LA LEGIONE ESTRANEA

LA LEGIONE ESTRANEA

The savage mutilation of the human race is set on course
It is up to us to change that
Protest and survive

«DeeDee, vieni qui, beviamo insieme e ascoltami: ora ti racconto una barzelletta»

«Una barzelletta?»Mi chiedi con quegli occhi bestiali che come spilli inchiodano la tua faccia da bambina al muro di cemento alle tue spalle.

«Sì, una barzelletta. La barzelletta dello sciamano e della stirpe dei boschi» Ti rispondo io, in questo dialogo che non è mai avvenuto perché ci sono alcune cose che non sono mai riuscita a dirti.

In un paese lontano-lontano vi era una profondissima gola che era stata scavata da un piccolo torrente. Quel torrente doveva essere stato un fiume rigoglioso di pesci e libellule un tempo. Persino i cervi, le volpi e i corvi andavano a bere quelle sue acque insorgenti, ma poi erano arrivati i Primi Uomini e lì si erano insediati perché il fiume e i boschi davano loro di che mangiare e scaldarsi in inverno. Ad Est e Ovest del fiume c’erano due colline: i Primi Uomini decisero di insediarsi su quella occidentale e di mantenere selvaggia l’altra, per avere sempre legna da ardere e bestie da ammazzare per le loro carni e le loro pelli. Ma è inutile che ti racconti dell’avidità dell’uomo e della violenza dello sviluppo senza progresso. Superfluo che ti racconti che quel fiume sia diventato un torrente e che ne’ alci, lupi o linci popolavano più quei boschi all’epoca di questa barzelletta, perché in quel tempo sulla collina d’Occidente giaceva ossuta e vacua la carcassa di quella che un tempo era la città dei Primi Uomini. Dall’altra parte, invece, un bosco che a fatica cercava di riconquistare il suo regno.

In verità la città non era disabitata, sebbene lo sembrasse, poiché sulla cima si diceva abitasse un vecchio saggio di mille e passa anni. Ne aveva visti di uomini e donne arrivare sulla collina Est, tagliare gli alberi per erigere delle capanne e sognare il risorgimento di una nuova umanità nella valle. Eppure pescavano dal fiume ormai radioattivo solo alghe e mitili deformi, il freddo li faceva ammalare e far diventare di cattivo umore. Chi sopravviveva all’inverno non osava sfidarne ancora la misericordia e abbandonava quelle terre. La collina Ovest e la derelitta città dei Primi Uomini? Troppo ostile e spettrale per pensare di stabilirvici. Le facciate delle case mostravano come in un ringhio le putrelle arrugginite del cemento armato. Tutto ciò che poteva essere bruciato era stato arso e continuava a crepitare in un grande braciere al centro del rifugio dell’antico saggio: una vecchia cisterna sotterranea di quello che doveva essere stato il centro di stoccaggio di combustibili fossili della città. Dal suo tetto tormentato ne usciva un fumo denso e nero che faceva lacrimare e tossire ad avvicinarsi troppo.

Un giorno come tanti arrivò l’ennesima stirpe di disperati, l’ultima di una lunghissima sequenza di gente scappata dalla metropoli sotto assedio, che non aveva nulla da perdere o che aveva perso tutto. Sapevano di quanto potesse essere spietato lì l’inverno; così decisero di fare una bella scorta di legno. L’avrebbero fatta ardere nel grosso focolare al centro del capanno di Eternit e vecchi cartelloni pubblicitari, che avevano raccolto dal letto del fiume ormai quasi prosciugato.

Quel fuoco non passò inosservato.

Iniziarono gli uomini in buona salute, i più forti. Colpo di accetta dopo colpo di accetta ne accatastarono così tanta che non potevano più impilare un tronco sull’altro senza farli rotolare rovinosamente a terra. Ma temevano che non sarebbe stata abbastanza. Bisognava prepararsi al peggio e così decisero di consultare lo sciamano dall’altra parte della valle. Lui è un saggio e ha superato mille inverni, pensavano. Potrà e vorrà di certo aiutarci. E così quello che veniva definito da tutti il capo (per anzianità, forza e solidità dei suoi legami) percorse il colle fino al torrente, lo guadò e ne uscì ricoperto da una grigia melma maleodorante. Si arrampicò fino alla città e proseguì verso l’origine di quel fumo nero e tossico. Scoprì che lo sciamano, il vecchio saggio, non era solo. Altri uomini e donne sedevano attorno ad un fuoco. L’uomo venne accolto con una certa diffidenza. Sebbene il loro tempio cadesse a pezzi, sembravano tutti impegnati e concentrati in qualcosa di severo e importante che a quanto pare, doveva essere più urgente di aggiustare ciò che era rotto… come quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti. Quegli uomini e quelle donne non alzavano la testa dalle viti, dai bulloni, dagli stracci e i chiodi arrugginiti con cui stavano costruendo armi e scudi per difendersi da nemici i cui sguardi nessun occhio aveva mai incrociato.

Il vecchio saggio acconsentì a conceder loro udienza, offrendogli un bicchiere di liquore distillato dalla cenere e l’inchiostro.

