«Conosci i tuoi nemici» pensa l’agente nascosto nell’ombra, studiando i membri della band che è appena scesa dal palco, intanto che ripongono gli strumenti nei foderi, scambiano battute e commenti su accadimenti ridicoli, stappano birre e non smettono di sorridere un instante. Prova pena per loro. Una bollita di quarant’anni vestita come un clown con un gatto morto in testa, un dirigente che da troppe settimane non si fa la barba, un padre di famiglia stempiato e una ventenne dall’aspetto ordinario che indossa vestiti più vecchi di lei. «Che accozzaglia di perdenti» conclude l’agente, chiedendosi a quale categoria di sconfitti appartengano. Grazie alla sua esperienza sul campo ha individuato tre tipologie di “rivoluzionari” che tra colleghi distinguono in uomini di latta, spaventapasseri e leoni fifoni.
I leoni fifoni credono di essere i re delle foreste, o ambiscono ad esserlo, ma sono così vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontare il mondo là fuori e, fin tanto che stanno chiusi in questo piano della realtà, possono sognare la rivoluzione ed illudersi di avere un briciolo di importanza e potere. Lo stesso potere che vorrebbero, ma che subiscono, fuori da queste mura e, proprio come nel Mago di Oz, basta lo schiaffo di una giovane donna con le treccine ed un vestito a quadretti che vuole difendere il suo piccolo cane, per smascherare la loro farsa. Essi infatti non sono avvezzi e non tollerano la disobbedienza o il pensiero critico, in quanto non li hanno mai esercitati e vissuti in prima persona, per assenza di coraggio.
Gli spaventapasseri, al posto del cervello, hanno paglia che prende fuoco facilmente. Perdenti, sconfitti ed emarginati in un mondo che obbliga all’eccellenza, si rintanano qui dove non devono far la fatica di pensare, studiare, informarsi e prendere decisioni perché tanto ci sono i leoni fifoni che spiegano loro come vivere, cosa mangiare, come vestirsi, che musica ascoltare, quale battaglia combattere e quale ignorare. Bastano pochi semplici slogan facili da imparare a memoria, grazie alla rima baciata e alla metrica da inno dei tifosi, per dar loro dei riferimenti certi che non saprebbero però argomentare né mettere in discussione. Privati dal sacco che contiene quella paglia, si disperdono con la prima folata di vento, pronti ad obbedire al padrone di turno che li plasma a suo piacimento. E così svolazzano, pronti a prender fuoco, seguendo le correnti.
E poi ci sono gli uomini di latta che hanno rinunciato al proprio cuore per il troppo dolore, le delusioni e le lamiere di sogni infranti che pungono e lacerano il petto ad ogni battito. Meglio smettere di credere, amare, sperare e partecipare perché dove ci sono gruppi sociali c’è il potere e dove c’è il potere c’è ingiustizia. E no, non esiste possibilità alcuna di rompere questo schema e creare una socialità libera dall’oppressione, i giochi di potere, la competizione tra leoni fifoni e l’utile stupidità degli spaventapasseri e allora è meglio strapparsi il cuore e rimanere in ascolto di quel vuoto che può essere colmato dall’ebbrezza, il cinismo e la provocazione.
E Dorothy? In quel film c’era anche una Dorothy con le sue scarpette rosse e l’amaro compito di svelare le illusioni del Mago di Oz e aprire le porte della Città di Smeraldo… Non le capita di picchiare una Dorothy da tantissimo tempo. Non è che gli importi molto poi, al Tutore della Serenità protetto dal suo esoscheletro dai riflessi metallici, ma a volte è così noioso stare lì accucciati nel buio ad aspettare di massacrarli che, per passare il tempo, si diverte ad immaginarli come i personaggi di quel vecchio film. In fin dei conti sia il leone fifone, che lo spaventapasseri o l’uomo di latta, sotto i colpi del suo manganello, piangono tutti allo stesso modo. Eppure non riesce a capire a quale categoria appartenga quella ragazza dall’aspetto ordinario.
