2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Per i politici, gli uomini d’affari e i comuni consumatori il datismo offre tecnologie all’avanguardia e nuovi immensi poteri. Anche ad accademici e intellettuali permette di rivelare il Sacro Graal scientifico che è sfuggito loro per secoli: una sola teoria onnicomprensiva che unifichi tutte le discipline scientifiche dalla musicologia all’economia e alla biologia. Secondo il datismo, la Quinta sinfonia di Beethoven, una bolla finanziaria e il virus dell’influenza sono soltanto tre pattern di un flusso di dati che può essere analizzato usando gli stessi concetti di base e gli stessi strumenti. Quest’idea è estremamente attraente. 

Homo Deus, YUVAL NOAH HARARI

L’idea sulla carta sembrava vincente. 

Sedevo in una trattoria minimalista, che serviva solo cibo color arancio, insieme a quelli che erano i miei colleghi dell’ufficio “analisi dei sentimenti” della Woland Corporation, una grande multinazionale presente in ventisette paesi del mondo. Bevevamo vino da centotrentatré euro a bottiglia, ottenuto da uva dal DNA modificato per ricordare il colore del tramonto. Era stata una nostra invenzione, la mossa giusta che ci aveva fatto ottenere quell’ambito premio aziendale al merito, per cui stavamo brindando in occasione della festa mensile dedicata alla socializzazione tra dipendenti del colosso sino-russo. Il vino, una volta stappato e fatto decantare, cambiava colore seguendo le mille e una sfumature del sole che tramonta per poi diventare nero come la notte. E, insieme al colore, aumentava la gradazione alcolica passando dai 5° di un leggero aperitivo, per arrivare ai 15° di un cocktail annacquato. Alta ingegneria genetica e una scientifica strategia di comunicazione, per un vino che era composto per il 65% da inchiostro e sintesi. Ma i consumatori lo trovavano romantico e in quei tempi, dati alla mano, la passione e l’emotività erano tornate sulla cresta dell’onda dell’intrattenimento a pagamento. Da noi venivano editori, politici, discografici massoni e industriali a capo di corporazioni che producevano dalle merendine ai sex-toys. L’analisi dei sentimenti stava alla base di ogni decisione commerciale e diplomatica. Il mio lavoro consisteva nel mappare e misurare le cyber-emozioni attraverso un sistema metrico basato sulla vanità, individuare uno schema ricorrente e passare le informazioni ai miei colleghi specializzati nella formulazione dell’algoritmo. 

Il popolo dichiara pubblicamente, di fronte alla propria comunità elettrica, ciò che acquista, mangia, ascolta e pensa poiché indossare quelle scarpe, seguire quella dieta o quel guru,  sostenere o aborrire quella opinione in merito ad una determinata questione sociale, politica o mondana, è motivo di vanto e appartenenza. Qualcosa da esibire, come la felicità di essere ciò che siamo, a proprio agio nelle nostre identità additive di bambole con mille accessori intercambiabili in dotazione. Ogni scelta, una volta individuato lo schema, può essere prevista, suggerita, corretta e appagante, anticipandone il desiderio.  

Io leggevo, osservavo e scavavo nei meandri dell’iperspazio. Ed ero brava in questo, perché non mi fermavo mai a ciò che era manifesto e fatto alla luce del sole, con filtri “bellezza” e innumerevoli scatti scartati a causa di pappagorge traditrici o rotolini di adipe svelati da elastici e cuciture. 
Senza troppa fatica era facile scoprire il sottotesto: noi della Woland abbiamo, dopotutto, accesso agli impulsi neuronali di tutti gli utenti che indossano un dispositivo occhio-orecchio. E se un tempo esistevano cronologie di navigazione da cancellare, musica da ascoltare soltanto quando si è soli, articoli morbosi letti con vergogna di cui non parleresti con nessuno, domande sussurrate in cerca di una diagnosi medica o parole chiave digitate con una mano sola, intanto che l’altra è nelle mutande alla ricerca di un colpevole piacere… adesso ci pensa l’algoritmo a mostrarti quello che vuoi liberandoti dal senso di colpa, la vergogna o l’abulia del dover scegliere tra le infinite possibilità. Che si tratti di cosa mangiare a pranzo o su cosa masturbarsi. 


Ecco, fu proprio da lì, dalle tendenze nella pornografia, che mi accorsi con grande e inaspettata meraviglia, che i video più popolari, suggeriti dagli impulsi neuronali, erano quelli in cui c’era una storia e che il ritmo di questa storia, spesso, era sostenuto da un concatenarsi di invidie, drammi della gelosia, competizione e faide tra classi sociali, ambientate in epoche passate. Ritmo accentuato da una sincopata tensione narrativa che esplodeva, risolvendosi, in grandissime scopate appassionate.

