7.Report#3 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

7.Report#3 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

14 Giugno 2040, in strada verso il Bauwagenplatz di Strasburgo.

Mi sono svegliata, con la testa di Fausto appoggiata tra la mia spalla destra e la tetta. Quest’uomo che ha l’età per essermi genitore, dorme avvinghiato a me, senza smettere mai di stringermi in un forte abbraccio disperato. Come sull’orlo di un precipizio.  Le mie gambe oltrepassano in diagonale il suo corpo rannicchiato contro il mio. 

Qui, nei boschi sul fianco dei monti, le notti estive sono gelide e abbiamo avuto freddo. Abbiamo studiato ogni incastro di braccia, torso, gambe e guance  per dormire, facendo aderire la maggiore superficie possibile dei nostri due corpi. Cambiando e stravolgendo ogni possibile innesto, ogni qual volta il sangue che faticava a scorrere nelle nostre vene, lo esigeva trasformando il suo bisogno in un nostro fastidio. 

Fausto si è svegliato pochi istanti dopo, con un sorriso, bestemmiando. 

«Mi fa male ogni cosa, ogni singolo muscolo del mio corpo» ha grugnito, stiracchiandosi nel poco spazio concesso dalla piccola mansarda, posizionata sopra la cabina di guida del camper in movimento.

Fausto mi ha baciato sulla fronte e dopo essersi messo le mani a conchetta davanti alla bocca, espirato e inspirato ciò che avevano trattenuto, ha fatto una brutta smorfia che si è trasformata in un sorriso da bambino. 

«Merda… mi sembra di aver mangiato un ratto» ha borbottato.

«Non mi sembra ci fosse stata carne di ratto nei panini di ieri» ho obiettato. 

Fausto ha schiuso le labbra per dire qualcosa, ma le parole gli si sono congelate prima di abbandonare quella lingua ispessita dal sonno e dai postumi. Ci ha riprovato, con maggiore determinazione, ma niente… Mi ha stretto in un abbraccio, mi ha baciato di nuovo la fronte – DeeDee, DeeDee… povera piccola – ha detto, scavalcandomi e saltando giù dalla mansarda, per atterrare nel corridoio del camper con un “oplà”. 

«Non ci avete svegliati» ha protestato, borbottando, rivolgendosi a Giulio, al volante, e a Monica con una vetusta cartina stradale cartacea spiegata sul cruscotto davanti al sedile del passeggero. 

«Eravate maledettamente carini» si è giustificata la seconda, girando il busto all’indietro e allungando un braccio, in cerca di un bacio da parte di Fausto, che l’ha accontentata, abbracciandola di sbieco.

«Buongiorno anche a te» lo ha salutato Giulio, che si è girato al tocco della mano di fausto sulla sua spalla, lasciando la presa del volante per rispondere con un pat pat sul dorso della mano di fausto. 

«Buongiorno a te» ha risposto, accennando un inchino grottesco. Dopo alcuni istanti di silenzio, gli occhi di Fausto hanno incrociato quelli di Monica, Monica ha scambiato uno sguardo con Giulio, i due uomini si sono guardati ancora e sono scoppiati, tutti e tre, a ridere. 

«Cosa cazzo è successo ieri sera?» ha chiesto Giulio, squassato dalle risate e con le lacrime agli occhi che faticava a domare lo sterzo del camper in corsa. 

«Io non me lo so spiegare» ha risposto Monica, in affanno, per ritrovare tutta quell’aria che il ridere aveva sottratto dai suoi polmoni. 

«Io… io, boh… non ho parole» replicò Fausto. 

I tre infine si sono girati verso di me che nel frattempo ho raggiunto, abbandonando quel nido caldo e dall’aria viziata, in cui ho lottato contro il freddo e la scomodità con la complicità di Fausto.  

Muti, mi hanno osservato, sorridendo. Nei loro occhi c’era qualcosa che io non conoscevo. Ed è stata Monica a infrangere il silenzio.