L’agente visualizza nel dispositivo occhio-orecchio il rapporto su quella che viene identificata come Dorotea D., classe 2018, ex dipendente della Woland Corporation e scopre che alcune note relative al soggetto sono secretate. La sua posizione all’interno della gerarchia dei Tutori della Serenità, però, gli concede di accedere solo ad alcune delle informazioni criptate. Sono delle istruzioni circa l’imminente operazione. Le legge e le cancella. “Massacrare Dorotea D. chirurgicamente senza rompere ossa o lasciare danni permanenti, concentrare i colpi sul volto, ma senza sfregiarla irreversibilmente”. L’agente non si fa domande e chiude il collegamento con il dispositivo occhio-orecchio. Nulla di quello che accadrà potrà essere registrato. Mancano pochi secondi al via e l’agente guarda per l’ultima volta quella ragazza a cui dovrà rovinare quel faccino acqua e sapone. Dorotea, proprio come la Dorothy di quel vecchio film… «Nient’altro che una coincidenza» pensa l’agente, prima di scagliare il manganello dietro alle ginocchia della ragazza.
«Sei pronta DeeDee?» mi aveva chiesto Fausto, sulla soglia della sala riunioni della Woland Corporation, togliendomi il berretto e spostando i capelli di lato, per mostrare la metà del mio cranio che mi avevo rasato – proprio come in quelle vecchie foto di Guenda – quella notte stessa.
«Chi è Guenda?» avevo chiesto, sfiorandogli il tatuaggio con inciso quel nome, con le dita. «Una che è morta» aveva risposto. «Suonavamo insieme – proseguì – vivevamo insieme, dormivamo insieme e facevamo sesso, sogni, progetti insieme, ma poi ha deciso che era meglio morire piuttosto di realizzare quei sogni con me, fare sesso con me, vivere e suonare con me» disse forzando uno dei suoi sorrisi da clown stronzo, ma fallendo nel tentativo di sembrare divertente. «Forse perché, per lei, io non ero abbastanza speciale e d’altronde nulla lo era per la mia Wendy. O meglio, era tutto così straordinariamente bello o doloroso per cui, alla fine, ogni cosa risultava troppo difficile da gestire. Per Guenda era tutto troppo o troppo poco e ha deciso di non essere niente». Nel dirlo si era alzato dal letto per poi tornare con una vecchia rivista cartacea in mano. Sulla prima pagina che faceva anche da copertina, ed era della medesima carta sottile e ingiallita di ogni pagina, vi era un collage di foto tra cui spiccava l’immagine di una ragazza sul palco rasata a zero per metà cranio e con lunghissimi capelli rossi che le cadevano giù fino alla spalla destra. Urlava in quello che doveva essere un vecchio dispositivo voce – un microfono – che fino agli anni Venti era stato usato per amplificare la voce durante le esibizioni in diretta di musica suonata dal vivo.
«Sei sicura di quello che stiamo facendo, DeeDee?» mi aveva domandato con il rasoio in mano. «DeeDee?» chiesi. «DeeDee. Non ti piace come soprannome? Ne avevamo tutti uno, ai tempi. Il cognome era qualcosa che non ci apparteneva davvero e se lo si usava era per storpiarlo in qualche modo grottesco e unico. Ho avuto amici e amanti con cui ho vissuto, suonato e lottato per anni e ne ignoravo il nome e il cognome, perché smettevamo di essere il figlio dell’operaio o il figlio del banchiere. Smettevamo di essere quello che viveva nelle case popolari o nel quartiere residenziale. Non eravamo più lombardi o siciliani. Eravamo parte di una famiglia tribale che non teneva conto di chi fosse tuo padre e che lavoro svolgesse tua madre. E così avevamo nuovi nomi. Nomi che raccontavano qualcosa di te e, la maggior parte delle volte, raccontavano qualcosa di molto imbarazzante, divertente ed epico. Io ero Fausto detto Panatta, eppure non ho mai giocato a tennis in vita mia, ma quando avevo circa quindici o sedici anni, mi capitò di trovare questo borsone sull’autobus – raccontò mimando con le braccia nude l’ingombro di quella borsa e guardando il vuoto tra le mani, come se fosse ancora in grado di vederla, lì, sotto i suoi occhi – pieno di vestiti puzzolenti e una racchetta. “Il tennis è roba da ricchi” penso, e cerco di barattare quella roba per del fumo al parchetto del paesino di merda in cui vivevo. Da lì gli spaccini hanno cominciato a chiamarmi Panatta, “Panatta che vuole un panetto di fumo” chiosarono e basta, quel nome non me lo sono più staccato di dosso, come un odore, come una pisciata territoriale riconoscibile senza bisogno di parlare» «Ti chiami Dorotea D.? DeeDee! Come Dee Dee Ramone o come le iniziali incise sul tuo dispositivo occhio-orecchio aziendale che indossi con tanta fierezza? Nessuno lo saprà, perché è un nostro segreto. Qualcosa che sappiamo io e te e che nessuno all’infuori della nostra famiglia tribale, può vedere o comprendere» «Oppure DeeDee, come Dorotea Disastro? Sembra il nome perfetto per una poetessa punk o per una cantante di una band» avevo azzardato. «Bellissimo! Dorotea Disastro detta DeeDee! Ho fatto proprio bene ad assumerti, sei brava!» disse prendendomi la faccia tra le mani e scoccando un bacio rumoroso sulla fronte, cominciava a piacermi questo… toccarsi.
