perché non esistono angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle. Nessuno abbandona auto, infrage vetri o taglia gomme. Non esistono vicoli bui in cui aver paura o ideali per cui immolarsi.
Non abbiamo bisogno di un dio da ringraziare per il tramonto di questa sera. Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, perché in questo momento storico è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare. Abbiamo vissuto sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli.
Non abbiamo bisogno di bestemmiare perché nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi.
Nell’epoca del buonsenso non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico.
Ed è grazie a Woland se non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede.
Abbiamo dimenticato lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che finivano comunque sotto la terra, ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano.
Ed è merito dell’algoritmo se, adesso, ciò che fa male è illegale. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco e misurare l’esistenza di dio, della sua parola noi non ne facciamo la nostra legge.
Eppure continuiamo a farlo. Preghiamo e bestemmiamo. Ci inventiamo rituali e cerimonie. Celebriamo ogni cosa che amiamo, malediciamo tutto il resto. Ed io, in questo momento solenne che precede ogni concerto, prego il fuoco affinché possa bruciare le mie bugie.
Mi chiamo Dorotea Disastro e vi chiedo di perdonarmi, se potete.
"Il grande rogo del '25" è un romanzo in progress scritto, letto e montato da .
Musiche di Heimat Der Katastrophe.
La canzone iniziale e finale è un'interpretazione di "Lungo i binari del treno / По трамвайным рельсам" by Yanka Dyagileva cantata da me ai tempi dei "tour scemi" (cit.) in Russia insieme ai Kalashnikov Collective. Esperienza che, ovviamente, ha ispirato buona parte di questo romanzo.
Se volete sapere qualcosa di più sui "tour scemi in Russia" trovate tutto il reportage qui.
Seguimi in questo tunnel di rovi, di rampicanti e macerie dove i baci sono morsi che sbranano il dolore.
2016, L’amore in tempi dispari, KALASHNIKOV COLLECTIVE
Il ginocchio di Fausto sfiorava il mio. Ed io ricambiai spingendo il mio, contro il suo con una maggiore pressione perché sapevo che ciò era sconsigliato e inappropriato. Pochi centimetri di pelle a contatto che parlavano un linguaggio che solo noi potevamo comprendere. Fausto abbassò il volto per nascondere un sorriso sconveniente. Ed io spinsi ancora più forte la mia gamba (ora, persino la coscia) contro la sua, perché era qualcosa che non avevo mai fatto prima e il mio corpo, in quei centimetri di pelle, esercitava un potere che io non avevo mai sperimentato. Come il mio ginocchio contro il suo, così i nostri corpi nudi sotto i palmi delle nostre mani e quei baci che assomigliavano a morsi, pronti a sbranare voracemente quella che era stata la mia, e la nostra vita, prima di quella notte , quella stessa vita che però si ERA FATTA strada, ostinata e inamovibile, insieme alla luce del giorno.
Avevo già fatto sesso, certo, ne avevo fatto quanto basta, eppure stavo sperimentando la sensazione più erotica della mia vita, in quella pressione del mio ginocchio contro il suo, nella sala d’attesa dell’ufficio dell’assistente del signor Woland in persona e della sua squadra di lavoro.
La nostra “presentazione” del progetto per la conquista del segmento di pubblico, che rifiutava di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma di musica digitale della Woland Corporation, aveva fatto parecchio rumore… nel vero senso del termine. Così tanto rumore da arrivare ai piani altissimi dell’edificio e, da lì a pochi istanti, avremmo dovuto parlarne direttamente con la squadra di lavoro che, non solo era a capo della delegazione di Milano, ma lavorava a stretto contatto e si relazionava direttamente, ogni giorno, con Michail “Huxley” Woland in persona.
Avevamo ottenuto ciò a cui nemmeno i più alti livelli potevano ambire. Arrivare al nucleo, alla testa pensante dell’edificio dai vetri dei colori del cielo, era qualcosa che neanche Fausto aveva mai vissuto o sperato di poter vivere nell’intero arco della sua carriera. Ed era nervoso. Era eccitato, ancora. Ed io come lui, sebbene nell’ultima notte passata insieme non avessimo fatto nulla di eccezionale se non ubriacarci, ascoltare musica e fare sesso.
Ma ciò che rendeva tutto così sconveniente, sbagliato ed “emotivo” era l’averlo fatto perché lo desideravamo e senza pensare alle conseguenze e ai vantaggi che bere, fare sesso, ascoltare musica e raccontarci i nostri più intimi pensieri, avrebbe generato nelle nostre vite a breve, medio o lungo termine.
Non avevamo fatto foto e non avevamo immaginato le possibili reazioni delle nostre comunità elettriche. Fare sesso con un utente con il seguito che vantava Fausto, mi avrebbe portato ad un aumento di fedeli e seguaci, mi avrebbe catapultata nel mondo di quelli che la gente imita e assume a figura di riferimento e statistica. Documentare l’aver fatto sesso con lui, avrebbe aumentato il mio punteggio sociale, eppure non mi aveva minimamente sfiorato il pensiero di interrompere ciò che stavo vivendo per estrapolarne un istante ad uso e consumo del mio pubblico. Non avevo pensato a didascalie buffe e profonde da associare alla nostra esperienza comune. Non sentivo nessuna voce interiore che narrava il presente, immaginando poi come sarebbero suonate quelle parole nel report sociale quotidiano sul mio diario digitale. Avevo vissuto e basta… senza lasciare traccia.
Me ne ero resa conto solo dopo aver riattivato il mio dispositivo occhio-orecchio, ed essermi accorta, che tanti mi avevano cercato non vedendo più la mia testimonianza di essere viva. Avevo mangiato e cosa? Avevo fatto esercizio fisico? Quanti chilometri o a quale frequenza cardiaca? Quante calorie o oggetti di cultura e intrattenimento avevo consumato?
Uno scatto alla copertina e una serie di stellette per giudicare, con un semplice tocco delle dita, il lavoro di mesi o anni di un altro individuo. Avevo comprato dei vestiti o provato una nuova acconciatura grazie ad un simulatore virtuale? Non esisteva testimonianza del maglioncino nero abbinato alla camicia verde smeraldo che avevo indossato la mattina, guardandomi allo specchio. E i miei esami del sangue senza asterischi? Scatto. Esami del sangue con qualche infausta diagnosi? Scatto e foto-ritratto nel letto di ospedale. Perché senza la reazione di un pubblico, il fatto non sussiste. Perché da quando abbiamo rinunciato alle emozioni e le passioni, è solo l’approvazione o la contestazione degli altri a misurare la nostra gratificazione e miseria. Perché se non lo racconti, non lo hai vissuto. Se non lo fotografi non lo ricorderai. Se non lo comunichi, non lo senti.
Eppure io avevo ascoltato Fausto per delle ore. I suoi ricordi, le sue emozioni, il suo vissuto di quell’epoca che ricordavo solo nei racconti epici, frammentari e distratti di quel fantasma dell’uomo che doveva essere stato un tempo mio padre. Ai tempi non sapevo neanche se fosse ancora vivo. Il mio genitore che non avevo mai chiamato papà…
Non avevo rapporti con i miei genitori da quasi sette anni. Da quando, compiuti i sedici, avevo abbandonato la casa in cui ero cresciuta e preso una stanza in dormitorio, secondo quanto stabilito dalla legge. Sotto il regime del buonsenso nessuno è obbligato moralmente o legalmente a mantenere un rapporto con la coppia genitrice se, statisticamente, la relazione non rappresenta un vantaggio per tutte le parti coinvolte. Ma ciò non accade quasi mai e, come una malattia genetica, nonostante tutte le precauzioni di igiene pedagogica adottate, gli errori dei genitori si riversano sui figli che a loro volta contaminano di aspettative, bisogni puerili di affetto, affermazione, rivalsa e approvazione irrazionale ogni altro legame.
Staccare il cordone ombelicale non ha mai avuto così tanta importanza come nell’epoca post-pandemica in cui fummo tutti costretti ad accettare che, per tornare alla vita, dovevamo liberarci della zavorra.
Vecchi, malati, indigenti, disoccupati, tossici, disturbati, alienati, handicappati, depressi cronici, stupidi dal QI infimo… Senza di loro, spazzati via dal virus, dal rifiuto di vaccinarsi o dall’interruzione dell’erogazione di qualsiasi servizio sanitario e assistenziale statale, che troppo spesso si dava per scontato, venne rianimata un’economia attaccata ad un polmone artificiale che prometteva, senza alcun buon senso, il benessere di molti a discapito di tutti. Senza stolti, fragili e malati a pesare sulle spalle di noialtri sani studenti e lavoratori dalle eccellenti prestazioni, si vive decisamente meglio.
Durante i miei studi universitari ho dato un esame di Storia del sentimentalismo con un focus sulla “disperazione”. Non mi fu difficile immedesimarmi in un mio coetaneo degli anni Venti, ma mi sembrava così assurdo che così pochi avessero preferito una razionale interruzione della propria vita, in nome di una non computabile speranza che qualcosa sarebbe cambiato nelle loro vite, migliorandole. Loro, di certo, non potevano sapere che Woland avrebbe rivoluzionato, salvandole, le nostre esistenze.
Ma uno come Fausto, per esempio, che aveva studiato in una scuola pubblica in cui i docenti non insegnavano la storia più recente che andava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, passando per gli anni di piombo, per arrivare a tangentopoli – argomenti che la politica considerava divisivi – perché , buona parte di ciò che era accaduto in quegli anni, non aveva ancora una verità ufficiale (o pronunciata dai tribunali) che potesse essere raccontata. E allora ecco che la storia finiva con la vittoria della democrazia al referendum del ‘46 ed un breve cenno su chi, quella democrazia, l’aveva conquistata, costruita e rivendicata.