Sono qui, vecchio saggio che abiti la valle da oltre mille anni, per sapere se sopravviverò a questo inverno. Gli chiese con grande timore l’uomo del bosco.

L’inverno sarà rigido e lungo, forestiero. E i nostri nemici sono alle porte. Rispose e lo congedò senza permettergli di controbattere o fare altre domande. L’assemblea dei saggi ha parlato, vai ora… ruggì.

L’uomo del bosco tornò sui suoi passi e crollò esausto nella sua branda col terrore di perire per il freddo che di certo sarebbe arrivato. Forse quella sarebbe stata la sua ultima notte nel regno dei viventi. Il freddo o la violenza dei bruti avrebbe messo fine alla sua esistenza? Chi erano questi nemici? Se per i discendenti dei Primi Uomini era più importante assemblare armi anziché coltivare la terra o aggiustare il tempio, dovevano essere temibilissimi. Pensò ai suoi simili, alla sua famiglia che lo aveva seguito e che si fidava ciecamente di lui, si chiese come confessargli che forse non avrebbero superato l’inverno, ma fu ancora la luce dell’autunno a svegliarlo il giorno dopo. Un autunno caldo a dir la verità, come non se ne ricordava da molto tempo… ma lo sciamano, lo sciamano aveva detto che…

E così convocò tutta la sua stirpe attorno al focolare. Parlò del freddo e dei nemici. Più dei bruti che del freddo, poiché l’ostilità della Natura e la collera della Dea era qualcosa che faceva tremare fino al midollo spinale, mentre questi nemici… i nemici… possono essere respinti costruendo muri e fabbricando armi, per esempio, e così ordinò loro di abbattere ancora più alberi e di costruire delle barricate. E nessuno obiettò perché se persino i più forti e impavidi della stirpe temevano questi invasori… beh, sì, dovevano essere davvero davvero terribili. I forti dopotutto avevano parlato e chi erano loro per poter mettere in dubbio ciò che proferivano?

Passarono giorni e giorni in cui tutta la stirpe, con abnegazione ed obbedienza, abbandonò ogni attività che non fosse necessaria alla difesa di quel nulla che avevano e chiamavano vita. Nessuno arava i campi o faceva conserve con quei frutti che cadevano marci sulla terra. Nessuno pregava o intonava canzoni per le persone amate. Tutti erano impegnati nella costruzione delle barricate e nell’abbattimento degli alberi.

No, non vogliamo morire qui in questa valle. E forse tutto questo non basta… Torneremo dal saggio. Dobbiamo sapere se vivremo abbastanza da rivedere la primavera. Dicevano.

E così affrontarono quel viaggio che già era stato percorso solo poco tempo prima. Arrivarono nel tempio dei saggi della collina ad Occidente e presto si accorsero che la diffidenza era diventata ostilità, ciononostante ancora una volta il vecchio li invitò a sedersi attorno al fuoco. Questo volta però, senza offrir loro il liquore di cenere e inchiostro. Pareva stremato da notti insonni, dai succhi gastrici e le ulcere che lo affamavano e lo pungolavano.

Siamo qui per la medesima ragione che ci ha spinto a disturbarvi in passato. Vogliamo sapere se sopravviveremo a questo inverno, nonostante il freddo e i nemici. Chiese il figlio del capo stirpe, intanto che gli altri della delegazione, ad occhi bassi, tremavano al pensiero della risposta del vegliardo.

Sarà un inverno estremamente duro. Sarà un inverno tanto lungo quanto gelido. E i nemici… gli invasori sono pronti a sferrare il loro terribile attacco ad istanti. Rispose lo sciamano agli uomini che si chiusero nelle spalle come le dure e spinose foglie di un cardo selvatico attorno al suo frutto. Durante il viaggio di ritorno non parlarono neppure, ma appena arrivati nelle loro case fatte di legna e relitti trovati nel letto del fiume, decisero di scrivere anche ai villaggi vicini per avvisarli del pericolo imminente. Ma che l’inverno fosse alle porte era scontato, pensarono, non c’è bisogno di dire agli uomini e alle donne che ogni autunno è seguito dall’inverno, quando ci sono dei nemici pronti a portarci via tutto ciò in cui crediamo! Il grosso problema erano gli invasori… questi bruti da cui era necessario difendersi ad ogni costo. Da soli non avrebbero mai potuto farcela. Era urgente allertare tutte le valli e tutti i villaggi e forse persino chi era rimasto nella metropoli. E poi abbattere ancora alberi e alzare altre barricate. E così alcuni degli uomini – gli eletti – armati di motosega, buttarono giù tanti alberi quante dita avevano complessivamente nelle mani e nei piedi. Cinquantanove, fra pioppi e conifere, vennero abbattuti. Cinquantanove e non sessanta, poiché quello più giovane e mingherlino della stirpe aveva perso l’indice l’autunno precedente tra la sua motosega e il tronco di una quercia.