«Chiunque tu sia, dea furiosa che ti sei impadronita di questo corpo, non fare del male alla brava ragazza che ti ospita» ha detto, sollevando le mani e giungendole in preghiera davanti alla fronte, china verso di me. 

Mi sono voltata, pensando si stesse rivolgendo a qualcuno alle mie spalle, ma no, non c’era nessuno a parte Siouxsie la Gallina che, appollaiata nel lavandino del bagno, cercava di fare un uovo tra starnazzi e improperi strazianti. 

«Monica sono io, Dorotea, ed è da decenni che è stata provata l’inesistenza di divinità ultraterrene od eventuali possessioni ad essi riconducibili» ho fatto notare, sorpresa del fatto che Monica, per quanto possa essere considerata oggettivamente “originale” e fuori statistica, non mi sembra quel tipo di donna che possa credere nell’esistenza di dio. Davvero esiste ancora qualcuno che sente il bisogno di avere un’anima da salvare, nutrire e proteggere da un male che trascende il nostro controllo?

Fausto ha sbuffato, o forse era un sospiro, Monica ha alzato gli occhi al cielo e Giulio ha scosso la testa in segno di sconforto e diniego.

«Monica, perdonala, è una causa persa, ma ci sto lavorando – ha detto Fausto, passandomi un braccio attorno al collo – questa ragazza non sa cosa sia l’ironia e di tutte le lordure e le porcate fatte nel nome del Buonsenso, questa, è la più subdola delle ingiustizie» ha sentenziato, diventando cupo. 

«Non saprà cosa sia l’ironia ma, capperi, sa come stare su un palco!» ha detto Monica.

«Perché state parlando di me come se non fossi presente? Anche questa è una forma di ironia?» ho chiesto ma poi, all’improvviso, ho ricordato e tutto mi è stato chiaro. 

I lividi sugli stinchi, i capelli appiccicosi di birra, i graffi sulle braccia. Il taglio sul labbro superiore, la cui tenera carne ha eroicamente protetto, sacrificandosi, i miei incisivi dall’urto con il microfono stretto in un pugno che mi si è rivoltato contro. È stata una lucida follia. Una psicosi collettiva ed una suggestione corale. Da quando Fausto ha battuto quattro con le bacchette a quando Giulio ha lasciato vibrare le corde dell’ultimo accordo… 

Qualcosa deve avermi posseduto per davvero. 

Sono già stata ad un concerto, è ovvio… ho sempre amato la musica, ma l’intrattenimento e lo spettacolo nelle grandi arene, costruite e gestite dalla Woland Corporation, non ha nulla a che fare con quello che ho vissuto questa notte. 

I concerti del 2040 avvengono in piccole città-fortezza, che ricordano l’urbanistica di certi borghi medievali e quel complesso sistema di mura e portali di accesso tra un settore e l’altro. Una volta varcato il grande portone centrale, il percorso recintato si apre su una grande area in cui è possibile convertire i propri crediti, in gettoni utili solo dentro quelle mura. Fuori da lì, quei gettoni, non hanno alcun valore mentre all’interno sono essenziali per acquistare i beni esposti – i cui i prezzi sono espressi in cifre esadecimali – nei diversi presidi delle aziende sostenitrici dell’artista. 

I gettoni servono anche per poter scattare foto e condividerle sui propri diari digitali, mangiare, bere o usufruire delle toilettes. 