Fausto poi aveva frequentato l’Università statale e cercato un impiego, rendendosi conto di essere in ogni caso scavalcato da chi, grazie ad un percorso accademico e formativo a pagamento, era più preparato per il mondo del lavoro, più inserito, più colto, più bravo a scrivere una lettera d’impiego e a sostenere un colloquio.
Fausto aveva passato i primi 10 anni dopo il diploma di laurea a collezionare contratti di lavoro precari, mal pagati e non specializzati, che gli avevano fatto dimenticare quel poco che aveva appreso durante gli studi. Era riuscito ad ottenere un contratto decente, che di anni ne aveva trenta e un ruolo decisionale solo a 35 anni.
«E per voi donne era anche peggio» mi aveva detto quella notte, confermando il frutto dei miei studi per quella tesina sulla disperazione. «Attorno ai 30 anni, dopo oltre 10 anni che lavoravo e studiavo, mi è arrivata una lettera da quello che un tempo era l’ente provvidenziale, grazie alla quale appresi che avrei dovuto lavorare fino a 79 anni. Ed era stato così anche per Giulio, che lavorava con gli anziani non autosufficienti che al tempo venivano ancora tenuti in vita e c’era gente come lui, per l’appunto, che veniva impiegato per nutrirli, lavarli, farli andare persino in bagno» mi aveva raccontato.
«Era una strana epoca la vostra. Mi stai dicendo che il protocollo DEATH ( Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene) non veniva applicato?» avevo chiesto.
«Negli anni Venti, prima della pandemia, il protocollo DEATH era soltanto l’acronimo di Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene ed era uno strumento di misurazione per valutare la gravità dello stato di salute di un individuo e la sua autonomia nello svolgere le attività quotidiane. Non era come oggi, col sistema attuale, in cui se un individuo non è in grado di vestirsi, mangiare, camminare, andare in bagno e lavarsi in autonomia, allora viene eseguita la sentenza e quindi c’era bisogno di persone come Giulio che se ne occupavano e, se non fosse stato per Woland, l’aspettativa era quella che avrebbe dovuto farlo fino agli ottant’anni e badare così a suoi coetanei!»
Follie democratiche che ci siamo lasciati alle spalle. Ora, disabili permanenti, malati terminali e anziani non autosufficienti vengono accompagnati con dolcezza, verso una morte liberatrice. Non ha alcun senso obbligare loro ad un’esistenza di sofferenze e umiliazioni, sovraccaricare di fastidi e imporre sacrifici alle famiglie e costi per lo Stato ed i contribuenti. Senza neanche bisogno di prelevare una singola goccia di sangue o materiale organico, inoltre, un potente programma di calcolo è in grado di individuare, facendo interagire tra loro le due sequenze di DNA di chi desidera un figlio, le possibili malattie genetiche invalidanti o la tendenza a gravi patologie prima ancora del concepimento.
«Assurdo! Vivevi in un’epoca priva di senso. E lo Stato? Come giustificava questa follia? Voglio dire, come poteva risultare credibile nell’emanare leggi che obbligavano una carcassa ambulante a dover prendersi cura, per lavoro, di altri soggetti inutili al benessere comune?» avevo chiesto, pur sapendo la risposta. Sapevo molto bene che, ai tempi, il mondo era in mano a uomini (soprattutto) e donne che avevano superato da tempo l’età del ritiro e che, avidamente (anche l’avidità era frutto del sentimentalismo dopotutto), partivano dal presupposto che la propria condizione di privilegio, come essere in buona salute, l’accessibilità all’assistenza e alle cure mediche, fare un lavoro intellettuale con la possibilità di delegare a schiere di schiavi ed assistenti, fosse applicabile ad ogni strato e classe della società. No, per loro non sarebbe stato un problema lavorare, in quelle condizioni, fino agli ottant’anni. E poco importava se non avevano formato degli eredi capaci di proseguire il loro lavoro, perché fintanto che fossero stati in vita, avrebbero costituito una minaccia e, una volta morti, non avrebbero avuto alcun interesse sulle sorti dell’azienda che gestivano, dell’ente di cui erano presidenti, della cattedra universitaria che occupavano, del ruolo amministrativo per cui erano stati eletti e così via. Egoisti e avidi che non vedevano al di là della propria ricchezza terrena da proteggere con tutto il potere che erano in grado di esercitare.
La vera svolta della rivoluzione di Michail “Huxley” Woland fu quella di smascherare l’avidità liberale, in quanto frutto corrotto di un sentimentalismo irrazionale. Che le masse proletarie fossero manipolabili attraverso l’emotività su cui facevano leva i cosiddetti populisti non era una novità, ma che persino i vertici del mondo fossero messi su di un patibolo e svestiti delle proprie corazze, privati di quel potere abusante e distruttivo, liberati dalla gerarchia che li proteggeva indebolendo il tessuto sociale, era qualcosa che raramente si era visto prima; ad accezione delle grandi rivoluzioni che però erano partite dal basso e poi fallite per motivi, purtroppo, maledettamente emotivi e irrazionali.
L’epoca che aveva preceduto la pandemia era stata decisamente assurda e disperata. Di tutte le storie che mi aveva raccontato Fausto quella notte, l’unica sensata era stata quella di Wendy che aveva deciso di ammazzarsi.
A partire dalla pandemia del 2020 e nel decennio successivo, queste cloache di illegalità e sporcizia, vennero sgomberate, murate e dispersi i collettivi che le occupavano e le abitavano. Il medesimo trattamento fu riservato ad ogni forma di illegalità e devianza che minacciava una possibile nuova ondata di contagi o di incendi. Il terrore per la malattia e il caos del 2025 spianò la strada all’applicazione scientifica delle teorie di Woland e della sua riforma.
E così vennero chiusi i centri sociali e le case occupate, repressi gli scontri durante i cortei e le proteste simboliche apparentemente pacifiche, messe a tacere le radio clandestine e sequestrata ogni singola fanzine o volantino, ma ciò che ne emerse è che la gente, senza questi luoghi in cui organizzarsi e aggregarsi tra simili, creare musica, arte e altre inutili baggianate politicamente ininfluenti – in fin dei conti – in quel momento storico in cui si resero conto di vivere la vita dei loro padri e delle loro madri tra monogamia, famiglia, casa, lavoro e routine asfissianti (eppure infinitamente più poveri rispetto ai propri genitori), sbroccarono del tutto nell’acquisire la consapevolezza di essere, dal lunedì al venerdì, degli schiavi.
I primi fuochi vennero appiccati dai fascisti e dagli anarchici, gli uni contro gli altri. Seguirono mesi e anni di incendi, disordini e distruzione in cui i libertari davano fuoco alle macchine dei padroni, ai simboli dell’oppressione e ai palazzi dei potenti.
I fascisti al potere incendiavano gli animi del popolo più povero di capacità critica (e facilmente infiammabile) puntando il dito sulla sovversione anarchica, l’insofferente miseria dei migranti e la coesa autodeterminazione di popoli con un dio, e un’idea di società, in disarmonia con la propria tiepida condanna di rana bollita su un fornello acceso. E ancora fuoco.
I roghi dei campi Rom si estesero fino ai quartieri popolari dove i più giovani figli della miseria e dell’invidia, approfittavano del caos e dei continui black-out, per scagliare molotov contro le Forze Armate e lanciare mattoni contro le vetrine di quei negozi di tecnologia elitaria, per cui erano stati sfrattati dalle strade in cui erano cresciuti giocando a pallone o facendo il palo ai fratelli maggiori che spacciavano. Questo esercito in poliestere, puzza di piedi e hashish, sfregiava le macchine dei borghesi, vandalizzava i loro ristoranti biologici e saccheggiavano i negozi di design e atelier di arte sperimentale, sbucati come foruncoli grazie alla riqualificazione urbanistica intossicata dai fondi destinati alla cultura, all’istruzione e al benessere sociale. Tutto questo prima di dargli fuoco, ovviamente.
E gli impiegati, vedendo ridotta in cenere quella che (ancora 32 rate e) sarebbe stata la loro automobile, ibrida, perché si può parcheggiare all’interno delle linee blu del centro davanti a quel bar dove diluire, insieme al ghiaccio dei cocktail, la convinzione di non essere mai all’altezza delle situazioni, sentirono tutto l’affanno e la stanchezza di quella corsa verso la prossima promozione, la prossima vacanza, la prossima scopata, il prossimo weekend… e cominciarono, letteralmente, a darsi fuoco.
Senza preavviso, senza sorpresa, smisero di buttarsi sotto i treni, sedarsi con l’alcol e lo yoga per inzupparsi gli abiti di vodka polacca e trasformarsi in torce umane nella metropolitana all’ora di punta, nelle sale riunioni sotto il fascio di luce di un proiettore, nelle palestre open space… essi bruciavano, sorridendo e urlando di gioia e dolore.
In quegli anni il cielo era rosso sangue e l’aria puzzava di grasso arrosto. Lo chiamarono il Grande Rogo Civile del 2025 e morirono centinaia di persone in ogni città, tra migranti di seconda generazione con le tasche piene di smartphone da migliaia di euro, pompieri martiri, sbirri linciati, gay e femministe messi al rogo dai sovranisti, pire di medici puniti da chi si sentiva vittima di un’inverosimile dittatura sanitaria, presunti untori colpevoli di focolai infettivi in occasione di feste di compleanno festeggiate in un fast-food… Fuoco, fuoco e ancora fuoco, con la stessa furia di quell’eruzione vulcanica che doveva aver distrutto Ercolano e Pompei.