La sera, con il vasto terreno borchiato dai moncherini degli alberi e le barricate costruite ammassando così tanta spazzatura da oscurare la luna, si sentivano già più sereni e decisero di ubriacarsi e brindare alla loro unione… quegli uomini forti, coraggiosi, in mezzo al dominio della selvatichezza e delle bestie, che insieme erano pronti a dominare la Dea e a vivere fino alla primavera. Eroi che avevano in mano la vita e la sopravvivenza di donne, vecchi e infermi! Eroi pronti a combattere contro nemici tanto terribili che neanche la fantasia sarebbe stata in grado di partorire. Si ubriacarono e festeggiarono, ma tutti gli strumenti musicali erano stati distrutti e le poesie dimenticate, perché nessuno le recitava da troppo tempo. E senza musica e senza poesia, si arrangiarono come potevano: picchiarono i loro bastoni contro le lamiere e urlavano cori semplici e ripetitivi. Sbam sbam sbam… e il più anziano partiva con una filastrocca inquieta a deridere i nemici e il freddo inverno con volgarità e violenza. Sbam sbam sbam… e i più giovani e meno coraggiosi che lo seguivano e così le donne e i bambini che trovavano buffa la rima baciata! Sbam sbam sbam…. E quel rumore senza poesia esplose nell’eco della gola, giungendo persino alle orecchie dei vecchi nella città ad Ovest del torrente inquinato.

Ma poi arrivò la notte e le temperature si abbassarono e il buio faceva paura.

Dobbiamo tornare da loro. Dissero, ma dovettero constatare che era rischioso partire e lasciare le donne sole con gli invasori, che senza dubbio, si nascondevano dietro alle vette più prossime al loro villaggio. E come fare?

Andremo noi, dissero le più giovani della stirpe, annoiate da quei cori ed escluse dalle decisioni. Prima dello stato di emergenza perenne erano impegnate a coltivare la terra, nella cura della comunità e nei rituali propiziatori. Svolgevano le loro mansioni come investite di una missione e lo facevano cantando versi e poesie tramandate da millenni, ma contaminate dal loro essere, dal loro vivere, dal loro sentire… Nulla a che vedere con quei rozzi cori oggettivi e privi di personalità che da ore e ore ammorbavano la valle. I versi delle donne erano i canti delle lupe e delle bestie della foresta. I canti di tutte le donne che avevano vissuto quei boschi e quelle terre. Erano i medesimi canti… eppure allo stesso tempo diversi, perché non potevano più piangere come le mondine del secolo passato. I fiumi erano inquinati e nessuno più affondava le gambe nel fango per coltivare il riso. Quello non era più il loro mondo, ma della stessa natura erano le ingiustizie e la voglia di essere felici e quindi, quelle poesie, andavano fatte proprie. Perché i versi del passato, se non vengono incastonati dalle emozioni del presente, restano vane formule vomitate da preti e soldati. Tristi figuri che trovano piacere nel sentire la propria voce amplificata in una gelida eco, del cui senso solo pochi eletti sono davvero a conoscenza. Sbam sbam sbam….

A parlare fu una ragazza di nome Dorothy Gale e le sue parole vennero accolte da un silenzio sbigottito. Quel silenzio si trasformò in una volgare risata che coprì i brontolii degli stomaci svuotati dall’assenza di cibo. Eppure i frutti marcivano sulla terra e le piante nei campi soffocavano tra le erbacce.

Non avete molta scelta: o lasciate la difesa del villaggio e l’approvvigionamento della legna per l’inverno a noi o ci lasciate andare a parlare coi saggi della collina Ovest. Rilanciò la ragazza con la voce tremante di collera e orgoglio. Ed aveva ragione… con un rapido gioco di sguardi i più forti del clan si accordarono: no, non potevano di certo lasciare il futuro in mano a quelle braccia deboli, quelle teste sognanti e quei cuori acerbi – erano così emotive quelle ragazze… così maledettamente emotive e sensibili!

E così partirono. Il viaggio fu più difficoltoso delle volte precedenti. Il vento tagliava la faccia e le rocce erano scivolose e l’acqua del torrente sembrava volerle pugnalare come bambole woodoo, ma non volevano fermarsi. Non si sarebbero fermate. Arrivarono al tempio e trovarono la porta sbarrata. Bussarono con tutta la loro forza, ma nessuno era disposto a farle entrare. Solo dopo che si inginocchiarono tutte quante ad implorare piangendo per essere ricevute, si affacciò il vecchio saggio. Su quel volto che loro non conoscevano riconobbero però, come incisi nei muscoli, i segni del più cieco terrore.

Andate via. Disse. Andate via. Urlò. Sta arrivando. Sta arrivando l’inverno più tragico della storia della nostra umanità, sbraitò sputando un dente e parecchia saliva. I nemici… i nemici sono tra noi e distruggono le barricate nella notte e sabotano le nostre armi e ci succhiano il sangue quando dormiamo! E forse anche voi… forse siete voi i selvaggi! Urlò con una voce tanto stridula, da far vibrare i vetri rotti attaccati come denti marci alle finestre del tempio.