Oltre la piazza centrale, superate le seconda mura, ecco che si arriva nel cuore dell’arena dove si svolgerà il concerto che è così organizzato: al centro di una dozzina di cerchi concentrici, si erge il palco diviso in un numero variabile di spicchi. I settori vengono popolati in base ai dati di ascolto della piattaforma di musica digitale Woland. Maggiore è il tuo punteggio all’interno della piattaforma (numero di fedeli della comunità elettronica, frequenza delle interazioni, acquisto di accessori e dispositivi a tema o pacchetti extra, fedeltà alla linea e allo stile dettati dal genere musicale, per esempio) maggiore è la possibilità che la scaletta dell’esibizione sia fedele alle tue abitudini di ascolto e, il posto che ti spetta di conseguenza, è all’interno dei settori più prossimi al palco con accesso esclusivo e quindi minore possibilità di entrare in contatto con altri utenti di classi inferiori. Chi può sedere in prima fila, insomma, ha la certezza di assistere ad uno spettacolo che soddisfa appieno le proprie aspettative. Mano a mano che si arretra, invece, i settori sono sempre più popolosi e raggruppano persone che non hanno espresso le stesse preferenze in quanto alle canzoni che avrebbero voluto sentire e in quale ordine. 

E così la musica, distribuita per settori attraverso diversi canali radio e impulsi nervosi captabili dai dispositivi occhio-orecchio, raggiunge ogni singolo abbonato che ha pagato il biglietto per varcare la soglia di una delle grandi arene della musica dal vivo della Woland Corporation. 

Ballerini e attori, distribuiti strategicamente attorno al totem a led che si erge al centro del palco, accentuano i 100 BPM standard (che le analisi sostengono sia il tempo ideale – e quindi l’unico possibile – per le esibizioni dal vivo) con coreografie frenetiche, cambi d’abito e spettacoli pirotecnici.

Ai musicisti sotto contratto della Woland spetta solo il compito di registrare la musica, che viene generata dagli algoritmi determinativi, per poi perdere qualsiasi diritto di reinterpretazione  anche in occasione di feste private, esibizioni amatoriali o diletto personale. 

Un musicista può suonare la musica che ha inciso, per cui è stato retribuito e per cui è conosciuto dalla sua comunità elettronica, solo a patto che non commetta errori. Una cattiva interpretazione rappresenta un vero e proprio atto di vilipendio nei confronti della Woland Corporation, poiché costituisce un danno alla sua immagine. 

Ed è stato così che abbiamo messo fine alle proteste dei musicisti: ad ogni artista che commette un errore durante un’esibizione dal vivo o ha atteggiamenti, frequentazioni od opinioni che si discostano dal dogma e dal canone Woland, vengono decurtati alcuni crediti (anche noti come “Punti Autorevolezza”) ed è obbligato al pagamento di severe sanzioni.  

Ogni passo falso costa crediti, credibilità e l’abbandono dei propri fedeli, poiché i Punti Autorevolezza fanno la differenza tra un artista credibile e capace di influenzare i consumi e le opinioni, da un artista che non promette alcun tipo di ricompensa sociale o passepartout per le élite della propria comunità elettronica. 

Ci sono artisti che è bene ascoltare, leggere, indossare, esibire e seguire ed altri che piacciono solo ai perdenti. E nessuno vuole essere un perdente. Non lo volevamo prima del Grande Rogo Civile del ‘25 e non lo vogliamo adesso, in questi anni in cui il fallimento personale è calcolabile e misurabile con criteri scientifici. Desideriamo tutti piacere agli altri e ora abbiamo la possibilità di conoscere e dimostrare il nostro valore attraverso una valutazione imparziale, oggettiva e libera dagli inganni della percezione che abbiamo di noi stessi. 

Quando la Woland Corporation ha proposto di fare a meno dei musicisti durante i concerti, e di preferire delle registrazioni coreografate, nessun artista aveva ormai più voglia di protestare. 

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

12 giugno 2040 – Linea Cadorna, Monte Orsa. Distretto montano della Valceresio.

Il nostro tour è partito dalla provincia.

Non ricordavo più cosa volesse dire vivere sconnessa dal mio dispositivo occhio-orecchio. L’avanguardia della tecnologia, della modifica del corpo e il design di innesti magnetici microdermali che nascono dietro al padiglione auricolare, brillano di luce pulsante sulla tempia e strisciano sotto il sopracciglio per agganciarsi ad un gioiello di acciaio chirurgico a ponte, nella parte alta del naso, tra i due bulbi oculari. 