A spegnere il fuoco ci pensarono i neonati Tutori della Serenità della Woland Corporation. E furono proprio i primi sostenitori della dottrina del buonsenso – alcuni di loro erano stati gli incendiari della primissima ora – dopo aver contribuito a spegnere anche il più innocuo tra i falò, a sussurrare nell’orecchio dell’apparato statale che, forse, concedere al popolo (soprattutto a quelle tribù più insofferenti come i punk e gli appartenenti alle controculture in generale o a quei grandissimi rompiballe degli anarchici) qualche piccola libertà in quelle minuscole e controllate sacche di illegalità, rendeva di conseguenza possibile il lavoro nelle fabbriche, negli uffici amministrativi o nelle agenzie creative, per esempio.
I punk, gli anarchici, i sedicenti rivoluzionari, i bombaroli e gli incendiari tornarono a pulire culi o lavorare nelle scuole (relazionandosi con genitori che non accettavano autorità all’infuori dell’eccellenza e la genialità del figlio). Accettarono di passare dalle otto alle dodici ore con persone con cui non avevano nulla da dirsi a parlare del meteo – ma non della crisi climatica – per non turbare la suscettibile armonia di quella cattività illuminata dai neon.
Chi aveva appiccato i primi fuochi tornò ad occuparsi di disabili, di reti idriche, impianti elettrici e patatine fritte servite con il ketchup a parte, pacchi e pizze al kamut da consegnare in fretta ed evitare una valutazione negativa o un richiamo formale. Si tornò, insomma, a lavorare esattamente come prima del Grande Rogo.
Tutto questo fu possibile grazie a quella becera promessa festiva, ma a tempo determinato, di un concerto in cui esprimere le inclinazioni artistiche, di un piccolo corteo o sit-in in cui manifestare il proprio dissenso, tra una settimana lavorativa e l’altra. Dopotutto, a questi insofferenti e ribelli a cui “non vanno bene le cose”, basta la ricercata alienazione di queste oasi dove si sentono protetti e tra simili, per poi tornare il lunedì ad indossare un sorriso comune e timbrare il cartellino. Permettere l’esistenza di certi spazi non è altro, dunque, che una calcolata questione di buonsenso, di utilità e di efficienza.
Mi lasciai alle spalle il Grande Palazzo, sede della filiale italiana della Woland Corporation, che non era ancora scoccato mezzogiorno per accorgermi che diluviava. All’interno dell’edificio le finestre erano, in realtà, schermi che irradiavano la giusta intensità di raggi solari per stimolare la produzione di Vitamina D, proiettando cieli azzurri solleticati da qualche nuvoletta candida e soffice, come la schiuma che ricopriva l’aquapark dei Navigli, dividendo in due la città. Mi fiondai giù per le scale della Metropolitana che mi avrebbe portato nel quartiere residenziale di Fausto quando, il mio dispositivo occhio-orecchio, mi trasmise il dato di aver portato a termine la sfida del digiuno intermittente e concluso il mio periodo di disintossicazione settimanale. Confermai di non avevo assimilato calorie, né sprecato risorse alimentari nelle ultime 48 ore con un tocco sulla tempia. Con altri due tocchi ravvicinati scattai una foto, sorridendo in direzione del mio dispositivo microdermale innestato sul polso. Un altro tocco ancora e l’autoscatto venne pubblicato sul mio diario alimentare e condiviso tra la mia comunità elettronica della piattaforma dedicata ad una sana e corretta alimentazione e all’equa redistribuzione delle risorse della Terra. Mi voltai con un dietrofront improvviso, per tornare nella mensa del giardino pensile del Grande Palazzo, ma un ostacolo bloccò il mio cammino con un urto violento. Da quell’incontro-scontro ne venne fuori un trambusto di lattine rotolanti giù per le scale della metro, piume nere ed un concertino di starnazzamenti, strilli vibranti e delle scuse emesse da una voce che ricordava il sapore dello zucchero filato un po’ sbruciacchiato. «Oh, che sbadata. Scusami, amica. Scusami, ma non ti ho vista!» disse l’ostacolo, confondendomi con un sorriso stralunato e bellissimo, nonostante fossi io la colpevole di disattenzione e la parte attiva di quel placcaggio metropolitano. La aiutai a raccogliere quelle lattine che scoprii contenevano cibo per animali e le infilai in una borsa logora di un nero sbiadito, in cui intravidi un logo scrostato di un’azienda che non conoscevo ma che doveva, un tempo lontano, raffigurare la zampa di un cane accanto al pugno di un umano, entrambi circondati da’un aureola di lettere che non riuscivo ad interpretare.
Era una donna assurda con nastri e dadi di acciaio tra i capelli stopposi, che avevano i colori slavati di un timido arcobaleno che si riflette sulla superficie di una pozzanghera. Non aveva un buon odore, o meglio, aveva un odore che io non avevo mai attribuito ad una donna ed era simile al fango, all’erba dei prati, alla pelliccia dei gatti, alla resina degli alberi, alla ciccia dei bimbi, ai broccoli bolliti e all’ammoniaca. «Grazie, amica mia» ripeté, prendendomi le mani tra le sue, per poi andare via con una gallina nera, stretta in una buffa pettorina piena di balze e fiocchetti, attaccata ad un guinzaglio. «Pol-pot, pol-pot, pol-pot» chiocciava la gallina guardandomi con severa dignità, nonostante il grosso tutù di pizzi e merletti viola, che avvolgeva metà del suo corpo. Ma più della pennuta al guinzaglio col tutù, mi colpì il fatto che per la seconda volta, nell’arco di una manciata di minuti, due persone avevano stabilito un contatto fisico non occasionale con me. Potevo ancora sentire quella sensazione improvvisa, ma ferma, della mano di Fausto sulla mia spalla che persisteva, come se avesse lasciato delle spore sulla mia pelle.
È dal 2020 che il distanziamento sociale è diventato legge, a seguito della pandemia, ed è stato adottato come buona etichetta anche dopo aver debellato il virus, per una mera questione di buonsenso. Toccarsi rappresentava comunque un rischio e allora perché baciarsi, abbracciarsi o stringersi le mani per salutarsi? Eppure pochi minuti prima Fausto mi aveva appoggiato una mano sulla spalla ed ora la donna della gallina, con quella sua stretta avvolgente e delicata e quella sensazione di contaminazione.
Mi guardai le mani, convinta che quel contagio si doveva tradurre anche in una manifestazione visibile ai miei occhi. Ma niente… le mie mani erano quelle di sempre e tenevano in mano una scatoletta di cibo in mousse per gatti anziani.
«Perché hai in mano una scatoletta di cibo per gatti senza denti?» mi chiese Fausto, non appena varcai la soglia di casa sua. «Se hai fame possiamo ordinare qualcosa» disse piegando un sopracciglio che trascinò con sé, come il filo di un burattino, anche l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco e scanzonato. «Il fattorino sarà felice di farsi il viaggio in una così bella giornata» disse. Stavo per obiettare indicando i miei vestiti zuppi, tralasciando il fatto che non avrei mai mangiato cibo per gatto neanche in una situazione di emergenza, ma poi capii che lo aveva fatto ancora. Quella cosa dell’ironia. Che schifo.
Gli raccontai cosa mi era successo, della donna coi capelli del colore dell’arcobaleno sbiadito, della gallina al guinzaglio e di quel logo aziendale che non avevo riconosciuto. «Non è un logo – rispose – è un simbolo». E non disse più nulla per qualche minuto, ma mi fece accomodare con un cenno sul grosso divano color perla e accendendo con un telecomando un camino a led, incurante del mio giacchino di jeans fradicio e delle piccole pozzanghere di pioggia e sporcizia che avevo lasciato lungo il mio cammino.
«Quello che hai visto era uno dei simboli usati dagli animalisti prima della grande riforma del Buonsenso. Ai tempi c’era chi aveva deciso di battersi in difesa di chi non poteva farlo» urlò dalla cucina. «E perché? Quale beneficio portava, a questa gente, combattere per chi non poteva dare nulla in cambio? Mi sembra poco sensato e ancor di più rivendicare questa stupida irrazionalità indossando un marchio che lo renda manifesto» obiettai. «Si tratta di qualcosa che tu non hai avuto tempo e modo di conoscere. Parliamo di un ideale ed è anche di questo che ti devo parlare, se vogliamo lavorare bene e presentare il rapporto più sensato di tutte le altre squadre dell’Officina di Lavoro» disse, tornando con due grosse lattine di birra in mano ed un asciugamano con cui cercai di asciugare il ricordo di quel temporale inaspettato di cui erano intrisi miei capelli.
Osservai quei buffi cilindri di alluminio attraversati da sentieri di condensa, che si trasformava in piccole gocce nello scivolare verso le mani ben curate di Fausto. Le lattine… un formato che nessun produttore di birra, in grado di pagare uno studio di commercializzazione e di analisi dei sentimenti, metterebbe mai sul mercato! Un arcaico e sgradevole metodo di assunzione degli alcolici che riportava a quella volgare mediocrità di quegli anni in cui, la birra era ancora una bevanda economica, popolare e monosapore. Non sapevo neanche come si bevesse una birra da una lattina e mi faceva anche un po’ schifo l’idea di appoggiare le labbra sull’alluminio. Chi poteva rassicurarmi sul fatto che non fossero rotolate per terra o che chi le aveva maneggiate, per l’intero arco della filiera, avesse sempre avuto le mani ben lavate? E la polvere che cade dal cielo, l’inquinamento domestico dei toner e… «Toh, bevi – disse brusco Fausto intuendo i miei pensieri – non essere paranoica» concluse, porgendomi la lattina che aveva appena aperto. Trovai eccessivo associare una psicosi, alla mia razionalissima attitudine a destrutturare una filiera produttiva per individuare le possibili falle igieniche, ma con Fausto era così, stavo imparando a conoscerlo, iperbole e paradossi disseminati nella conversazione, come bolle di anidride carbonica che frizzavano nella schiuma della birra in una lattina troppo fredda e che tenevo in mano. La studiai con sospetto per qualche istante. Non conoscevo l’azienda produttrice poiché non era presente sulla rete, né sugli spazi pubblicitari urbani, né tanto meno in quelli astrali o onirici con cui controlliamo i nostri sogni. La lattina era verde scuro e conteneva circa mezzo litro di liquido, ma nessun gusto veniva indicato tra le poche scritte che comparivano su di essa (una birra al gusto birra?), ma riuscii ad individuare un simbolo di divieto attorno alla sagoma di una donna incinta. Davvero c’era bisogno di illustrare su una lattina il divieto di bere alcolici per le donne incinte? Doveva essere un’altra delle stranezze di quell’epoca in cui il buonsenso non era ancora legge.