Il cuore delle donne della collina orientale si ghiacciò all’istante. Non più sangue pulsante, non più calore. Quella benzina che incendia le emozioni era svanita, lasciando il posto soltanto alla paura, al sospetto e al più feroce spirito di sopravvivenza. Si voltarono di scatto come colpite da una scossa elettrica, mosse da un’unica urgenza: salvare la propria pelle a qualunque costo. Cominciarono a guardarsi l’un l’altra con timore e accusa. Dietro a quegli occhi, come con uno scanner di ultima generazione innestato nel cranio, scorrevano tutte le informazioni inerenti all’operato del soggetto in osservazione. Un registro virtuale che scandagliava i meandri più intimi e oscuri. Ogni buco, ogni ombra nel loro essere ed agire poteva essere una prova del loro tradimento dopotutto.

Gli occhi di Dorothy Gale rimbalzavano come una pallina di un flipper da una all’altra di quelle che, fino a poco tempo prima, erano le sue amiche più care. No, non poteva accettare che una di loro potesse essere una minaccia per la sopravvivenza sua e della stirpe della collina orientale. Eppure il saggio aveva detto… eppure i forti del clan avevano detto… eppure…

Una cornacchia malconcia, noncurante degli oscuri pensieri di Dorothy Gale e delle sue amiche che la profezia voleva nemiche, tagliò in due il cielo e gracchiando magnetizzò il suo sguardo verso l’orizzonte e poi sul tempio: faceva paura. No, non era paura… era schifo e pena. Perché lo avevano lasciato cadere a pezzi? Perché non avevano fatto nulla per aggiustare quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti? Così dava l’impressione di poter essere buttato giù senza sforzo alcuno… anche da… anche da una scorreggia!

Le scappò inaspettatamente da ridere. Erano così tanti giorni che non rideva, quasi fosse una colpa sorridere coi nemici alle porte e la minaccia dell’inverno che pendeva sulle loro nuche.

Il suo sguardo si soffermò sulla porta crollata del tempio. Al suo posto c’era un vecchio cartellone pubblicitario di un film antico… risaliva ad oltre cent’anni prima. Quel film era Il Mago di Oz con Judy Garland e lo aveva visto quando ancora abitava nella metropoli e l’ultimo cinema aperto, lo aveva proiettato in occasione del centenario dalla sua uscita. Uno dei rari momenti di cultura e socialità nonostante l’assedio dell’esercito di difesa. Se lo ricordava. Lo aveva visto due volte di fila, perché la protagonista si chiamava proprio come lei e poiché, ahinòi, di film nuovi non ne uscivano da diverse decadi. Si ricordò all’improvviso la scena in cui Totò, il cagnolino della sua omonima, smaschera la messinscena del temibile Mago di Oz! Truffatore e bugiardo il cui potere si sorreggeva soltanto su trucchi, illusioni e paura. Senza pensarci troppo urlò verso la finestra da cui era spuntato il saggio.

Come fa? Come fa a sapere queste cose? Urlò con una tale forza che non credeva di avere.

Il saggio si scoprì sorpreso nel constatare che, per la prima volta dopo secoli, qualcuno – una ragazzetta per giunta – osava mettere in dubbio le sue verità. Decise di affacciarsi e le rispose.

Abito questa valle da molto tempo prima che i tuoi nonni nascessero ragazzina e so come gira il mondo. Dall’alto della torre del tempio, posso scorgere le vette di tutte le colline e vedo tutti i villaggi che popolano questa gola. Vedo quello che fanno, vedo quanti alberi tagliano e quanto sono alte le loro barricate e capisco quanta paura hanno per l’intonazione dei loro canti. Io ho osservato tutti loro e comprendo l’entità della minaccia che pende sulle nostre teste.

Disse.

«Ma è finita?»

Mi chiedi e giustamente protesti: «ma a me non sembra una barzelletta e non mi fa neanche ridere porcodio»

No, DeeDee, non fa ridere però ti giuro che era una barzelletta. Me la raccontava sempre mio padre e dovrebbe far ridere, come fa ridere un calzino bucato ai piedi di un imperatore o vedere un vescovo ricoperto di porpora e oro inciampare nella sua sottana. Perché dovrebbe far ridere lo smascherare e ridicolizzare il potere di quel saggio che poi, tanto saggio non era. Una pernacchia piena di sputi alla faccia di chi vuole imporre la propria verità, sacrificando la realtà se questa risulta incomprensibile, sgradevole o faticosa. Una barzelletta rivoluzionaria DeeDee, che mi è venuta in mente spesso da quando mi hai raccontato cosa ti hanno fatto. Dopo lo schifo, il dolore, la rabbia e l’odio… mi è tornata in mente la barzelletta dello sciamano e della stirpe del bosco!