«Guarda! Questa era la mia di band al completo» aveva detto, indicando due pagine piene di foto e parole all’interno di un’altra fanzine ingiallita. «Noi eravamo i This machine: Guenda alla voce, Giulio alla chitarra, io alla batteria e Monica al basso». «Ma è lei la donna della metro, quella con la gallina, sai? Come è possibile? L’ho incontrata proprio prima di venire da te!» gli dissi incredula. «Incredibile! Non è cambiata di una virgola allora e il fatto che tu l’abbia incontrata proprio oggi, venendo qui da me, non può essere una coincidenza! Il fato sta cercando di dirci qualcosa – disse alzandosi in piedi sul letto, calpestando le riviste e alzando le mani come durante le meditazioni – Cosa hai da dirmi, destino? Perché hai messo questa enfant prodige dell’analisi dei sentimenti e quella rimbambita kamikaze di Monica sulla mia strada? Quale mistero si cela dietro a tutto ciò, dammi un segno, crudele e oscuro destino ma, soprattutto, quale ruolo ha quella scatoletta di mousse per gatti?» «Posso sapere cosa stai facendo e a chi stai parlando?» chiesi. Fausto mi guardò perplesso e un po’ deluso. «Dobbiamo lavorarci su questo, ok? Questo tuo essere così respingente ad ogni cosa che non può essere misurata e calcolata, mannaggia, sei così… seria. Dovevi vederti! Era una scena divertente e del tutto priva di logica, tu che entri in casa mia con una scatoletta di pesce sintetico frullato in mano, tutta zuppa come una gattina randagia e quell’espressione da monitor del parchimetro!»
Lo stava facendo ancora. Si stava prendendo gioco di me. Imitò persino il mio volto e la mia rigidità espressiva, dicendo “miao”. Ed io provai qualcosa che ai tempi mi era difficile spiegare e capire. Qualcosa che mi riportò all’infanzia e agli scherzi che mi faceva mio padre o a mia madre che mi metteva la crema balsamica sul petto per calmare la tosse, ma mi faceva il solletico e ridevo, ridevo forte nel vedere ridere mia madre e anche quella sera, davanti a Fausto nudo che diceva “miao” imitando la mia espressione di qualche ora prima, lo feci… mi mise a ridere anch’io! E non riuscivo a smettere. Più cercavo di trattenere questa violenza che mi sconquassava il petto e mi toglieva il respiro, mi deformava la faccia fino a far male e mi faceva lacrimare, piegandomi su me stessa in cerca di placare quella che dall’esterno assomigliava ad una danza tarantolata o corrente elettrica che attraversa il corpo folgorato da un fulmine. E più ridevo, più Fausto persisteva nel portare in atto la messinscena, dire “miao”, muovere la sua mano stretta in un pugno come zampette di un gatto, fingere di lavarsi la testa e il muso. Mise fine al mio tormento, strusciandosi su di me, facendo le fusa, mordendomi il collo e trasformando lo scherzo in un gioco per grandi, con la voglia di darmi e ricevere ancora piacere dipinta negli occhi e scolpita in mezzo alle gambe. Ormai la luce dell’alba illuminava tutta la stanza e l’intera città, svelando ciò che avevo perso negando il sentire del ventre, i battiti della notte, la verità dei sospiri e del proprio sudore mischiato a quello di un altro.