Finkbrau: nome e confezione non promettevano nessuna ricompensa sociale e non raccontava nulla che potesse farmi capire a quale potenziale comunità di consumatori appartenessero i bevitori. Nessun manifesto. Nessuna adesione ad un modello. Nessuna dichiarazione d’intenti. Una birra e nient’altro. Eppure mi feci coraggio e appoggiai le labbra al cerchio argentato della lattina e, inclinando la testa all’indietro, lasciai scorrere nella gola un generoso sorso di liquido giallastro e amarognolo, che mi solleticò il palato. Il mio primo sorso della mia prima lattina di Finkbrau, di quelli che sarebbero stati innumerevoli sorsi di innumerevoli lattine di squisitissima birraccia, che io e Fausto avremmo bevuto insieme.
Mancavano esattamente 382 giorni al nostro arresto da parte dei Tutori della Serenità, ma quella notte non avremmo potuto neanche programmarlo nei nostri incubi più oscuri.
«Dammi il pacchetto» ordinò Fausto, alzandosi e dirigendosi verso la cucina con la sua lattina in mano, che svuotò in un ultimo lungo sorso, per poi accartocciarla tra le dita e liberarsene con un canestro nel lavandino. Tornò con altre due lattine e delle patatine nel sacchetto che cominciò a sgranocchiare, tuffandoci le dita dentro, incurante delle norme basilari di igiene ed educazione. Pensai che bere le bevande in voga negli anni Venti lo avesse reso nostalgico. Non potevo spiegarmi altrimenti quella forma puerile di ribellione alla legge sulla sicurezza batteriologica che, in effetti, era sconosciuta nell’epoca pre-pandemica in cui Fausto doveva essere stato adolescente. Aprii lo zaino e sfilai quel pacchetto avvolto in carta color tabacco, che lui mi strappò bruscamente dalle mani per scartarlo come un selvaggio, come se ignorasse i corretti passaggi dell’arte dello spacchettamento dei prodotti, che tanti savi avevano reso dogma. La volgare, frettolosa e disordinata lacerazione dell’involucro aprì uno spiraglio su qualcosa che lo fece sorridere. «Non ci credo! Questo mi mancava» disse euforico, fiondandosi verso un mobile di metallo color canna di fucile che custodiva un giradischi. Mi risultò bizzarro che lo nascondesse dietro a delle antine e che non ne facesse sfoggio come ci si aspetterebbe da ogni amatore della musica di statistica! Persino io ne avevo uno esposto nella mia stanza affittata, tra un vecchio mangianastri e la mia collezione di vinili mai ascoltati e sigillati ermeticamente.
Ognuno di quegli album, che avevo fotografato e condiviso a favore della mia comunità elettrica di fedeli, mi aveva garantito un avanzamento nella gerarchia di ascolto della piattaforma musicale della Woland Corporation. La mia collezione di dischi e i relativi video di spacchettamento in cui mostravo il contenuto, per poi apporre nuovamente il sigillo in ceralacca, non passò inosservata alla Woland Corporation con cui, ben presto, iniziai una relazione lavorativa come assistente di Fausto. Alcuni colleghi dissero che era stato lui a segnalarmi e a volermi con sé, ma il suo essere così rude, imprevedibile e irriverente nei miei confronti non mi fece mai sposare quella teoria, eppure quel giorno mi aveva cercato – ancora – e voluta per quel lavoro così importante!
E così mi ero ritrovata da sola a casa sua, nella sua camera da letto, davanti a ciò che poteva essere considerato disdicevole agli occhi di chiunque, ma che aveva deciso di mostrarmi. Fausto, aprendo le antine di quel mobile color canna di fucile, mise in luce un caos di copertine scolorite e logore, musicassette dalla confezione di plastica ingiallita e addirittura dei dischi compatti d’argento ammassati uno sopra l’altro. Quell’uomo nascondeva diverse stranezze e atteggiamenti fuori statistica, non c’era più alcun dubbio in merito – come bere la birra e ascoltare per davvero la musica su supporti fisici – e così fece, cercando i miei occhi e con un sorriso che non era però una smorfia, appoggiò quel piccolo disco in vinile grande come un piatto da dessert, sul giradischi. Dalle casse dello stereo partì un sibilo di una chitarra distorta in lontananza ed il riff di una motosega sempre più vicino e minaccioso, l’eco di un urlo soffocato e poi il frangersi di onde contro la roccia e l’acciaio, per tre volte, e poi il ringhio di una voce maschile sull’orlo del precipizio ed io che mi sentì con le spalle al muro. Quello… quell’istante e quella voce. Quello fu il momento in cui capii di essere spacciata. Seguirono diversi minuti di silenzio e stordimento. Mi attaccai alla lattina di birra che mi dissetò come nessuna bevanda aveva mai fatto prima.
«Di nuovo» chiesi, e Fausto spostò il braccino del giradischi per riporre la puntina sui solchi più estremi del vinile. Quando finimmo di ascoltare l’EP ero ormai sbronza e così Fausto. Il sole stava tramontando e noi non avevamo lavorato a neanche una diapositiva da presentare il giorno successivo. Ci eravamo a malapena parlati. Non avevamo fatto altro che bere birre e ascoltare a ripetizione ogni singola traccia del disco, con gli occhi fissi sull’astuccio di cartone logoro che lo custodiva.
Dal nero dello sfondo si stagliava una luce che, come raggi di luna, esplodevano da una crepa della notte. Una luna maledetta che ha il volto della morte e gli artigli di un rapace, pronto a dilaniare un cuore. Il mio cuore, ormai lo sapevo. Studiai per momenti interminabili anche il retro dell’album in cui la morte, dai lunghi capelli spettrali, stende un sudario su cui vengono svelati i titoli delle sei tracce che stavamo ascoltando da ore e ore. E quelle foto così fuori dal tempo e dalle statistiche e i loro nomi: Giammario, Fabio, Zambo e Daniele. Chi erano questi uomini? Avrei voluto chiederlo a Fausto che sembrava conoscere tutte quelle parole urlate impunemente e che sembrava sul punto di piangere. Per la prima volta lo vidi così fragile, autentico e fiero.
Conoscevo la fragilità di chi, per il troppo lavoro o perché ebbro, fa emergere le proprie emozioni, così come conoscevo la fierezza di chi non permette al proprio sentire di indebolirlo. Ma non avevo mai visto queste due dimensioni dell’aspetto più animale, dell’essere umano, convivere. Io, che mi truccavo per nascondere i segni della stanchezza, cintura nera di autodifesa emozionale, fedele al buon senso e all’analisi dei bisogni indotti, perché non esistono bisogni all’infuori di quelli che non sappiamo di avere, ma che sappiamo di poter soddisfare; tra i corridoi e gli uffici della Woland Corporation, tra le vie delle città costruite a misura d’azienda, nei negozi temporanei in cui vendono kit identitari dalle mille opzioni, nessuno mi vieta di essere stanca o fragile, ma è considerato inopportuno e teneramente sconsigliato. Così come la gioia violenta e la devastante tristezza sono state sconfitte, poiché facce differenti della stessa moneta, che ora tintinna nel fondo del barattolo delle mance di chi ci offre soluzioni usa&getta.
Fausto mi guardò, come rapito da una forma di eros e mi confessò: «Io ne ho molti altri! Ho rubato un’intera scatola oggi, se vuoi li ascoltiamo insieme» mi tentò ed io gliene fui grata. Ubriaca. Elettrificata.
Giunse l’alba e noi non avevamo lavorato un solo istante. Avevamo finito anche per fare sesso, dimenticandoci di registrarlo sulla piattaforma di incontri sessuali e, vedendolo nudo, scoprii trai suoi bei tatuaggi visibili in maniche di camicia, altri segni indelebili di inchiostro che non avrei potuto vedere se non andandoci a letto insieme. Sulla sua spalla una A cerchiata sembrava incisa sull’osso parietale di un teschio con la cresta. Sul suo petto un pugnale fendeva la carne all’altezza del cuore.
Sul manico della lama c’era scritto “Guenda, 6 aprile 1998 – 31 dicembre 2023”
14 Giugno 2040, in strada verso il Bauwagenplatz di Strasburgo.
Mi sono svegliata, con la testa di Fausto appoggiata tra la mia spalla destra e la tetta. Quest’uomo che ha l’età per essermi genitore, dorme avvinghiato a me, senza smettere mai di stringermi in un forte abbraccio disperato. Come sull’orlo di un precipizio. Le mie gambe oltrepassano in diagonale il suo corpo rannicchiato contro il mio.
Qui, nei boschi sul fianco dei monti, le notti estive sono gelide e abbiamo avuto freddo. Abbiamo studiato ogni incastro di braccia, torso, gambe e guance per dormire, facendo aderire la maggiore superficie possibile dei nostri due corpi. Cambiando e stravolgendo ogni possibile innesto, ogni qual volta il sangue che faticava a scorrere nelle nostre vene, lo esigeva trasformando il suo bisogno in un nostro fastidio.