Ma da quando mi hai raccontato la tua storia, DeeDee, non riuscivo a gioire per lo smascheramento del falso profeta o l’irrisione del potere, perché vedevo solo la cieca obbedienza e la superstizione del boscaiolo e della sua stirpe. E stavo male perché come nella barzelletta attorno a me vedevo così tanta paura e l’assenza assoluta di umanità e coraggio. Vedevo che l’odio e il terrore atavico verso l’altro, da troppo tempo, erano diventati collante sociale anche da questa parte della barricata… un collante chimico e infiammabile, creato e adoperato per infuocare il braciere di chi detiene il potere. Eppure “noi” avremmo dovuto essere diversi da “loro”…

Non migliori o peggiori, perché questo tipo di valutazione implicherebbe una norma a cui adeguarsi o un dogma a cui obbedire… uno standard che divide i buoni dai cattivi, i santi dai peccatori. E “noi” invece siamo quello che siamo – o almeno credevo – perché ci fanno ridere le barzellette in cui gli dei cadono e i re muoiono. Eppure pare che in quest’epoca cruda e stolta, siamo riusciti a replicare le stesse logiche di quel potere infiammato da paure mitologiche, ignoranza colpevole e bisogno di eroismo. Leggi di accettabilità sociale da cui credevamo di esserci liberati, rintanandoci in queste cattedrali industriali cadenti e in queste strade con le vetrine spaccate. Bestie inferocite e folli di timore e paranoia, che non sanno sopravvivere senza la normalizzazione di un branco.

Quello che ti hanno fatto, DeeDee, ci ha lacerato testa, cuore, pancia e figa… quattro crepe forse irreparabili. Ci ha tolto il sonno, la voglia di sorridere e la gioia dello scopare. Come è stato possibile tutto ciò? Al di là del male e della miseria dell’anima, la verità è che nessuno di noi aveva delle risposte. E non ce le abbiamo nemmeno ora…

Nessuno custodisce il senso e la ragione che spieghino il vuoto marcescente che fingiamo di non vedere. Nessuno di noi può schiudere le labbra per pronunciare quelle parole che rivelano il passato e guidano verso il futuro.

Un’assoluzione, DeeDee… quello che cerchiamo è un’assoluzione per tutti i nostri errori e le nostre mancanze.

Alcuni di noi sono rimasti paralizzati, altri si sono fidati delle parole di pigri sciamani che hanno reso nobile e moralmente degno il voltarsi dall’altra parte e far finta di niente. E poi c’è chi ha deciso che in assenza del perdono, nell’impossibilità di poter far i conti con loro stessi, forse era meglio bruciare la vecchia. Ti hanno fatto diventare una nemica da annientare, per liberarsi dal peso di trovare quelle risposte. E così stanno facendo con noi, che abbiamo osato urlare quelle domande con l’urgenza dei nostri cuori di cagne.

Ma lo sai bene quello che ti hanno fatto e non ha senso ora continuare a ricordartelo, perché ci sono cose che non ti ho mai detto. Non ti ho mai detto, per esempio, di quanto tu ci stia facendo sentire forti. Di quanto tu ci stia facendo sentire parte di un unico e complesso corpo composto da organi vivi e essenziali. Di quanto tu ci abbia ricordato chi siamo e tutto ciò che non vogliamo essere. Tu, DeeDee, purtroppo non puoi vedere il bello che ti circonda e che è sbocciato dove hai versato le lacrime e posato i tuoi piedi. Sono sicura che un giorno i tuoi occhi incontreranno la bellezza e la poesia. Te lo prometto. Nel frattempo però, ti chiedo di portare ancora un po’ di pazienza, perché ti devo raccontare come è andata a finire quella storia strampalata: la barzelletta della valle del torrente inquinato.

Quegli alberi che abbattiamo, cadono per le tue parole. E quelle che vedi dalla tua torre, sono le barricate che abbiamo alzato per le tue profezie. Le armi che abbiamo in pugno, vengono fabbricate dalla perenne minaccia che ci racconti. E la nostra fame, maledetto vecchio – digrignò Dorothy Gale – è il frutto corrotto dei campi che non coltiviamo, così come l’aridità dei nostri cuori è figlia delle poesie che abbiamo dimenticato, per combattere una guerra che tu ti sei inventato! Che tu sia maledetto, tu… che sei vecchio senza cuore ne’ saggezza!

E dicendo questo, prese per mano le sue amiche e insieme fecero ritorno al villaggio della stirpe.

Guardarono con occhi nuovi, i resti del tempio e della città abbandonata, lasciata alla mercé della minaccia perenne. Stronzi, pensarono. Non c’è spazio per la bellezza in una società dominata dalla paura – si dissero senza bisogno di parlare – e non c’è azione, ma solo la difesa di uno status quo, messo in discussione dall’evidenza delle nostre cadute. C’è soltanto l’immobilità dei morti.

Siamo cadute e siamo precipitati, Deedee, senza avere il coraggio di rialzarci. Perché non sappiamo essere liberi. Non ci hanno mai abituato ad esserlo. E la leggi, i dogmi e le norme che abbiamo riprodotto nel nostro piccolo, hanno lo stesso tono di voce dei preti che ci facevano catechismo, dei genitori che volevano un futuro fatto di certezze e di autorità spaventate dalla nostra voglia di sognare.