Quella mattina avevo fissato un appuntamento con il mio capo e i miei sette colleghi presenti in ufficio, usando i nostri dispositivi occhio-orecchio. Sette diversi bip, con uno scarto di qualche secondo, notificarono l’invito. Dopo un’altra manciata di secondi mi arrivarono cinque conferme su sette. Il mio collega seduto accanto a me – responsabile della moderazione delle polemiche accese dai nostalgici carnivori – era impegnato in una video-chiamata con la responsabile delle attività extra-lavorative. Il mio superiore mi inoltrò una proposta di anticipare l’incontro di otto minuti. Tolsi il dispositivo occhio-orecchio agganciato alla tempia, feci un giro di 90° sulla mia sedia girevole e chiesi ad alta voce se agli altri andasse bene, ma tutti erano rapiti come falene dalla luce dei monitor e non ottenni risposta. Tutti, tranne l’addetta allo svelamento delle superstizioni e pulsioni anti-scientifiche che annuì, dicendo:
«A me va bene, ma aggiorna l’evento sul calendario condiviso se non ti dispiace»§«Ok, va bene» risposi e altre sette volte i nostri dispositivi occhio-orecchio suonarono per allertarci. Ottenute le sette notifiche di conferma, aspettai i tre minuti che mi separavano dall’ora proiettata in caratteri verde acido oltre la mia retina, mi alzai per andare verso la sala riunioni e così fecero gli altri. 
«Ho sedici minuti e quaranta secondi – disse il mio capo, impostando un orologio digitale a forma di cubetto di ghiaccio al centro del tavolo – parla».

E così, in sedici minuti e trentasei secondi, raccontai cosa avevo scoperto.
«La comunità elettrica ha bisogno di passione» dissi, e illustrai la mia tesi con diverse diapositive con il logo aziendale, grafici a torta e statistiche illustrate, che confermavano ciò che era già intuibile dal titolo della presentazione e cioè: “Tutto è misurabile? Come trasformare la fidelizzazione del cliente in apparente passione, attraverso la trasmissione e il contagio degli ideali liberali”. 

Tra gli intellettuali e i dissidenti dell’epoca delle Democrazie Apparenti, andava molto forte una teoria argomentata e divulgata con cinismo, rassegnazione e con un’implicita sfumatura di biasimo e condanna: la critica verso la società, a loro contemporanea, era quella di non saper imparare nulla dalla Storia e dagli errori del passato. Ed ecco che ogni giorno si vestiva a festa per ricordare quella violenta strage da non perdonare, un olocausto da non ripetere o quelle vittime, seppur generosamente vendicate, da non dimenticare. Nulla di più falso. Ogni individuo e ogni essere vivente (del regno vegetale e animale) lotta per la propria sopravvivenza e, razionalmente, non dovrebbe commettere errori fatali, fare scelte controproducenti o assumere atteggiamenti autodistruttivi per se stessi o la propria specie a cui trasmette, attraverso i geni, queste informazioni essenziali. Questo sul piano razionale, appunto.

Prendiamo ad esempio il cosiddetto “vizio” del fumo, palese manifestazione delle assurde gabbie mentali, delle menzogne confortanti e dell’irrazionale e sconfinata ricerca del profitto di quell’epoca. 
Fumare il tabacco è un inutile passatempo dispendioso, che crea dipendenza psicologica, fa venire il cancro e causa gravissimi danni all’apparato broncopolmonare e al sistema cardiovascolare. Eppure, ai fumatori, non sembrava importare quanto il rapporto tra vantaggi e svantaggi fosse sbilanciato verso questi ultimi. E su questa anomalia, nell’elaborazione e nella lettura ed interpretazione dei dati, che si inseriva l’avidità delle lobby del tabacco, il cui potere influenzava quei governi da cui però ci si aspettava che curassero tutti quei malati, sulla cui infantile rivendicazione di libertà,   l’industria del tabacco traeva un generoso profitto. 
Non fu facile individuare e correggere il bug di quello schema secondo cui, sia le vittime che i carnefici, condividevano il medesimo desiderio: essere liberi di vendere e fumare sigarette, sentirsi liberi di fare e farsi del male. Ma una volta formulato l’algoritmo e dopo una serie di azioni chirurgiche di propaganda e repressione, nonostante  la tenacia kamikaze delle parti coinvolte (i fumatori e i venditori di fumo) si arrivò alla definitiva e razionalmente ovvia distruzione dell’industria delle sigarette, la messa al bando del fumo nei luoghi pubblici e privati e, di conseguenza, l’eliminazione di una gravosa voce passiva dal bilancio del sistema sanitario nazionale.