Fausto si è svegliato pochi istanti dopo, con un sorriso, bestemmiando.
«Mi fa male ogni cosa, ogni singolo muscolo del mio corpo» ha grugnito, stiracchiandosi nel poco spazio concesso dalla piccola mansarda, posizionata sopra la cabina di guida del camper in movimento.
Fausto mi ha baciato sulla fronte e dopo essersi messo le mani a conchetta davanti alla bocca, espirato e inspirato ciò che avevano trattenuto, ha fatto una brutta smorfia che si è trasformata in un sorriso da bambino.
«Merda… mi sembra di aver mangiato un ratto» ha borbottato.
«Non mi sembra ci fosse stata carne di ratto nei panini di ieri» ho obiettato.
Fausto ha schiuso le labbra per dire qualcosa, ma le parole gli si sono congelate prima di abbandonare quella lingua ispessita dal sonno e dai postumi. Ci ha riprovato, con maggiore determinazione, ma niente… Mi ha stretto in un abbraccio, mi ha baciato di nuovo la fronte – DeeDee, DeeDee… povera piccola – ha detto, scavalcandomi e saltando giù dalla mansarda, per atterrare nel corridoio del camper con un “oplà”.
«Non ci avete svegliati» ha protestato, borbottando, rivolgendosi a Giulio, al volante, e a Monica con una vetusta cartina stradale cartacea spiegata sul cruscotto davanti al sedile del passeggero.
«Eravate maledettamente carini» si è giustificata la seconda, girando il busto all’indietro e allungando un braccio, in cerca di un bacio da parte di Fausto, che l’ha accontentata, abbracciandola di sbieco.
«Buongiorno anche a te» lo ha salutato Giulio, che si è girato al tocco della mano di fausto sulla sua spalla, lasciando la presa del volante per rispondere con un pat pat sul dorso della mano di fausto.
«Buongiorno a te» ha risposto, accennando un inchino grottesco. Dopo alcuni istanti di silenzio, gli occhi di Fausto hanno incrociato quelli di Monica, Monica ha scambiato uno sguardo con Giulio, i due uomini si sono guardati ancora e sono scoppiati, tutti e tre, a ridere.
«Cosa cazzo è successo ieri sera?» ha chiesto Giulio, squassato dalle risate e con le lacrime agli occhi che faticava a domare lo sterzo del camper in corsa.
«Io non me lo so spiegare» ha risposto Monica, in affanno, per ritrovare tutta quell’aria che il ridere aveva sottratto dai suoi polmoni.
«Io… io, boh… non ho parole» replicò Fausto.
I tre infine si sono girati verso di me che nel frattempo ho raggiunto, abbandonando quel nido caldo e dall’aria viziata, in cui ho lottato contro il freddo e la scomodità con la complicità di Fausto.
Muti, mi hanno osservato, sorridendo. Nei loro occhi c’era qualcosa che io non conoscevo. Ed è stata Monica a infrangere il silenzio.
«Chiunque tu sia, dea furiosa che ti sei impadronita di questo corpo, non fare del male alla brava ragazza che ti ospita» ha detto, sollevando le mani e giungendole in preghiera davanti alla fronte, china verso di me.
Mi sono voltata, pensando si stesse rivolgendo a qualcuno alle mie spalle, ma no, non c’era nessuno a parte Siouxsie la Gallina che, appollaiata nel lavandino del bagno, cercava di fare un uovo tra starnazzi e improperi strazianti.
«Monica sono io, Dorotea, ed è da decenni che è stata provata l’inesistenza di divinità ultraterrene od eventuali possessioni ad essi riconducibili» ho fatto notare, sorpresa del fatto che Monica, per quanto possa essere considerata oggettivamente “originale” e fuori statistica, non mi sembra quel tipo di donna che possa credere nell’esistenza di dio. Davvero esiste ancora qualcuno che sente il bisogno di avere un’anima da salvare, nutrire e proteggere da un male che trascende il nostro controllo?
Fausto ha sbuffato, o forse era un sospiro, Monica ha alzato gli occhi al cielo e Giulio ha scosso la testa in segno di sconforto e diniego.
«Monica, perdonala, è una causa persa, ma ci sto lavorando – ha detto Fausto, passandomi un braccio attorno al collo – questa ragazza non sa cosa sia l’ironia e di tutte le lordure e le porcate fatte nel nome del Buonsenso, questa, è la più subdola delle ingiustizie» ha sentenziato, diventando cupo.
«Non saprà cosa sia l’ironia ma, capperi, sa come stare su un palco!» ha detto Monica.
«Perché state parlando di me come se non fossi presente? Anche questa è una forma di ironia?» ho chiesto ma poi, all’improvviso, ho ricordato e tutto mi è stato chiaro.
I lividi sugli stinchi, i capelli appiccicosi di birra, i graffi sulle braccia. Il taglio sul labbro superiore, la cui tenera carne ha eroicamente protetto, sacrificandosi, i miei incisivi dall’urto con il microfono stretto in un pugno che mi si è rivoltato contro. È stata una lucida follia. Una psicosi collettiva ed una suggestione corale. Da quando Fausto ha battuto quattro con le bacchette a quando Giulio ha lasciato vibrare le corde dell’ultimo accordo…
Qualcosa deve avermi posseduto per davvero.
Sono già stata ad un concerto, è ovvio… ho sempre amato la musica, ma l’intrattenimento e lo spettacolo nelle grandi arene, costruite e gestite dalla Woland Corporation, non ha nulla a che fare con quello che ho vissuto questa notte.
I concerti del 2040 avvengono in piccole città-fortezza, che ricordano l’urbanistica di certi borghi medievali e quel complesso sistema di mura e portali di accesso tra un settore e l’altro. Una volta varcato il grande portone centrale, il percorso recintato si apre su una grande area in cui è possibile convertire i propri crediti, in gettoni utili solo dentro quelle mura. Fuori da lì, quei gettoni, non hanno alcun valore mentre all’interno sono essenziali per acquistare i beni esposti – i cui i prezzi sono espressi in cifre esadecimali – nei diversi presidi delle aziende sostenitrici dell’artista.
I gettoni servono anche per poter scattare foto e condividerle sui propri diari digitali, mangiare, bere o usufruire delle toilettes.
Oltre la piazza centrale, superate le seconda mura, ecco che si arriva nel cuore dell’arena dove si svolgerà il concerto che è così organizzato: al centro di una dozzina di cerchi concentrici, si erge il palco diviso in un numero variabile di spicchi. I settori vengono popolati in base ai dati di ascolto della piattaforma di musica digitale Woland. Maggiore è il tuo punteggio all’interno della piattaforma (numero di fedeli della comunità elettronica, frequenza delle interazioni, acquisto di accessori e dispositivi a tema o pacchetti extra, fedeltà alla linea e allo stile dettati dal genere musicale, per esempio) maggiore è la possibilità che la scaletta dell’esibizione sia fedele alle tue abitudini di ascolto e, il posto che ti spetta di conseguenza, è all’interno dei settori più prossimi al palco con accesso esclusivo e quindi minore possibilità di entrare in contatto con altri utenti di classi inferiori. Chi può sedere in prima fila, insomma, ha la certezza di assistere ad uno spettacolo che soddisfa appieno le proprie aspettative. Mano a mano che si arretra, invece, i settori sono sempre più popolosi e raggruppano persone che non hanno espresso le stesse preferenze in quanto alle canzoni che avrebbero voluto sentire e in quale ordine.
E così la musica, distribuita per settori attraverso diversi canali radio e impulsi nervosi captabili dai dispositivi occhio-orecchio, raggiunge ogni singolo abbonato che ha pagato il biglietto per varcare la soglia di una delle grandi arene della musica dal vivo della Woland Corporation.
Ballerini e attori, distribuiti strategicamente attorno al totem a led che si erge al centro del palco, accentuano i 100 BPM standard (che le analisi sostengono sia il tempo ideale – e quindi l’unico possibile – per le esibizioni dal vivo) con coreografie frenetiche, cambi d’abito e spettacoli pirotecnici.
Ai musicisti sotto contratto della Woland spetta solo il compito di registrare la musica, che viene generata dagli algoritmi determinativi, per poi perdere qualsiasi diritto di reinterpretazione anche in occasione di feste private, esibizioni amatoriali o diletto personale.
Un musicista può suonare la musica che ha inciso, per cui è stato retribuito e per cui è conosciuto dalla sua comunità elettronica, solo a patto che non commetta errori. Una cattiva interpretazione rappresenta un vero e proprio atto di vilipendio nei confronti della Woland Corporation, poiché costituisce un danno alla sua immagine.
Ed è stato così che abbiamo messo fine alle proteste dei musicisti: ad ogni artista che commette un errore durante un’esibizione dal vivo o ha atteggiamenti, frequentazioni od opinioni che si discostano dal dogma e dal canone Woland, vengono decurtati alcuni crediti (anche noti come “Punti Autorevolezza”) ed è obbligato al pagamento di severe sanzioni.
Ogni passo falso costa crediti, credibilità e l’abbandono dei propri fedeli, poiché i Punti Autorevolezza fanno la differenza tra un artista credibile e capace di influenzare i consumi e le opinioni, da un artista che non promette alcun tipo di ricompensa sociale o passepartout per le élite della propria comunità elettronica.
Ci sono artisti che è bene ascoltare, leggere, indossare, esibire e seguire ed altri che piacciono solo ai perdenti. E nessuno vuole essere un perdente. Non lo volevamo prima del Grande Rogo Civile del ‘25 e non lo vogliamo adesso, in questi anni in cui il fallimento personale è calcolabile e misurabile con criteri scientifici. Desideriamo tutti piacere agli altri e ora abbiamo la possibilità di conoscere e dimostrare il nostro valore attraverso una valutazione imparziale, oggettiva e libera dagli inganni della percezione che abbiamo di noi stessi.