Dorothy Gale camminava insieme alle sue amiche e si accorse che tra la neve sporca di fango, sbucava un piccolo fiore che sembrava un fantasma. I vecchi della stirpe lo chiamavano il cadavere delle nevi. Ed era il fiore che nasceva prima di tutti gli altri, coi primi soli tiepidi della primavera. L’inverno dunque era già passato? La primavera avrebbe presto destato speranze e germogli, eppure la sua stirpe ancora abbatteva alberi per prepararsi all’inevitabile sfida del gelo. Ancora viveva con il terrore di non sopravvivere! Lo colse e pensò che lo avrebbe portato agli uomini del villaggio. Guardate – avrebbe detto con gli occhi lucidi di amore e gioia violenta – guardate: l’inverno è alle spalle e noi siamo vivi.

E questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà.

LE VOSTRE LETTERE | K.Coll + Radio Onda Rossa

LE VOSTRE LETTERE | K.Coll + Radio Onda Rossa

[articolo originale qui]
Le vostre lettere su Radio Ondarossa
[Sarta] È da qualche tempo che, complici Valeria e il losco figuro romano che corrisponde al nome di Fantasma, abbiamo lanciato una simpatica iniziativa che allieterà (?) le vostre/nostre esistenze. Si tratta de “Le vostre lettere”, una specie di rubrica ospitata all’interno di DIY Invasion sulle frequenze di Radio Onda Rossa, la storica radio romana nell’etere dal 1977. In cosa consiste? Vi chiediamo in pratica di inviarci dei racconti/poesie/storie scritte di qualsiasi genere o ambientazione, purché brevi: ce li ciuccieremo per benino risputandoli fuori sotto forma di onde sonore. Sissì: con grande dedizione verranno recitati dalla prode Valeria e musicati dal vostro amato/odiato collettivo Kalashnikov, assumendo forme e significati inediti, sorprendenti ed imprevedibili. Non chiedetevi il perché di tutto questo, piuttosto – presto, compagne e compagni, non esitate! – inviateci i vostri racconti! Non assicuriamo ovviamente di recitarli e musicarli tutti ma, insomma, faremo il possibile.

L’iniziativa è già avviata non sappiamo quali pieghe prenderà: una prima tranche di racconti ha già subito la metamorfosi da pagina scritta a operetta sonora, tant’è che il buon Fantasma ha ospitato a turno uno di noi in radio, tramite collegamento telefonico, in ben tre puntate di DIY Invasion per presentare i primi altrettanti racconti. Ne sono venute fuori delle simpatiche chiacchierate, più o meno interessanti, più o meno logorroiche, più o meno imbarazzate, che potete ascoltare direttamente sul sito della radio. Noi, più sinteticamente, vi mettiamo qui sotto i racconti che via via componiamo, commentati e pronti per l’ascolto: fatene saggio uso!


“Le vostre lettere”

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Il primo racconto è “l’episodio pilota”, il numero zero, la genesi di tutto: “Le vostre lettere” è l’annuncio della “chiamata alle armi” rivolto a voi là fuori che – lo sappiamo! – avete tanti racconti scritti nel cassetto ma che, per vari motivi, non li avete ancora fatti leggere a nessuno. Il primo racconto è “l’episodio pilota”, il numero zero, la genesi di tutto: “Le vostre lettere” è l’annuncio della “chiamata alle armi” rivolto a voi là fuori che – lo sappiamo! – avete tanti racconti scritti nel cassetto ma che, per vari motivi, non li avete ancora fatti leggere a nessuno.


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Valeria Disagio)


“Milano antartica”

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Il secondo racconto è il breve diario di una partigiana della Milano antartica post-nucleare. Tra riflessioni su uomini e donne, femminismo, guerriglia, si parla anche della base missilistica ai Giardini pubblici Indro Montanelli. Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Stiopa)


“Non credo – bozza di una sceneggiatura per un film di guerra (senza la guerra)”

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Questo racconto, già inserito nel nostro 10” split “Come il soffitto di una chiesa bombardata” con gli amici Contrasto, è l’allucinazione da trincea di un soldato senza nome. La guerra di ogni giorno trasfigurata come se fosse la sceneggiatura surreale di film privo di epica ed eroi, dove il nemico/protagonista è presente ovunque, ma non si vede mai.


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Sarta)

“Marchionne deve morire: la rivoluzione dei 10.000 gatti kamikaze che assomigliano ad Hitler”

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Qui invece siamo dalle parti di Philip K. Dick: un buffo racconto, divertente e inquietante allo stesso tempo, dove i piani della realtàsi moltiplicano, dove pazzia, mutamenti della personalità e complotti la fanno da padrone. Protagonisti una gattara, una veterinaria svenevole, un gatto dal nome altisonate e un segreto inconfessabile.


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Valeria)

“Reset – Favola animalista”

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Ed infine, un racconto sulla fine della supremazia umana: cosa accadrebbe agli animali sulla terra se tutti gli uomini, d’un tratto, scomparissero? La storia incrociata di un dio distratto, una mucca, il cane Focaccina e la gatta Yumi. 


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Valeria)

ANDREAS È MORTO

ANDREAS È MORTO

Ogni sistema esige il suo sangue.

Da LUNGIDAME#03

Illustrazione di Francesco Pirini

Abbiamo illuminato la nostra città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere perché i nostri occhi servono solo ad ammirare quella sezione di tramonto dalle finestre del nostro salotto. Qui non abbiamo angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle.