Mi svegliai ancora ubriaca, con la testa rasata ed un’idea.
Noi camminiamo lungo i binari del treno e riposiamo sui gasdotti il nostro fiato è il fumo nero di una ciminiera, la nostra stella polare è la luce gialla di un lampione. 2016, Lungo i binari del treno, Kalashnikov collective (orig. “По трамвайным рельсам” by Yanka Dyagileva 1987)
«Sei pronta DeeDee?» mi chiede Panatta.
«Sì, sono pronta» rispondo e salgo su quel palco davanti a così tante persone ammassate l’una sull’altra da ricordare il brulicare del piccolo popolo nella vita batterica dell’humus del sottobosco. Una massa calda e percorsa da battiti, vibrazioni, ronzii, respiri, condensa, puzze, ruvidità, attriti e morbidezza, umidità e ossa dure, giunture spigolose e denti che sembrano candidi sassi. Salgo sul palco del concerto illegale che farà la nostra storia e la storia della musica, perché è dagli anni Venti che non si assiste ad un fenomeno, anche solo paragonabile, in quanto a numero di partecipanti e ore suonate dal vivo di seguito.
In ogni data del nostro tour, lungo 6 stagioni, abbiamo portato con noi chiunque avesse voglia di seguirci o fosse in possesso di uno strumento. C’è chi ci ha seguito con batterie realizzate con pentole e pezzi di elettrodomestici, chitarre ottenute da scatole di legno ed elastici ben tirati, strumenti a fiato ottenuti dai desueti tubi di scappamento di automobili abbandonate e chi ci ha seguito suonando la propria voce o perché non aveva mai visto Mosca o chi non voleva interrompere un discorso iniziato sotto il palco e allora, così come era venuto, è salito sul camper perché certi discorsi non si possono interrompere a metà.
Abbiamo percorso migliaia di km su strade distrutte dalle piogge e dal gelo. Pozzanghere ghiacciate che, come in un contagio, si diffondono di crepa in crepa fino a far sparire il manto stradale. E fango, fango e alberi a perdita d’occhio per ore e ore.
Il nostro contatto russo ha pochi denti in bocca, un sacco a pelo, una spazzola e delle pedine di scacchi avvolte nello stesso asciugamano che dovrebbe usare per lavarsi. Con i denti che gli sono caduti, a causa della carenza di vitamine ed eccesso di alcol tipico di queste lande, ne ha fatto un ciondolo che porta al collo. Ci ha accompagnato per le prime settimane del tour oltre i confini dell’Antica Russia e poi si è fatto lasciare a piedi, nel nulla, con la promessa di ritrovarci a Mosca 5.0 per la data conclusiva del tour. Prima di congedarsi, ci ha fatto tre raccomandazioni:
Non fidarsi mai degli sbirri, che non ha mai accettato di chiamare Tutori della Serenità, perché violenti e corrotti
Non sostare più di 15 minuti all’aria aperta di notte con oggetti metallici in mano, o addosso, per evitare che ci si appiccicassero alla pelle nottetempo
Stare attenti agli orsi
«Come? Come possiamo proteggerci dagli orsi? E quali orsi?» aveva chiesto allarmato Giulio. «Non rimanete mai a secco e non passate la notte in autostrada. Gli orsi hanno lunghi artigli, capaci di dilaniare le lamiere» aveva concluso, allontanandosi coi piedi nel fango oltrepassando quel confine di neve sporca, pozzanghere e bottiglie rotte, dirigendosi verso un nulla siderale fatto di alberi neri, candida neve e molto probabilmente orsi dai lunghi artigli capaci di dilaniare lamiere. «Si sta sicuramente suicidando – aveva commentato Giulio – cerchiamo se ha lasciato un biglietto da qualche parte. Viktoooor – aveva urlato con voce strozzata – Viktoooor, torna indietro!» continuava ad urlare con mezzo busto fuori dal finestrino, intanto che la carovana che si era creata dietro al camper di Monica cominciava a farsi impaziente e a ululare feralmente: “Viktoooor! Viktooor!” tra i clacson e il fragore dei coperchi di pentola adattati a charleston e le botti di legno come grancasse. Viktor si era girato e aveva sorriso con quei due denti che gli rimanevano in bocca e aveva urlato qualcosa che non eravamo stati in grado di comprendere. Lo avevamo dato per disperso eppure è lì, sotto il palco, con la sua aria stropicciata e gli occhi buoni nascosti dalla malinconia di quei lineamenti così marcati dagli anni. Viktor aveva avuto una band piuttosto nota e molto attiva nell’ultimo decennio del secolo precedente. Sebbene non avesse dovuto, come i suoi predecessori, sfidare la censura esplicita del regime comunista che reputava il punk, per esempio, effetto collaterale e marcio del sistema occidentale e, ubiquitariamente, di essere anche troppo critico nei confronti dello Stato, Viktor aveva avuto a che fare con la Russia pre-rivoluzione del Buonsenso.