Quando la Woland Corporation ha proposto di fare a meno dei musicisti durante i concerti, e di preferire delle registrazioni coreografate, nessun artista aveva ormai più voglia di protestare.
Il relatore sul palco dell’auditorium era molto noto tra i corridoi della Woland Corporation poiché aveva isolato il grappolo di utenti che, seppur ascoltassero molta musica, rifiutavano di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma digitale Woland. Lo sciame identificato era restio ad abbandonare un preistorico portale, in cui chiunque poteva caricare registrazioni audio e video amatoriali low-fi. Video storti di canzoni mal arrangiate che facevano gracchiare il dispositivo di ricezione audio, interpretate da gente fuori statistica che si dimenava su palchetti improvvisati, in mezzo allo sporco, al sudore e ad un’euforia che non poteva essere misurata. Si faceva persino fatica a distinguere gli strumenti, così come era pressoché impossibile distinguere il pubblico dal gruppo che cercava di suonare, respingendo e accogliendo come in una danza, quel ribollire di lava umana e lapilli incandescenti di spruzzi di birra lanciata per aria.
Ci si chiedeva cosa spingesse queste persone a un tale comportamento irrazionale. E lui aveva scorporato, destrutturato e ricostruito pezzo per pezzo ogni passaggio che portava al cosiddetto “abbandono del carrello”, ma nessuno dei dogmi dell’ingegneria inversa riuscì a spiegarlo.
«L’esperienza dell’utente che atterra sulla piattaforma è piacevole e senza ostacoli, i punti di contatto col potenziale utente hanno le giuste parole chiave ed sono ben piazzati, l’imbuto commerciale lubrificato a dovere eppure… eppure non siamo riusciti a sfondare le resistenze di questo blocco di utenti, identificati come ascoltatori di musica. Milioni di canzoni su richiesta, elenchi di riproduzione mutanti a seconda dello storico di navigazione e dell’umore dell’utente, artisti con trilioni di visualizzazioni la cui musica rispetta tutti i parametri richiesti dagli analisti e una qualità del suono cristallina, ma no… nessun abbonamento e accordo siglato che ci permetta di accedere ai loro impulsi neuronali, in cambio della garanzia di non dover scegliere cosa ascoltare e non doversi interrogare sui propri gusti musicali. Perché la piattaforma di musica digitale della Woland Corporation sceglie per te. E anticipa ogni tuo desiderio, interruzioni pubblicitarie comprese. Ma allora perché? Perché un grappolo di individui continua ad ascoltare quel rumore e guardare quei video bui e malfermi? Perché, alla perfezione calcolata della piattaforma, perseverano a farsi carico di dover scegliere e, infine, scelgono questa merda?» disse il relatore. Concludendo, ad arte, il suo intervento con una parolaccia, perché così gli aveva suggerito l’algoritmo per rendersi più informale, affabile e performante.
Il nostro compito era capire ciò che nemmeno l’algoritmo aveva compreso, elaborare una tesi, impacchettarla a dovere e presentarla il giorno successivo. Il relatore ripose sul tavolo che lo divideva dal resto dell’auditorium, alcuni pacchetti avvolti in carta color tabacco.
«Quasi tutta la musica che il nostro target preferisce alla piattaforma Woland è stata prodotta nei quarant’anni che vanno dagli anni Ottanta del XX secolo e gli anni Venti del XXI. Anno in cui, a causa di una pandemia mondiale e del Grande Rogo Civile, sono stati interrotti e interdetti quegli spettacoli in cui la musica veniva suonata, in diretta, dagli stessi musicisti e in presenza di un pubblico reale. Il materiale che troverete ci è stato prestato dai Tutori della Serenità – che ai tempi si chiamava Esercito – ed è frutto dei sequestri e delle perquisizioni avvenute tra il 2020 e il 2025, quando ancora, gruppi clandestini si trovavano qua e là ad organizzare concerti illegali. Potete scegliere se procedere da soli o in squadra. Buon lavoro! La felicità se non è misurabile, non è» concluse il relatore, con il consueto segno di congedo.
Mi guardai attorno. Non conoscevo nessuno, o meglio, li conoscevo ma non avevo mai parlato davvero con nessuno dei presenti. Erano appartenuti tutti, fino a pochi giorni prima, ad una classe lavorativa superiore alla mia. Sentii una mano sulla mia spalla – chi poteva essere così stupido da stabilire un contatto fisico non consensuale sul luogo di lavoro? – mi girai di scatto e rimasi interdetta nel riconoscere Fausto, il mio superiore in grado. «Per questo lavoro faremo squadra insieme» mi disse con una voce che non era la sua.
Qualcosa non tornava. Fausto, il signor cronometro digitale a cui bisogna inserire nell’agenda elettronica anche l’invito a bere un caffè alle macchinette, mi stava chiedendo di fare squadra con lui e lo stava facendo in modo assai bislacco. I suoi occhi erano fissi dentro i miei, l’espressione era quella di chi cerca di mettere a fuoco qualcosa che gli risulta familiare, la voce era di qualche tono più alta del solito, quasi strozzata, come se fosse in affanno nell’emettere quei suoni. Pronunciare quelle parole gli costava tutta la fatica che grava, di solito, sulla gola di chi sa che potrebbe ricevere un rifiuto. Sebbene l’intonazione non fosse quella di una domanda, perché a me pareva tale? Il mio capo mi stava forse chiedendo di poter lavorare insieme? E prendeva in considerazione il fatto che io avessi il diritto di non obbedire? Bizzarro! Un comportamento piuttosto atipico per quell’uomo preciso e fedele alla gerarchia, che non mi aveva mai sfiorato neanche con lo sguardo. E quella mano sulla spalla, poi! «Certo – risposi – coinvolgiamo anche qualcuno del reparto Ingegneria Inversa?» chiesi. «No, solo io e te» rispose, dopo quell’attimo di esitazione, come lo stronzo che conoscevo bene. «Hai fatto un lavoro apprezzabile con quel tuo studio sul ritorno delle passioni, per quanto le argomentazioni risultino a tratti elementari e didascaliche. Ma per questo lavoro dobbiamo partire da alcune delle tue intuizioni che, devo ammettere, sono state davvero brillanti. Piccole scintille che non voglio vedere spente da quelle teste analitiche del reparto di Ingegneria Inversa. A furia di destrutturare ogni cosa, hanno perso persino la capacità di farsi un panino» gorgogliò in un unico borbottio senza prendere fiato, concludendo con una volgare risata. «In verità credo di averli visti qualche volta mangiare dei sandwich in pausa pranzo» obiettai, ma lui non mi stava più ascoltando. «Proseguiremo il lavoro a casa mia. Sai dove abito? – mi chiese senza attendere la risposta – Recupera l’indirizzo e cerca di essere lì tra massimo un’ora» concluse. Si girò sulle suole di quelle scarpe che valevano tanti crediti quanto due dei miei stipendi, e prese la via da cui era arrivato e che io ignoravo. Non avevo la più pallida idea di dove potesse abitare quell’uomo? Aveva una vita fuori dalle mura del Grande Palazzo? Recuperai il plico di materiale confiscato assegnatomi e mi avviai verso l’Ufficio Accoglienza, dove avrei potuto chiedere l’indirizzo di casa di Fausto.
Il viaggio verso il piano terra del Grande Palazzo non fu vano: il mio nuovo grado all’interno della gerarchia della Woland mi permetteva di ottenere alcune informazioni personali sugli altri dipendenti. L’accesso ai dati sensibili di chi ci circonda è un privilegio accordato a chi, come me, aveva un titolo lavorativo composto da almeno quattro parole sintetizzate in un acronimo. Io ero passata da essere un A.C. (Analista Calcolatrice, due sole parole) ad essere una Fedele Osservatrice e Analista Demoscopica – ben quattro parole – riassunte altrimenti (e per comodità) nel termine F.O.A.D. Soltanto gli A.A. (Addetti Accoglienza), nonostante le sole due lettere del titolo lavorativo, avevano accesso ai dati sensibili di chi, invece, aveva quattro o più parole a descrivere la propria mansione e posizione gerarchica all’interno della Woland Corporation. Tra le loro mansioni, dopotutto, vi era anche quella di chiamare taxi e concordare il costo in crediti per la tratta verso casa o prendere le telefonate di mogli e mariti, ritirare la corrispondenza e la domiciliazione dei beni di prima necessità, ricordare gli appuntamenti con medici e partner sessuali ecc. ecc.
Un dirigente della Woland Corporation aveva proposto di sostituire gli A.A. con degli automi per digitalizzare la loro funzione, ma presto scoprimmo che questa tecnologia aveva un grande difetto: gli automi non sono in grado di mentire e, un buon ed efficiente A.A., deve padroneggiare l’arte della menzogna ogni qual volta un dipendente della Woland viene esonerato dall’attività lavorativa, cancellato dagli archivi anagrafici e amministrativi, eliminato da tutte le foto che lo collegano all’azienda (o ai suoi dipendenti) e a cui viene inibita la facoltà di mettersi in contatto con gli ex-colleghi rimasti fedeli alla Woland Corporation. Non siamo ancora riusciti a trasmettere, alle intelligenze artificiali, la capacità di annichilire psicologicamente un individuo. O meglio, l’effetto di annichilimento si è rivelato molto più significativo e impattante quando sono delle persone reali, in questo caso gli A.A., che fino al giorno prima si occupavano silenziosamente, con dedizione e premura alle esigenze altrui, a disconoscere, ignorare e umiliare dipingendo con della vernice spray nera i colori gerarchici della divisa di chi è stato licenziato o, peggio ancora, ha deciso deliberatamente di abbandonare l’azienda.