Il tramonto di questa sera: lo hai visto? Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, ti garantisco. Perché qui è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare.

Tutto questo perché Andreas è morto.

E così siamo sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli. Nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi. Qui non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico. Qui non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede. Dimentica lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che ora sono sotto la terra ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano. Qui da noi, ciò che fa male è illegale ed è la scienza che lo dice. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco l’esistenza di dio, della sua parola non ne facciamo la nostra legge.

Tutto questo perché Andreas è morto.

Si sta piuttosto bene da noi, sai? Le regole sono semplici, la risposta in godimento per nulla avara. Basta obbedire e c’è chi pensa, agisce e fatica per noi. Il principio della delega portato a vette di perfezione e raziocinio che quasi abbaglia, come il riflesso d’acciaio di ingranaggi scintillanti e sincronizzati. E lì, da fuori, le gazze ladre vedono solo il magnifico bagliore e non possono che rimanere con la bocca aperta e dire che è tutto meraviglioso. Perché è come una melodia divina quello che questi ingranaggi fanno nel loro ruotare e incastrarsi, ruotare e incastrarsi, in quel moto perfetto e inarrestabile che è manifestazione della giustizia poetica.Loro vogliono il controllo, noi vogliamo gustare e sbocconcellare i frutti della loro fatica. Tutto ciò diventa realtà e quotidianità, fin tanto che noi ci accontenteremo di godere e obbedire. Ed è facile farlo quando vivi in quella che senza troppi giri di parole è la città in cui tutti vorrebbero stare. I nostri edifici pubblici sono colorati e pieni di luce. Le nostre mense aziendali servono, con l’equivalente di un ticket restaurant, un pasto genuino ed equilibrato. Verdure fresche e centrifugati di frutta biologica e di stagione. Nessun tipo di intolleranza verrà ignorata. Nessun tipo di scelta etica verrà osteggiata o ridicolizzata perché siamo buoni e la nostra società si basa su valori di uguaglianza e rispetto per le minoranze. Mettiamo gli asterischi per non escludere alcun genere nei nostri aggettivi e sostantivi che la storia della lingua ha voluto al maschile. Nelle imprecazioni, le rare volte che capita, stiamo attenti che nessuno possa essere offeso o che il suo essere – qualsiasi esso sia – possa avere il peso di un’offesa.

Che le sex worker, per esempio, rivendichino il loro mettere sul mercato il proprio corpo. Fuori da qui, dicono, che si usi la parola “puttana” (ed i suoi sinonimi) per giudicare le donne a cui piace particolarmente scopare, che spezzano il cuore, che ci mettono troppo in fila al supermercato, che danno una multa sui mezzi, che non valorizzano gli altri sul lavoro e nella vita o che sono temute. Quella troia di… Qui, invece, le donne si appuntano una spilletta sul bavero del gilet di ordinanza e puoi leggerlo chiaramente che c’è scritto “io sono una puttana” perché è giusto che si sappia che per noi essere una puttana non è un’offesa. Qui riteniamo giusto condividere con l’intera comunità cosa ci piace farci infilare e dove. E guai… Guai, se qualcuno dovesse sorprendersi nel fantasticare – non senza vergogna e magari con le dita attorno al cazzo – di infilare effettivamente quelle cose in quei determinati buchi.Qui le donne sono al sicuro in case assemblate con pareti di vetro, perché ciò scoraggia gli episodi di abusi domestici e i rapporti non consensuali.

Qui non c’è violenza. Non ci sono stupri e molestie perché piuttosto che educare al rispetto e alla cultura del consenso, tutti (ma proprio tutti) gli uomini al compimento del dodicesimo anno di età, preferiscono autoproclamarsi colpevoli di ogni possibile reato a sfondo sessuale. E se i maschi vengono cresciuti come mostri colpevoli e le femmine vengono educate in quanto fragili vittime prensili – simili alle micro-donne sollevate e sbatacchiate dai giganti post-nucleari di Ken Shiro – ça va sans dire che abbiamo tutti accettato quanto segue: in presenza di un uomo e una donna che si desiderano carnalmente, un testimone imparziale rappresentante ogni orientamento o gusto erotico, certifichi che… Sì, il rapporto sta avvenendo secondo tutti i crismi imposti dal buonsenso e soprattutto dai desideri e dai limiti di lei. Desideri e limiti ben documentati, dopotutto, nero su bianco e magari con qualche autoscatto birbantello, ad uso e consumo dell’intera comunità. Da tempo abbiamo rinunciato al romanticismo e abbiamo preferito la mediazione erotica prima di ogni contatto fisico, perché era davvero difficile per noi capire con la nostra testa, il nostro cuore e il nostro corpo, cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. Abbiamo delegato la nostra passione ed il sesso finalmente, così, è davvero un posto sicuro.

Tutto questo perché Andreas è morto. Andreas είναι νεκρός.