Da quando ho disarticolato il mio dispositivo dal servitore della rete della Woland Corporation, devo essere io a capire, per esempio, se ho voglia di patatine fritte e dove posso trovare la friggitoria più vicina e più quotata dalla comunità elettrica.  

Devo essere io a bere quando ho sete e ricordarmi di farlo. 

Non ho il conforto di un immediato riscontro in merito a ciò che indosso o ascolto o frequento. Né di ciò che penso. Dobbiamo essere noi a scegliere, a prendere le nostre decisioni.

E infatti ci siamo persi. 

Siamo finiti in mezzo ad un bosco e lasciato il camper a lato della strada, per evitare una fusione del radiatore surriscaldato dalle fatiche della salita impervia e degli imperturbabili tornanti, le curve a gomito e a zig-zag, indifferenti alla sofferenza del vecchio camper di Monica. 

Abbandonata la pianura piastrellata della grande metropoli di Milano, non c’è rettilineo che non si trasformi, all’orizzonte, in una svolta. Curva che non sia in discesa o salita che non nasconda una rovinosa china dietro al suo picco.  

Abbiamo visto il paesaggio cambiare. Addio città-fabbrica e addio città-commerciali. Addio campi lasciati incolti dalla pianificazione agricolo-economica del Buon Senso. Addio tele-strada regolare e magnetizzata su cui non è necessario essere vigili alla guida. Una volta entrati in Provincia, disarticolati i nostri dispositivi e afferrato il volante, la strada ha cominciato a inasprirsi e lungo la nostra prospettiva, si stagliavano le prime colline. Soffici collinette ricoperte di un verde rigoglioso e brillante, in principio, ma poi il verde si è fatto sempre più cupo, fino ad alternarsi a rocce grigie, ruvide e dall’aspetto minaccioso.  

Sbucando oltre una lunga galleria, ci hanno accolto  cinque vette aguzze a saturare la nostra vista. Oltre quelle vette brilla il Lago di Lugano e la costa Elvetica. Ed è lì che abbiamo progettato di fuggire nell’eventualità che qualcosa vada storto in occasione del nostro primo concerto clandestino. 

Abbandonato il camper abbiamo deciso di proseguire a piedi, grazie alle indicazioni scarabocchiate su un foglietto da Fausto,  intanto che parlava con un arcaico telefonino cellulare con A. del collettivo clandestino alla regia della nostra prima data del tour. 

Monica stava legando la sua gallina con un guinzaglio fuori dal camper, quando abbiamo sentito alle nostre spalle una voce maschile che ricordava, però, il tubo di scappamento di un mezzo a motore. 

 «Non vi conviene lasciarla lì, a meno che non vogliate applicare il protocollo D.E.A.T.H. alla gallina. Qui – disse alzando entrambi le mani come a verificare che non piovesse – vivono liberi e selvatici diversi animali come leprotti, tassi, cinghiali e volpi ghiotte di tutto ciò che ha le piume e il becco!» aveva detto il ragazzo con la voce a scoppio, accogliendoci con un grande sorriso giallo di nicotina. 

Dopo essersi presentato stringendoci le mani ed abbracciandoci, si è acceso una sigaretta davanti a noi ed io ho abbassato lo sguardo per la vergogna. 

«Volete? – ci ha chiesto porgendo il pacchetto – ne abbiamo scoperto, e continuiamo a farlo, a quintali qua tra le montagne!» 

Lo sapevo. Conosco la storia di questi luoghi eppure ho ascoltato volentieri il suo racconto di queste montagne, rotta di contrabbandieri e criminali in fuga. Durante le mie indagini preliminari e la pianificazione dei concerti, ho svelato parte dei segreti che questi boschi nascondono. E ricordo, che nel farlo, la mia pelle si era ricoperta di puntini in rilievo e mi si era rizzata la peluria sulle braccia, intanto che un brivido strambo mi ha attraversato il corpo. Ho tremato nonostante le miti temperature di una Primavera inaspettatamente così calda, da ingannare persino le lucertole che, irrompendo tra le crepe del cemento,  si scaldavano alla luce degli schermi pubblicitari. 