Era stata la Woland Corporation, grazie al suo sterminato archivio di dati e ai suoi processori, a individuare l’anomalia, a correggerla e a sconfiggere l’industria del tabacco. E fu proprio così che la Woland Corporation cominciò ad analizzare ogni cosa. 

Una volta individuato lo schema e formulato l’algoritmo fu chiaro per tutti e tutte – così per i miserabili che per i burattinai di questi ultimi – che guerra, povertà, ingiustizia e violenza erano da imputare all’irrazionalità, all’imprevedibile sentire, alla furia del ventre e alla follia del sognare di essere liberi, desiderare il potere e sperare di ottenerlo o mantenerlo.  La democrazia, allora, è stata sostituita da analisi scientifiche e calcoli statistici atti a creare proiezioni di ogni possibile scenario, al fine di valutare la scelta più conveniente per la stabilità sociale e, questo metodo, viene applicato anche alle scelte intime e private dei cittadini, circa gli amici da frequentare e i partner a cui legarsi. Così come per il concetto di bello, giusto o buono. 

L’algoritmo è in grado di vagliare infinite possibilità in un lasso di tempo irrisorio, inimmaginabile per la mente dell’uomo. L’algoritmo, inoltre, è più fedele alla realtà rispetto alla narrazione che facciamo di noi stessi e di ciò che ci circonda, perché non subisce l’influenza del vociare del nostro intimo soffrire, la pressione delle aspettative sociali, i ricatti affettivi e i pregiudizi culturali tipici così dei singoli individui come della coscienza delle società e dei gruppi sociali. L’algoritmo raccoglie i dati e li elabora. Punto. L’algoritmo sa prendere le decisioni giuste per noi. Anche se sono difficili e impopolari o molto lontane dalla nostra idea di etica e morale. L’algoritmo non conosce paura e insicurezza. Sia che si parli di gusto del gelato o di diritti umani. È una questione di buonsenso.

Immagine in evidenza elaborata da un dettaglio di un disegno di Miles Johnston.

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

STATI DI AGITAZIONE

«Andrà tutto bene» dico al mattone che fisso da circa un’ora.

Mi fanno male le braccia. Maledette appendici sottomesse alla forza di gravità. Dovrebbero stare giù e dondolare come orecchie di cocker e non in questa innaturale posizione di corna di cervo. Ma se tiro giù le braccia, l’uomo alle mie spalle urlerà qualcosa in una lingua che non comprendo, ma che mi fa paura.  

Indossa la mimetica, un passamontagna e un mitra a tracolla come se fosse una BC Rich attaccata al diaframma di un metallaro o di un musicista di liscio.  

«Metallari e animali da balera… Solo loro disdegnavano l’estetica grunge di uno strumento all’altezza dell’inguine, in favore di una maggiore resa tecnica. Loro, con le loro chitarre appuntite ad altezza capezzoli e i gomiti alti come zampe di cavalletta» mi aveva raccontato Fausto, parlando degli anni Venti, all’inizio di questa storia. 

Mi chiedo perché mi torni in mente, proprio ora, questo frammento di conversazione di quella notte. La notte in cui tutto è cominciato. 

Ma la memoria gioca strani scherzi e a volte riemergono ricordi che non reputiamo importanti e al contrario, di questioni considerate fondamentali non rimane che una scia lontana e sfocata alle nostre spalle. 

Rammento molto bene, per esempio, la prima volta in cui Fausto mi ha fatto ridere fino a togliermi il fiato. E adesso che ho paura di morire, non ricordo più come si fa. Vorrei trovare divertente quest’uomo alle mie spalle, dalle manifeste e cattive intenzioni, con le dita sul suo strumento –  che è un fucile e non una BC Rich, non me lo devo scordare – simile ad una cavalletta gigante, pronto ad affrontare un riff in crescendo che leva il respiro. Il mio respiro.  Prana Apana Sushumna Hari.

Il torace: cassa di risonanza di questo battito assordante e del mio affanno, che è musica violenta e mi anima e mi soffoca, come ovatta infilata giù per la gola di una bambola a cui hanno staccato la testa. 

Come faccio a soffiar via il male cantando, se non ho più fiato in gola?

«Gente bizzarra i musicisti che ci tengono a suonare bene. Si contavano sulle dita di una mano» aveva aggiunto Fausto, ricordo. 

Si contano sulle dita che mi rimarranno attaccate alla mano, risparmiate dalla cancrena, quando tutto questo sarà finito. Quando mi sarà chiaro cosa ne sarà di me e degli altri quattrocentoventidue ragazzi, con la faccia al muro e le mani alzate sopra la testa. Quando capirò cosa è andato storto e come ci sono finita con un fucile puntato tra le scapole, in un night club sconsacrato con neon rotti, velluti pieni di pulci ed affreschi rinascimentali vandalizzati che ancora conserva le cicatrici del Grande Rogo Civile del 2025.