Un Paese che viveva nel culto della personalità del proprio presidente, in cui a giornalisti troppo curiosi e oppositori politici accadevano strani incidenti con il veleno, i Pride assomigliavano al massacro delle foche sulle coste della Namibia e un collettivo punk, di nome Pussy Riot, venne condannato a tre anni di reclusione e lavori forzati per “teppismo premeditato realizzato da un gruppo organizzato di persone motivate da odio o ostilità verso la religione o un gruppo sociale” a causa di una performance situazionista all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore, in cui nessuno si fece male se non le tre donne protagoniste del concerto improvvisato. Viktor detto “Grob” (che vuol dire “bara” in russo), un vecchio punk di appena 50 anni, nato nell’orribile cittadina mineraria di Mončegorski in cui si estraeva e si lavorava il Nichel destinato al mondo interno, che era cresciuto ascoltando i gruppi imbrigliati dalla dittatura del proletariato, perseguitato dall’ossessione per il controllo della Russia patriarcale e capitalista e infine insterilito dall’attuale sistema del Buonsenso della Woland Corporation & Co. eppure è lì, con la sua collana di denti e una bottiglia di vodka in mano che urla “Davai, davai, porco dio!”. Glielo abbiamo insegnato noi, sebbene le bestemmie non abbiano più molto senso nell’epoca della razionalità laica, in cui nessuno fa guerre in nome di un dio o di un’ideologia.
Nessuno opprime, schiaccia, stupra o si arma per invadere i confini e bombardare le città.
Abbiamo illuminato le nostre città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere ovunque, perché i nostri occhi servano solo ad ammirare quella sezione di tramonto inquadrata dalle finestre del nostro salotto. Non abbiamo bisogno di pregare o bestemmiare perché non esistono angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle. Nessuno abbandona auto, infrage vetri o taglia gomme. Non esistono vicoli bui in cui aver paura o ideali per cui immolarsi.
Non abbiamo bisogno di un dio da ringraziare per il tramonto di questa sera. Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, perché in questo momento storico è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare. Abbiamo vissuto sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli.
Non abbiamo bisogno di bestemmiare perché nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi.
Nell’epoca del buonsenso non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico.
Ed è grazie a Woland se non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede.
Abbiamo dimenticato lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che finivano comunque sotto la terra, ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano.
Ed è merito dell’algoritmo se, adesso, ciò che fa male è illegale. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco e misurare l’esistenza di dio, della sua parola noi non ne facciamo la nostra legge.
Eppure continuiamo a farlo. Preghiamo e bestemmiamo. Ci inventiamo rituali e cerimonie. Celebriamo ogni cosa che amiamo, malediciamo tutto il resto. Ed io, in questo momento solenne che precede ogni concerto, prego il fuoco affinché possa bruciare le mie bugie.
Mi chiamo Dorotea Disastro e vi chiedo di perdonarmi, se potete.
"Il grande rogo del '25" è un romanzo in progress scritto, letto e montato da .
Musiche di Heimat Der Katastrophe.
La canzone iniziale e finale è un'interpretazione di "Lungo i binari del treno / По трамвайным рельсам" by Yanka Dyagileva cantata da me ai tempi dei "tour scemi" (cit.) in Russia insieme ai Kalashnikov Collective. Esperienza che, ovviamente, ha ispirato buona parte di questo romanzo.
Se volete sapere qualcosa di più sui "tour scemi in Russia" trovate tutto il reportage qui.
