Regina della Notte

Regina della Notte

A volte mi chiedo dove sia l’uomo che temevo
e che mi ha cresciuto
con Jesus Christ Superstar e Colpo Grosso
prima che cominciassi a fumare e decolorarmi i capelli,
secondo una costellazione pedagogica tutta sua,
fatta di sorsi di brandy, di leggendarie bugie
per cui la mia voce era quella di Astrifiammante,
Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen
(La vendetta dell’Inferno ribolle nel mio cuore)
ma che non mi permetteva di credere
a quella favola hollywoodiana
del ricco che salva la puttana
(non esistono i principi azzurri e nessuno ti verrà a salvare, diceva),
in quel vecchio che rifiuto di vedere malato.
Quell’uomo, mio padre, esiste ancora
celato in quella sete di vino a buon prezzo e voglia di lottare,
in quell’assuefazione alla vita
che ha sostituito i tre pacchetti giornalieri di Diana Blu morbide.
Resiste nel negarmi la sua paura
allo stesso modo in cui decideva cosa era adatto al mio sentire
e cosa i miei occhi non dovevano vedere
dietro alla sua mano di ulivo capitozzato,
tra gli sbuffi rossi di polvere del suo sangue al confino.

Fiera / Una lingua morta

Fiera / Una lingua morta

Userai le cose fino a quando non saranno consumate.
Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme
per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte.
Suoneranno come una lingua morta e dimenticata
le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile.


E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta,
la saggezza del grembo, la verità dei sospiri
e per i capelli color degli spettri
che hai tagliato a quella bambola
che ti avevano regalato da bambina.

Non chiederai scusa per quella domanda
che ti fai sempre all’arrivo del treno
con gli occhi in bilico sul binario.


Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta
che ha il respiro di tutte le femmine della storia.
Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre,
mangiando solo per mandar giù vino scadente
e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati.


Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati,
il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.
Ti chiameranno: fiera.

[Illustrazione di Onki Dayan] 
SIGNORA VERRUCA

SIGNORA VERRUCA

Wendy, vecchi occhi di orzata
manto di pioggia e buccia di salame
naso umido pensante

Precipito insieme a te, goffa, al tuo fianco
che potresti liberarmi di questa mia vita tra le fauci
ma su cui vegli da tre minuti o tre millenni.

Ci siamo chiesti cosa fosse il tempo per il cuore di una cagna
con la memoria del fango,
delle infinite foreste,
delle lotte tra branchi,
del canto dei lupi
e dei falò dei primi uomini,
legata a quelle tue zampe inceppate
in un loop di sogni, ringhiare, tuoni e saggezza.

Resta ancora qui
perché io non ho i tuoi artigli
o la tua mandibola capace di spezzare ossa,
ma condivido quelle tue gengive insanguinate
a custodia di denti che il tempo ha limato.

E questi giorni, in cui ogni ora è preziosa,
ed ogni tua ora basta a restituire furia e fierezza
alla parola “cagna” nei secoli passati e in quelli a venire,
ho bisogno di te come mai prima.

Perché non ho ancora imparato a cambiare il pelo
e quella tua pelliccia, che puzza e seduce,
mi è necessaria per essere me stessa in questo mondo.

Carovana Dei Versi

Carovana Dei Versi

Nel 2009 ho interrotto con della prosa l’interessante Carovana Dei Versi edita da Abrigliasciolta…

Interrompo il far poesia per parlare di poesia. Parlo di poesia e rivendico il mio diritto di farlo come piace a me. Interrompo e rivendico di poter parlare di poesia, di questa poesia, come se fosse qualcosa di diverso. Pornografia o musica, per esempio.
Ciò che voglio dimostrare con queste parole è una breve e fondamentale verità: la poesia è hardcore.