Ero a conoscenza del fatto che determinate emozioni potevano generare dei corto-circuiti sensoriali, come tremare anche se non fa freddo, appunto, o svegliarsi in un bagno di sudore persino in pieno Inverno. Ridere fino a lacrimare o ridere nel pianto. Il Buon Senso mi diceva che sarei dovuta stare alla larga da un posto del genere, ma avevo sentito una sorta di livida attrazione per la storia, meschina e sbagliata, di quei boschi. 

Luoghi di sofferenza.

«Tra queste vette nessuna guerra è mai stata combattuta, eppure ogni singola pietra deposta è frutto della miseria, dello sfruttamento e della follia militare» ci ha svelato Signor Nicotina, Monossido di Carbonio, Catrame ed Ammoniaca.  

Ci siamo guardati intorno. Ai lati del sentiero, che aveva smesso di assomigliare una strada da troppo tempo, all’ombra degli alberi e tra il marcire e il rigenerarsi delle foglie in humus, facevano capolino delle cupole di pietra con scorci, finestrelle e feritoie scolpiti nella roccia per far passare luce, aria e la canna di un fucile. 

Messa al sicuro Gallina Siouxsie abbiamo proseguito il nostro cammino con basso, chitarra, gli zaini e il resto della strumentazione sulla schiena. Ci hanno raggiunto, superandoci, altre persone cariche all’inverosimile; chi di panini, chi di birre in lattina ammassate in grandi bidoni di latta adattati a zaino o grosse giare di pioppo intrecciato sorretti con fasce in tensione sulla fronte. 

«Questo è l’ultimo carico, Ballard» ha detto una ragazza dalla larghe spalle e le braccia ricoperte di brutti tatuaggi, appoggiando a terra una cassa che teneva in bilico sulla testa. L’urto col terreno ha dato origine a sbuffi e nuvole di polvere, provocando alcuni colpi di tosse in serie alla ragazza che non si è preoccupata, però, di coprire la bocca con l’incavo del gomito né tantomeno, di disinfettare il perimetro di aria che la circondava. Ho abbassato lo sguardo, ancora una volta, per la medesima sgradevole sensazione che si avverte nel vedere il pus di una ferita infetta e le gocce di sudore di chi perde il controllo dove altri resistono.  

“Credo che il bosco non sia regolato dalle stesse leggi della città e così chi li vive” ho pensato.

 «Questa volta ti sei superata, Lara. Dove ne hai trovati così tanti?» ha chiesto un altro ragazzo che ricordava un cyborg mutante, con una grancassa sulla schiena, aste agganciate a gambe e braccia, cavi che si attorcigliavano come serpenti attorno al collo e un mixer al posto del torace. 

«Non ne ho la più pallida idea. Lo sa la Dea, lo sa! Non mi è mai successo di avere così tanta fortuna. Ma al momento spero solo di darli via tutti per non doverli riportare giù! Pesano, mannaggia. Pesano così tanto che sto rivalutando la mia posizione in merito alla piattaforma digitale di Willy Wonka!» ha detto scoppiando a ridere, seguita da Ballard e il cyborg avvolto nei cavi. 

«Willy Wonka?» ho chiesto senza ottenere risposta, poiché il bottino di Lara ha catalizzato l’attenzione di tutti i presenti, compreso Fausto che si è inginocchiato, come in preghiera, verso la cassa. 

Al suo interno: decine e decine di musicassette, CD e vinili proibiti con teschi, robot, esplosioni nucleari, bestie feroci, filo spinato, armi e bombe a mano, divinità terribili, città in rovina e motoseghe disegnati sulle copertine. Erano uguali a quelli dell’illecita collezione di Fausto. Simili a quei dischi sequestrati dai Tutori della Serenità e che ci erano stati assegnati dalla Woland Corporation durante la nostra officina di lavoro nei primi giorni di Primavera.  