Ho svegliato Fausto tirandogli una lattina vuota di birra addosso perché tocca a lui guidare fino a Kiev ed io dovrei fargli compagnia, ma lui sta ancora dormendo rannicchiato come una larva di maggiolino riesumata controvoglia, sul sedile del passeggero di quel camper fatiscente, unico superstite dell’incendio che ha devastato l’intera vita di Monica. Il camper, Monica e la sua gallina nera di nome Siouxsie: unici sopravvissuti di una vita randagia da lupa.
Sebbene ci sia andata bene fino ad ora, non possiamo abbassare la guardia e così ci alterniamo 24 ore su 24 alla guida, con turni di quattro ore a testa e poche soste programmate per ridurre al minimo il rischio di essere ripresi dalle telecamere delle centraline di rifornimento. Evitiamo l’autostrada e percorriamo così centinaia di chilometri ogni giorno, che ci portano da una città all’altra toccata dal nostro tour clandestino.
Da stasera dovremo usare tre cifre per contare le notti che ci siamo lasciate alle spalle. Ieri era il nostro novantanovesimo concerto e, questo di Kiev, sarà il numero cento.
L’estate ha lasciato spazio all’autunno ma, ormai da diverse settimane, le temperature ricordano uno di quei rigidi inverni che hanno preceduto l’estinzione dei ghiacciai. Queste terre, ambite mete dei turisti climatici, conservano ancora quel senso di sospensione e prospettiva di chi cela per mesi la propria nudità sotto una spessa coltre di vestiti, e che trasforma l’azione in immaginazione e dimenticando l’impazienza.
So che in passato veniva considerato sconveniente il silenzio e ci si sforzava di intrattenere conversazioni, anche con chi, non si aveva nulla di cui parlare. Esistevano ormai pochi argomenti che non rischiavano di trasformarsi in conflitto e c’è stato un tempo, prima che il sopravvivere alle intemperie diventasse un privilegio, che uno di questi argomenti – neutri, leggeri e versatili – fosse proprio il clima e il succedersi del tempo e delle stagioni.
Che fosse in una sala d’attesa di un medico o nella sospensione claustrofobica di un ascensore, sui mezzi di trasporto pubblici o in pausa caffè a lavoro, con una sconosciuta dietro ad un bancone che ci serve una birra ed un rimedio d’emergenza alla nostra solitudine, lamentarsi del fatto che non ci fossero più le mezze stagioni, era un modo per rompere quel ghiaccio che si scioglieva nel silenzio e nell’indifferenza di troppi, alle estremità opposte del globo. Nell’affermare ciò – questa tesi secondo la quale avremmo dovuto presto piangere l’assenza della primavera, la scomparsa dell’autunno ed il dominio della risolutezza di climi, temperature, festività, ritmi e umori, troppo distanti tra loro, per essere così vicini e appiccicati – si rivelò senza troppa meraviglia precisamente sbagliata. No, non avrebbero sentito la mancanza delle cosiddette “mezze stagioni” ed il buon senso avrebbe presto rese vane e ridicole, quelle invocazioni di concederci di tenere strette a noi l’autunno e la primavera, affinché ci fosse più facile accettare il passaggio di testimone dall’afa e la siccità, al gelo e il buio. Perché davvero non si può passare dai tormentoni pop estivi, dai ritmi latini di cuori anelanti o spezzati, al dondolare di jingle pieni di accenti che balenano come luci natalizie nella capitale del non troppo compianto impero americano.
Sbagliavano, sai che novità, perché nessun funerale è stato celebrato per Signorina Primavera e Signora Autunno dal momento che a sparire, da quella che era considerata la zona temperata al di sotto 60° meridiano terrestre, è stato il tanto ingiustamente odiato inverno che nessuno avrebbe salvato, se non fosse stato per le ferie concesse dalle festività e dalla parziale assoluzione della nostra pigrizia letargica.
Ed eccoci qui, nelle terre in cui l’inverno è reale.
Eccoci qui a imparare (per me) e ricordare (per Fausto, Monica e Giulio che l’inverno lo hanno già vissuto) come sia facile amare per contrasto. Il tepore di un sacco a pelo, dopo aver passato una notte in una fabbrica abbandonata, senza finestre a trattenere il calore e respingere la bufera di neve. Il conforto di un abbraccio, nell’attesa di quel momento in cui, quello stesso sacco a pelo, da gelido diventa ospitale per il nostro corpo e quel calore che altrimenti andrebbe disperso. Ed è nell’ammirare e vivere l’inverno che ho scoperto cosa sia il desiderio che qui, oltre il 60° meridiano terrestre, ancora esiste nonostante l’instaurazione del regime del Buonsenso.