Hardcore. Una parola sola per tre significati.
Uno.
La prima volta che è stata usata serviva per distinguere il soft dall’ hard nella pornografia. Tolto il divieto di mostrare atti sessuali espliciti nel cinema, i registi e i produttori del mondo del porno, hanno pensato bene di togliere tutto ciò che era superfluo per sbattere su pellicola la naturalità e la schiettezza della penetrazione. E per quanto assurdo possa sembrare, anche questo dato torna utile ad avvalorare la mia rivendicazione. La poesia è hardcore anche in questo senso.

Tre. (Come degenarazione del Due)
Prendere un qualsiasi genere musicale e ignorare la tecnica o la benché minima capacità espressiva o desiderio di armonia. La matematica, perché in fondo la musica è fatta di matematica, si riduce ad un numero periodico che si ripete all’infinito. Sempre uguale, senza produrre operazioni di calcolo, moto o azione. Tum-Tum-Tum-Tum-Tum [Tum]. Vi prego d’ignorare questo insignificante significato.

Due.
E’ questo il senso che c’interessa. Hardcore è quel punk suonato negli Stati Uniti da degli adolescenti, in quel periodo storico che va dal 1980 al 1985. Circa. E a mio avviso rappresenta l’apice e la conclusione delle musica. Dal punk hardcore in poi si può parlare solo di produzione. Prima degli anni Ottanta: di sperimentazione. Una lunga e meravigliosa fase di esperimenti e tentativi per arrivare alla verità illuminante e universale, che la perfezione di ottiene togliendo e non aggiungendo.

La storia della poesia e la storia della musica sono molto simili. Per molto tempo hanno viaggiato insieme. Sono state la stessa cosa. Poi la musica ha incontrato l’industria e la poesia è stata torturata denigrata crocifissa dal sistema educativo mnemonico. La scuola ha prodotto intere generazioni di lettori persi terrorizzati e disgustati dalla metrica. L’industria discografica ha prodotto intere generazioni di consumatori musicali. Ma non bisogna piangere. Il momento in cui la musica ha perso di vista la poesia, la poesia ne ha guadagnato. In questo divorzio la parte lesa è sicuramente la musica. La poesia invece si è ripresa. Si è reinventata. Come? Togliendo. Dopo un momento di sconforto (che farei coincidere con le produzioni di fine Ottocento e primissimo Novecento) in cui i poeti continuavano a poetare costretti nella metrica e fedeli alla tradizione. La cosa aveva senso ai tempi del connubio tra musica e poesia, ma ora, ne converrete che a meno che uno non lo faccia per vezzo, poetare in metrica risulta triste come quegli uomini a cui viene amputato un arto e continuano a sentirlo. C’è stato un momento di sconforto, lo riconosco, ma per fortuna è passato. Gioiamo e alziamo le braccia al cielo è arrivato il VERSO LIBERO!!!!

Ma torniamo al punk. Quegli adolescenti inconsapevolmente illuminati, negli anni Ottanta, negli Stati Uniti, hanno fatto ciò che era giusto fare. Hanno portato la musica alla fine del suo percorso evolutivo. Hanno rinunciato alle regole e alla struttura fissa che ci si aspetta da una canzone (strofa-ritornello-strofa). Hanno eliminato i virtuosismi tecnici e un po’ autocelebrativi (niente assoli, nessuna scala canora). E’ rimasta la musica, con la sua irruenza e la sua brutalità.

E qui, ci si ricollega alla pornografia e alle scene esplicite dell’hardcore.

Ora concludo questa mia rivendicazione aberrante e chiedo scusa di aver paragonato la poesia alla pornografia. Di sostenere che i Black Flag rappresentino l’evoluzione naturale di Wagner. Chiedo scusa di essere uscita fuori tema, ma vi ho avvisato in tempo. Lo sapevate che si sarebbe trattata un’interruzione.
Interrompo e rivendico. Cosa? La sobrietà non è altro che la brutalità che si fa poesia.

Quest’anno torno ad interrompere. Se nel 2009 parlavo di pornografia e punk, questo 2011 mi vede riflettere sui dittatori, formiche, rivoluzioni e l’amore eterno.

Questo è il programma delle performance itineranti.

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