Strani soldati senza bandiera: un radiodramma partigiano di RadioCane.

Strani soldati senza bandiera: un radiodramma partigiano di RadioCane.

Dal blog di RADIOCANE

Strani soldati, quelli riesumati dalla penna di Giulio Questi, che come «uccelli portati dal vento di montagna» vagano per imprecise latitudini e oniriche curvature del tempo «alla ricerca di combattimenti e di cose da mangiare». Partigiani le cui storie non indugiano nella dolcificante agiografia dei giusti, ma hanno piuttosto il sapore schietto e amaro di una polenta bruciata; ad ascoltarle la Grande Storia si fa minuscola e feroce e i suoi attori vili e coraggiosi al tempo stesso, impegnati in una guerra di montagna noiosa e avventurosa, misera e felice, tenera e spietata, «una specie di grande educazione verso la vita, la morte e la natura».

È da questo straordinario repertorio di resistenza alla fame e al freddo, prima ancora che al piombo delle brigate nere, che abbiamo attinto per la realizzazione di questo radiodramma.

Atto primo: La Valle del Bergamino Impiccato

In cui si narra  di una valle innominabile schiacciata sotto il barbacane di un diga e di un villaggio abitato da strani soldati senza divise e senza bandiere che giocano a carte, prendono il sole e aspettano qualcosa di grande. Poi arriva la pioggia e delle speranze rimangono solo gli spettri. Qualcuno bussa alla porta: sono tre fantasmi incrostati di sale.

Musiche originali composte e eseguite dal Kalashnikov Collective.

Atto secondo: Un sogno di ghiaccio e buio

In cui si narra dell’arrivo di un Comandante con scarpe di gomma, giacca bianca e due occhi celesti che sembrano sorridere. Gli uomini raccolgono i loro stracci per inseguire forse qualcosa di bello, forse solo il peggiore dei sogni, fatto di ghiaccio e buio.

Liberamente tratto dai racconti di Giulio Questi. Musiche originali composte e eseguite dal Kalashnikov Collective.

Atto terzo: Un fottuto casino. La battaglia.

In cui si racconta della battaglia di B., della sua sottintesa simbologia mistica, di come si possa entrare nella storia pur essendo indisciplinati, scalzi e affamati. Perché il mondo è tutto ciò che accade, ma quando accade è solo un fottuto casino. A chiudere: una diga, il dilagante nulla della sua monotona materia e la voce di un fantasma.

Liberamente tratto dai racconti di Giulio Questi. Musiche originali composte e eseguite dal Kalashnikov Collective.

I MORTIFICATORI | IL PODCAST

I MORTIFICATORI | IL PODCAST

Chi sono i mortificatori? Perché sono così interessati alle forme d’arte più radicali? Partendo dal presupposto che la pazzia è anche un godimento dei sensi, i loro adepti cercano nuove vittime tra i giovani artisti emergenti, i più sensibili alle sirene dei soldi, del successo e dell’egocentrismo, i più golosi di droghe e perversioni. I mortificatori sono consapevoli che dei soggetti così creativi possono andare in pezzi, appena un grammo di caos penetra nelle loro fragilità.

Il confine che divide l’arte dalla morte è troppo vago, chi potrebbe dire dove uno finisce e l’altro inizia. Per scoprirne il segreto si narra che questa setta misteriosa utilizzi la tortura mascherata da body art.

Leggenda metropolitana o realtà? Toccherà a Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.

Un romanzo che offre le chiavi per capire questi tempi feroci e quali pericoli si nascondono dietro la ricerca forsennata dell’apparire sempre sull’onda degli estremismi mediatici, religiosi o politici, in una società dove di estremo c’è solo la solitudine.

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Mai mangiato il gyros in vita mia. La cucina greca è approdata nel post-aperitivo urbano che già non mangiavo bestie e poi i miei vecchi hanno mangiato male in un ristorante greco a Parigi nel 1992. Leggi l'articolo qui
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