Nel 2040 nessuno si veste di nero, perché il nero è il colore degli inadatti e di chi non ha un posto all’interno di una gerarchia aziendale. Il nero è il colore di un monitor spento.
La decisione di affidarsi ancora all’emotività delle persone, in questo caso la spettrale indifferenza degli A.A. e la condanna all’umiliazione e al confino degli annichiliti che non si sono adeguati o hanno tradito la fiducia aziendale, è forse uno degli ultimi lasciti dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della Dittatura delle passioni. Istanza accettata, perfezionata e canonizzata in quanto si è rivelata essere la via più efficace per il benessere, la motivazione e l’appagamento di chi rimane e non sfida la gerarchia. Agli A.A., l’ultima ruota del grande carro a cui faceva capo Michail “Huxley” Woland, veniva insomma delegata quella brutta rogna, quel lavoro sporco, del disprezzo.
I veri leader non hanno bisogno di disprezzare chi non si è mostrato all’altezza delle loro aspettative, perché lasciano che siano le fauci dei propri cani a ringhiare e deridere chi non accetta, sfida o abbandona il sistema.
Era capitato anche a me.
Avevo dovuto annichilire un partner con cui stavo valutando l’ipotesi di stipulare un contratto matrimoniale. La nostra proiezione statistica di compatibilità era discreta, ma ambivo ad elevare la mia classe sociale, in cambio di sesso, compagnia e tenerezza, buttandomi definitivamente alle spalle anche l’ultimo lascito della mia condizione di nascita ed ennesimo fardello ereditato dalla mia coppia genitrice,. Dopotutto le uniche due motivazioni per giustificare la monogamia, secondo Woland, erano appunto un’assoluta compatibilità circa i gusti e i disgusti alimentari, sessuali e ludici oppure un contratto bilaterale economico tra membri di diverse classi sociali.
Una volta annichilito il mio partner, colpevole di aver rifiutato una promozione che avrebbe esautorato il suo superiore non più gradito alla Woland, mi ritrovai punto e da capo a cercare possibili candidati per una notte di sesso o per la vita, sulla piattaforma di incontri gestita direttamente dalla Woland Corporation.
Ricordo che una volta l’algoritmo mi propose persino Fausto ma, ai tempi, non l’avevo reputata una scelta dettata dal buonsenso e in ogni caso, nonostante fossi a conoscenza del suo successo sulle piattaforme di incontri sessuali, io non mi sentivo attratta da quell’uomo. L’attrazione sessuale, in quanto istinto condiviso in tutto il regno animale e spiegabile attraverso l’etologia e la chimica, rappresenta a tutti gli effetti una variabile nel calcolo per la determinazione della compatibilità tra due individui ed il mio istinto trovava Fausto repellente. Quella tonda gonfia faccia gioconda amplificata da un sorriso che di raro mancava sulla sua bocca. Un sorriso così osceno, da avergli deformato persino quel mento collassato in una profonda fossetta centrale. Alcune rughe marcavano i suoi occhi fino ad incontrare due grosse basette pelose, ormai più grigie che nere, che gli incorniciavano il viso. Il suo non era un volto, ma un manifesto alla derisione e all’irriverenza. E poi faceva sempre quella cosa strana… di dire il contrario di ciò che pensava. Ogni tanto diceva che si moriva di caldo, ma eravamo nel pieno dell’inverno o dava del genio ad un collega che aveva espresso un concetto particolarmente banale. Diceva che era “ironia” e quanto lo trovava divertente! Rumorose risate! E ridere, diamine, mi risultava così volgare. Nel resto del tempo? Fausto riusciva a essere finto persino in una società in cui non era più necessario fingere di essere felici.
But she couldn’t stay, She had to break away. Sheena is a punk rocker, RAMONES
Era primavera ed io fui convocata alla mia prima Officina di Lavoro riservata ai dirigenti. Ero stata trasferita dal secondo al terzo piano del Grande Palazzo, grazie all’individuazione dello schema alla base di questo redivivo bisogno di passione, che mi aveva fatto ottenere una promozione. Venni accolta nell’auditorium, secondo il regolamento aziendale, con un video messaggio – sempre lo stesso – di Michail “Huxley” Woland in persona che recitava il nostro credo.
Non esistono macchine senza acciaio o drammi senza instabilità sociale. Ho scelto la serenità di ottenere ciò che voglio e non desiderare ciò che non posso ottenere.Io sto bene. Sono al sicuro. Ignoro la malattia e non temo la morte, perché diserto la vecchiaia di quel padre e quella madre che ingombrano la mia mente. Non ho figli da proteggere, amanti da sedurre o amori da conquistare, perché ho rinunciato alla violenza delle emozioni e alla fragilità della carne. Scelgo la felicità misurabile ed effettiva a discapito della lotta contro la sfortuna, le tentazioni, i dubbi e le passioni. Non ho bisogno di eroismo o di salvezza, perché non esistono vittime e martiri in assenza di carnefici e non esistono carnefici se non ci è concessa la vulnerabilità. Non cerco l’avventura perché non accolgo l’imprevedibile. Ho scelto l’armonia degli ingranaggi, la poesia della programmazione e la grazia dell’infallibilità del calcolo. Ho scelto di non scegliere e vivere nella beatitudine che non è mai maestosa o spettacolare. La felicità non è mai grandiosa.
«La felicità se non è misurabile, non è! La felicità se non è misurabile, non è!» cantilenarono tutti in coro e io li seguii, sfiorando con la punta delle dita il mio nuovo dispositivo occhio-orecchio di nano-chips, acciaio chirurgico, silicone e rame e stirando qualche piega della mia nuova divisa color smeraldo, riservata ai collaboratori del terzo piano del Grande Palazzo.
Di fronte alla mia seduta era stata lasciata una copia serigrafata di “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley, riscritta da Michail Woland, nella sua edizione speciale per l’anniversario della fondazione della Woland Corporation. Un dono per il mio passaggio di livello alla classe superiore all’interno dell’organizzazione aziendale.
La sfogliai ripercorrendo quella storia che già conoscevo.
Il lento e inarrestabile processo di disumanizzazione, di rinuncia all’empatia e di accettazione della logica e del buonsenso, come unica forma di sopravvivenza e pace sociale, trovò il suo dogma tra le pagine del romanzo di Huxley, i cui diritti vennero acquisiti dalla più grande azienda della Federazione Post-Europea, la Woland Corporation, appunto.
Con le economie dell’antica Russia e l’antica Cina riunite, grazie alla fusione delle più importanti aziende nazionali (nanotecnologia cinese e fabbrica del consenso sovietica), Michail Woland – l’amministratore delegato dell’omonima corporazione – è l’uomo più potente del Nord del Mondo, in grado di controllare l’industria tecnologica, farmaceutica e logistica, il mercato dell’intrattenimento, dello spettacolo e della cultura. Qual è l’origine della sua fortuna? Essere riuscito a conquistare il monopolio dei dati e della loro elaborazione.
Fu la direttrice della Divisione di Commercializzazione che, dopo aver sorpreso una sua sottoposta leggere quel libro in pausa pranzo – violando il regolamento interno che vietava i passatempi solitari e sfidando l’etichetta sociale che sconsigliava la lettura di romanzi – incuriosita dal volume sequestrato, lo sfogliò e ne scoprì il potenziale.
Organizzò un gruppo di lavoro a cui commissionò una scheda ed un’analisi approfondita del testo, che passò alla Divisione di Gestione delle Crisi la quale, a sua volta, ne fece derivare alcuni algoritmi applicabili ai fenomeni sociali contemporanei. Ne emerse che la fantascienza distopica negli Anni Settanta era in realtà un ottimo modello sociale replicabile ed esportabile, sia nel Nord ché nel Sud del Mondo. Vi era persino un caso storico, riportato nella diapositiva n°1984, in cui si faceva riferimento ad un altro romanzo di fantascienza elevato a testo sacro da una setta chiamata Scientology.
E così Michail Woland divenne Michail “Huxley” Woland, di sua spontanea iniziativa ed intuizione, galvanizzato dall’idea di vedere il proprio nome stampato sulla nuova Bibbia, il nuovo Corano o il Mussar della modernità. La direttrice della Divisione di Commercializzazione la reputò una scelta molto saggia e, nell’arco di un semestre, una nuova versione di “Il Nuovo Mondo” era sul comodino, nelle biblioteche aziendali e nelle sale d’attesa di buona parte del Nord del mondo.
«La felicità se non è misurabile, non è» si dicevano l’un l’altro, scambiandosi il formale segno di pace previsto alla conclusione del credo. Il segno non prevedeva alcun contatto fisico ma i due interlocutori, voltandosi faccia a faccia, chiudevano pollice e indice della mano sinistra incorniciando l’occhio con uno zero, mentre alzavano l’indice della mano destra verso il cielo ad imitare il numero 1. Zero e uno, zero e uno, dopo zero e uno, venne il mio turno e così risposi al segno di pace all’uomo che stava alla mia sinistra, e lo replicai voltandomi verso la donna che stava alla mia destra, ripetendo: «La felicità se non è misurabile, non è» unendomi a quel brusìo che riempiva l’aria aromatizzata alla menta piperita dell’auditorium. Ma, nel pronunciare quelle parole che tante volte avevo ripetuto nell’arco della mia vita, suonarono diverse. Suonarono come sbagliate e producevano un suono sgradevole. E allora le sillabai di nuovo nella mia mente, ancora e ancora. Ed era come masticare stoffa al posto della succosa pesca che credevo di aver addentato.