Così come nell’antica Grecia, la nostra società sta mettendo le basi di un nuovo ordine sociale che sorge dal fallimento di chi ci ha preceduto. Era estate e le strade polverose di Atene erano messe a ferro e fuoco delle proteste. L’intera nazione in fermento: cani randagi impazziti per lo scoppio di un petardo buttato, non senza un certo sadismo, da quelli che il controllo lo impongono coi conti, i numeri e le proiezioni finanziarie. Perché tutto è calcolabile e possiamo misurare il coefficiente della nostra miseria a partire da un lungo algoritmo; un codice che parte dagli uomini col vestito buono che agitano strette di mani davanti ai fotografi, scivola tra le dita con la french del capitalismo da front desk e prosegue, tra gli scossoni, per quel dito addestrato a tirare il grilletto e fare SBAM. E poi ci siamo noi che abbiamo votato, depositato soldi nelle banche, goduto nel vedere che per le strade non c’erano più straccioni e pezzenti e spacciatori e sì, quando nonna muore col suo appartamento rivalutato dalla gentrificazione forse ci paghiamo le vacanze, la cucina nuova e il master a Sandra che è precaria, povera ragazza. E quando torno a casa non devo più ignorare quelle mani a cu-cu che chiedono soldi. I miei soldi…

E così Andreas è morto. Andreas che è donna, uomo, vecchio, grassa, fragile, troppo magra, immaturo, non abbastanza ricca o troppo povero, testardo, impulsiva, ideologica e invasata, troppo forte e ostinato, sarcastica e pungente, critico, umile e sincera. Andreas è la contraddizione, l’imprevedibilità, colei che commette errori e la caleidoscopica sorpresa che nessuno potrà mai prevedere. Giovane ingranaggio inceppato, come tutti gli ammazzati sull’asfalto dalla mano armata da un sistema che richiede un sacrificio ogni 15 anni. Ogni 15 anni noi abbiamo bisogno di un martire. Cresciuto ed educato con l’illusione di essere libero. Premiato per il suo libero pensare e amare. Lodato ogni volta che si esprimeva fuori dal coro. Come sei originale Adreas! …e quanta immaginazione! Tu non puoi buttarti via come gli altri. Tu sei speciale. Davvero vuoi passare la tua vita a bere Campari al circolino guardando la partita? Aspettando un marito, il lavoro giusto, il quieto vivere e il compromesso? Davvero ti vuoi accontentare della mediocrità che ti circonda? Così si cresce un ribelle. Portandolo nel palmo della propria mano e facendogli credere di essere unico. Ed eccolo l’escamotage, il trucco criminale… Illudere Andreas di poter essere e dire ciò che vuole. Raccontargli quanto sia nobile battersi per la verità. Spalancargli gli occhi e mostrargli la gabbia in cui nasciamo e inoculargli la voglia di lottare per gli ultimi, gli oppressi… Libera nos a malo perché qui è tutto diverso Andreas, ricorda Andreas che noi siamo i buoni!

Noi siamo i giusti! E i nostri valori sono luce nelle tenebre, costellazioni nella buia vastità del caos cosmico. Fino al giorno… Fino a quel giorno in cui, con uno strattone improvviso, Andreas non si accorgerà di quel guinzaglio a strozzo attorno al collo. Ed egli deciderà di ribellarsi e mordere la mano che lo nutre, sceglierà il randagismo e mostrerà i denti al quello stesso mondo che, finalmente, potrà annientarlo nel sangue, giustiziandolo. Sacrificandolo. Guardatelo ora che brutta fine. Non vorremmo davvero condividerne il destino. Perché nessuno di noi, nessuno, vorrebbe morire insozzato del proprio sangue su un marciapiede tra le merde di cane, i mozziconi di sigarette e gli sputi dei passanti. Nessuno vuole vedere il proprio amico cadere, come corpo morto cade, sotto i colpi di un assassino che mai verrà giudicato e punito; il cui sangue non bagnerà mai le radici arcigne e testarde di quell’albero di chi vorrebbe vendicarne la morte – il suo sacrificio. E nessun padre e nessuna madre vorrebbe vedere il proprio figlio quindicenne ammazzato come un randagio, freddato, dai guardiani del potere e…

E niente, maledizione! Allora è meglio obbedire e godere no? Il principio della delega, ricordi? Loro fanno tutto per noi. E non ci è chiesto di pensare, mettere e metterci in discussione, sognare cambiamenti, sorprendersi, cadere male… Dobbiamo solo godere ed essere grati. Ogni 15 anni Andreas verrà giustiziato per ricordarci ciò che conviene. E allora grazie. Grazie Andreas. E grazie a me, ché sebbene io sia nata coi nomi di Valeria e Francesca, sono quella che alla fine muore.

“E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.”

Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio

Sangue, loro vogliono vedere il sangue sporcare le strade. Sangue degli innocenti che a migliaia chiedono vendetta. Innocenti i giornalisti, innocenti i poliziotti, innocenti i burocrati, innocenti i cittadini perbene.
NON CHIEDERAI SCUSA

NON CHIEDERAI SCUSA

Da Lungidame #01

DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE

Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.

Foto di Silvia Polmonari

Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.

Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.  

Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.

L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.

“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir

Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?

E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!

“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.

Lei, Antichrist, Lars Von Trier

Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.  

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.

The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot

Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?

Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.

“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.

“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.

“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.

“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.

Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…

Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.

Ti chiameranno: furiosa.