In queste terre in cui l’inverno è reale, e sopravvive il desiderio, ogni concerto è stato incredibile. Due generazioni di persone disposte a sfidare il freddo, il rischio di contagio batterico e la legge del buonsenso in assembramenti disordinati e incuranti dell’etichetta, avevano urlato con noi e riso e ballato, fino alle prime luci dell’alba, intanto che la bufera infuriava là dove il silenzio non portava più imbarazzo ma morte.
«Stasera faresti meglio a recuperare la quarta corda del basso. Passiamo da una città più o meno civile in cui esistono ancora negozi stabili come quelli di una volta e, magari, in qualche bottega di modernariato per collezionisti, viene fuori qualcosa di utile per il tuo basso» urla Fausto, cercando di coprire il rumore della turbina solare del camper, innervosito per il brusco risveglio causato dall’urto della lattina sulla sua fronte. Si è svegliato con la luna storta e preferisce fare lo stronzo piuttosto di chiedere scusa per aver dormito troppo ed obbligato me, non solo a guidare più del previsto, ma a farlo nel silenzio e in solitudine.
«Sarebbe magnifico» ha risposto Monica, accogliendo e perdonando quell’aggressività che Fausto vorrebbe rivolgere verso se stesso, ma che non fa, e che rovescia su di lei come le feci che si staccano dal tutù di Gallina Siouxsie, fuori dal finestrino del camper, sotto gli occhi divertiti di Giulio.
«Concima» si giustifica Monica, sebbene fuori ci sia solo asfalto, ghiaccio e fango da giorni e giorni e che le feci della gallina, in ogni caso, si sono spalmate tra il vento e la fiancata del camper.
Il viaggio prosegue, con Fausto alla guida adesso, lasciandoci alle spalle le feci di Siouxsie, l’irascibilità del nostro batterista e la città di Minsk, ma non quell’acufene al mio orecchio destro, dono di un piccolo incidente avvenuto sul palco.
Al nostro arrivo la città si è presentata ostile e polverosa. Per attraversare quella che ricordo come la rotonda più grande e trafficata mai vista in vita mia, abbiamo impiegato mezza giornata! Quando le istruzioni criptate ci hanno portato fuori dal centro, oltre la zona industriale, in mezzo alla foresta dove vivono contadini, taglialegna e tagliagole ne siamo stati sommamente contenti.
Durante il concerto, però, un giovane orso di circa un paio di tonnellate, invadente e ferale poiché digiuno – essendo un orso – della conspevolezza del proprio e dell’altrui ingombro e delle leggi non scritte del pogo, si è introdotto tra il pubblico. L’inesperto orso ha infastidito, tocchicchiato, trussato e urtato diverse ragazze accanto al palco e, all’ennesimo respingimento osato questa volta dalle scheletriche braccia di una ragazzina microscopica coi capelli nerissimi, l’orso (infiltratosi tra i punk di Minsk) ha reagito, spingendola con violenza e scaraventandola per terra. Tra lei e il pavimento si ergeva però, minaccioso, il manico della chitarra di Giulio, troppo perso nella cacofonia di un assolo improvvisato e non richiesto, per rendersene conto.
Come in una premonizione a rallentatore frutto del calcolo – dopotutto è il mio lavoro – ho visto l’occhio della ragazza infilzato da qualche chiavetta dell’accordatura del manico della chitarra e mi sono lanciata, tra lei e Giulio, accogliendola tra le mie braccia e arrestando così la rovinosa caduta e la probabile futura necessità di trovare un bulbo di vetro abbastanza simile all’occhio sano rimato.
Di risposta ho ricevuto un bacio morbido, umido e lungo, sulle labbra.