Ma perché? Il punto è che non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto – concreto e tangibile – che i dati da me raccolti ed elaborati raccontavano qualcosa di diverso circa l’idea di felicità. Ma come potevo mettere in discussione l’intero apparato su cui si reggeva la nostra società e il nostro benessere? Chi ero io per oppormi o criticare ciò che andava bene agli altri. Gli altri…
Mi guardai attorno e la sensazione fu quella di non essere più parte, di non appartenere, a ciò che mi circondava. E no, non era colpa di essere stata promossa da poco ed essere magari l’ultima arrivata. Questa mia condizione, semmai, mi aveva portato soltanto a non dare per scontata ogni cosa. Ad osservare le circostanze con un occhio nuovo e non assuefatto alla norma, come quando si legge la prima pagina di un trattato di una scienza ignota e ogni cosa è aliena e la mente è carica di elettrostaticità, eccitata e pronta a balenare di scosse e scintille al minimo contatto o attrito.
Ero sconnessa, scollegata, dalle persone che mi circondavano ma, soprattutto, in quel momento mi resi conto di non credere alle parole dell’uomo più potente del mondo. Questa nuova consapevolezza si convertì in un brivido lungo tutto il corpo, per poi passare e lasciarmi spaesata, con un sorriso sulle labbra, potente e confusa, ma presente per davvero, in quel qui e ora in opposizione all’esistente, che aveva un nome ed era il mio.
Mi chiamo Dorotea Disastro e prima di allora non sapevo cosa fosse il punk.
12 giugno 2040 – Linea Cadorna, Monte Orsa. Distretto montano della Valceresio.
Il nostro tour è partito dalla provincia.
Non ricordavo più cosa volesse dire vivere sconnessa dal mio dispositivo occhio-orecchio. L’avanguardia della tecnologia, della modifica del corpo e il design di innesti magnetici microdermali che nascono dietro al padiglione auricolare, brillano di luce pulsante sulla tempia e strisciano sotto il sopracciglio per agganciarsi ad un gioiello di acciaio chirurgico a ponte, nella parte alta del naso, tra i due bulbi oculari.
Da quando ho disarticolato il mio dispositivo dal servitore della rete della Woland Corporation, devo essere io a capire, per esempio, se ho voglia di patatine fritte e dove posso trovare la friggitoria più vicina e più quotata dalla comunità elettrica.
Devo essere io a bere quando ho sete e ricordarmi di farlo.
Non ho il conforto di un immediato riscontro in merito a ciò che indosso o ascolto o frequento. Né di ciò che penso. Dobbiamo essere noi a scegliere, a prendere le nostre decisioni.
E infatti ci siamo persi.
Siamo finiti in mezzo ad un bosco e lasciato il camper a lato della strada, per evitare una fusione del radiatore surriscaldato dalle fatiche della salita impervia e degli imperturbabili tornanti, le curve a gomito e a zig-zag, indifferenti alla sofferenza del vecchio camper di Monica.
Abbandonata la pianura piastrellata della grande metropoli di Milano, non c’è rettilineo che non si trasformi, all’orizzonte, in una svolta. Curva che non sia in discesa o salita che non nasconda una rovinosa china dietro al suo picco.
Abbiamo visto il paesaggio cambiare. Addio città-fabbrica e addio città-commerciali. Addio campi lasciati incolti dalla pianificazione agricolo-economica del Buon Senso. Addio tele-strada regolare e magnetizzata su cui non è necessario essere vigili alla guida. Una volta entrati in Provincia, disarticolati i nostri dispositivi e afferrato il volante, la strada ha cominciato a inasprirsi e lungo la nostra prospettiva, si stagliavano le prime colline. Soffici collinette ricoperte di un verde rigoglioso e brillante, in principio, ma poi il verde si è fatto sempre più cupo, fino ad alternarsi a rocce grigie, ruvide e dall’aspetto minaccioso.
Sbucando oltre una lunga galleria, ci hanno accolto cinque vette aguzze a saturare la nostra vista. Oltre quelle vette brilla il Lago di Lugano e la costa Elvetica. Ed è lì che abbiamo progettato di fuggire nell’eventualità che qualcosa vada storto in occasione del nostro primo concerto clandestino.
Abbandonato il camper abbiamo deciso di proseguire a piedi, grazie alle indicazioni scarabocchiate su un foglietto da Fausto, intanto che parlava con un arcaico telefonino cellulare con A. del collettivo clandestino alla regia della nostra prima data del tour.
Monica stava legando la sua gallina con un guinzaglio fuori dal camper, quando abbiamo sentito alle nostre spalle una voce maschile che ricordava, però, il tubo di scappamento di un mezzo a motore.
«Non vi conviene lasciarla lì, a meno che non vogliate applicare il protocollo D.E.A.T.H. alla gallina. Qui – disse alzando entrambi le mani come a verificare che non piovesse – vivono liberi e selvatici diversi animali come leprotti, tassi, cinghiali e volpi ghiotte di tutto ciò che ha le piume e il becco!» aveva detto il ragazzo con la voce a scoppio, accogliendoci con un grande sorriso giallo di nicotina.
Dopo essersi presentato stringendoci le mani ed abbracciandoci, si è acceso una sigaretta davanti a noi ed io ho abbassato lo sguardo per la vergogna.
«Volete? – ci ha chiesto porgendo il pacchetto – ne abbiamo scoperto, e continuiamo a farlo, a quintali qua tra le montagne!»
Lo sapevo. Conosco la storia di questi luoghi eppure ho ascoltato volentieri il suo racconto di queste montagne, rotta di contrabbandieri e criminali in fuga. Durante le mie indagini preliminari e la pianificazione dei concerti, ho svelato parte dei segreti che questi boschi nascondono. E ricordo, che nel farlo, la mia pelle si era ricoperta di puntini in rilievo e mi si era rizzata la peluria sulle braccia, intanto che un brivido strambo mi ha attraversato il corpo. Ho tremato nonostante le miti temperature di una Primavera inaspettatamente così calda, da ingannare persino le lucertole che, irrompendo tra le crepe del cemento, si scaldavano alla luce degli schermi pubblicitari.
Ero a conoscenza del fatto che determinate emozioni potevano generare dei corto-circuiti sensoriali, come tremare anche se non fa freddo, appunto, o svegliarsi in un bagno di sudore persino in pieno Inverno. Ridere fino a lacrimare o ridere nel pianto. Il Buon Senso mi diceva che sarei dovuta stare alla larga da un posto del genere, ma avevo sentito una sorta di livida attrazione per la storia, meschina e sbagliata, di quei boschi.
Luoghi di sofferenza.
«Tra queste vette nessuna guerra è mai stata combattuta, eppure ogni singola pietra deposta è frutto della miseria, dello sfruttamento e della follia militare» ci ha svelato Signor Nicotina, Monossido di Carbonio, Catrame ed Ammoniaca.
Ci siamo guardati intorno. Ai lati del sentiero, che aveva smesso di assomigliare una strada da troppo tempo, all’ombra degli alberi e tra il marcire e il rigenerarsi delle foglie in humus, facevano capolino delle cupole di pietra con scorci, finestrelle e feritoie scolpiti nella roccia per far passare luce, aria e la canna di un fucile.
Messa al sicuro Gallina Siouxsie abbiamo proseguito il nostro cammino con basso, chitarra, gli zaini e il resto della strumentazione sulla schiena. Ci hanno raggiunto, superandoci, altre persone cariche all’inverosimile; chi di panini, chi di birre in lattina ammassate in grandi bidoni di latta adattati a zaino o grosse giare di pioppo intrecciato sorretti con fasce in tensione sulla fronte.
«Questo è l’ultimo carico, Ballard» ha detto una ragazza dalla larghe spalle e le braccia ricoperte di brutti tatuaggi, appoggiando a terra una cassa che teneva in bilico sulla testa. L’urto col terreno ha dato origine a sbuffi e nuvole di polvere, provocando alcuni colpi di tosse in serie alla ragazza che non si è preoccupata, però, di coprire la bocca con l’incavo del gomito né tantomeno, di disinfettare il perimetro di aria che la circondava. Ho abbassato lo sguardo, ancora una volta, per la medesima sgradevole sensazione che si avverte nel vedere il pus di una ferita infetta e le gocce di sudore di chi perde il controllo dove altri resistono.
“Credo che il bosco non sia regolato dalle stesse leggi della città e così chi li vive” ho pensato.
«Questa volta ti sei superata, Lara. Dove ne hai trovati così tanti?» ha chiesto un altro ragazzo che ricordava un cyborg mutante, con una grancassa sulla schiena, aste agganciate a gambe e braccia, cavi che si attorcigliavano come serpenti attorno al collo e un mixer al posto del torace.
«Non ne ho la più pallida idea. Lo sa la Dea, lo sa! Non mi è mai successo di avere così tanta fortuna. Ma al momento spero solo di darli via tutti per non doverli riportare giù! Pesano, mannaggia. Pesano così tanto che sto rivalutando la mia posizione in merito alla piattaforma digitale di Willy Wonka!» ha detto scoppiando a ridere, seguita da Ballard e il cyborg avvolto nei cavi.
«Willy Wonka?» ho chiesto senza ottenere risposta, poiché il bottino di Lara ha catalizzato l’attenzione di tutti i presenti, compreso Fausto che si è inginocchiato, come in preghiera, verso la cassa.
Al suo interno: decine e decine di musicassette, CD e vinili proibiti con teschi, robot, esplosioni nucleari, bestie feroci, filo spinato, armi e bombe a mano, divinità terribili, città in rovina e motoseghe disegnati sulle copertine. Erano uguali a quelli dell’illecita collezione di Fausto. Simili a quei dischi sequestrati dai Tutori della Serenità e che ci erano stati assegnati dalla Woland Corporation durante la nostra officina di lavoro nei primi giorni di Primavera.