Ho abbracciato quel piccolo corpicino sudaticcio, che poteva essere scambiato tranquillamente per quello di una bambina di undici o dodici anni, il cui bacino non si è ancora schiuso per plasmare i fianchi di una donna. Era così piccola, che aveva dovuto alzarsi sulle punte dei piedi per baciarmi e aveva usato il mio corpo per aggrapparsi e mantenersi in equilibrio. Sotto le mie dita, attraverso il tessuto della maglietta intrisa di sudore, potevo contare le costole, una per una, così come i nodi sporgenti della colonna vertebrale. Ossa esposte, che spingono sulla pelle, tipiche di una fame che nessuna pasto può saziare. La voracità di chi ha ribaltato tutta la propria vita dalle fondamenta e non vuole sottostare a quelle leggi, che suonano come una lingua morta e incomprensibile, che la vogliono fragile, così fragile, da non poter sfidare la danza appassionata e frenetica delle prime file di un concerto, un autentico concerto suonato dal vivo. Leggi sbagliate che la vorrebbero privare di quel legame che si crea tra musicisti e pubblico. Un legame sincero e vero, come quel bacio.
No, nessuna voglia di épater la bourgeoisie o accendere fantasie erotiche maschili con saffiche effusioni. Nessun desiderio di manifestare la propria liberazione sessuale o ammiccamento alle battaglie civili in voga tra gli uffici di marketing e le assemblee dei collettivi, ma solo un bacio – rivoluzionario per davvero – che sovverte il concetto di intimità tra due soggetti partecipi e protagonisti e che hanno compreso la differenza tra esibirsi e darsi completamente ad un pubblico. Tra chi si mostra e chi, invece, si espone su un palco attraverso il proprio corpo, la propria voce, le parole che scrive e il rumore che le accompagna.
Una volta messa in salvo la piccola rivoluzionaria dai capelli neri, ho sentito montare una rabbia improvvisa che è partita dall’altezza dello stomaco. Faccio ancora molta, molta fatica a gestire il mio sentire e le emozioni, e ho perso il controllo. È molto più facile inibire e reprimere il proprio sentire, rispetto all’accettare e controllare la propria emotività. Ed era dall’inizio del concerto che avevo voglia di prendere a schiaffi quel grezzo energumeno che menava ginocchiate, gomitate e pugni a caso come una trottola inebetita, facendo il vuoto attorno a sé, sfidando quel nugolo di altri suoi simili con furiose flessioni e torsioni, tra un calcio e l’altro, a petto nudo sul pavimento sudicio.
«No macho bullshit» ho urlato al microfono – me lo ha insegnato Monica – prima di scagliarglielo in testa, stretto nel mio pugno. Non ce l’ho fatta. Volevo fargli del male. Avrei voluto vederlo implodere, rattrappirsi e trasformarsi in una micro-merda di gallina plasmata dalla violenza del vento contro la fiancata del camper di Monica. Volevo punirlo e fargli del male affinché smettesse di essere così maledettamente bullo ed individualista, in mezzo a quella danza violenta ma armoniosa nel suo essere un coro di membra e muscoli e pelle e sudore.
Come fa a non capire? Come fa a non vedere tutta la bellezza di questi corpi che, come elementi chimici, si attraggono e si allontanano, si fondono e tornano unici, si spingono e si abbracciano senza alcuna paura?
Dritta in piedi, su quel palco alto come le orecchie di un coniglio, l’ho sfidato puntando i miei occhi dentro il suo unico occhio che riusciva a tenere aperto dal momento in cui l’altro occhio era protetto dalle palpebre raggrinzite e impegnate a tenere fuori quel sangue che colava giù dal sopracciglio che io, io, gli ho spaccato col microfono stretto in pugno. – Monica avrebbe parlato di karma, nonostante sia stata provata l’inverosimilitudine di quel principio per cui tutto viene vendicato e nessuno resta impunito –
“Non serve parlare la stessa lingua, ora” ho pensato, intanto che Fausto, Giulio e Monica continuavano a suonare e ridere come se nulla fosse accaduto.
Eppure non riesco a togliermi dalla testa il ricordo di quel sangue, forse a causa della mia scarsa familiarità con esso.
Ad eccezione del flusso mestruale con cui conviviamo di rado, poiché il buonsenso suggerisce sì, di mestruare ma non più di una manciata di volte all’anno, onde evitare lo spreco di energia combustibile in emozioni distorte ed inganni ormonali, non è che siano poi così tante le situazioni in cui si ha a che fare col sangue oggigiorno. Non esistono film violenti. Non esistono macellerie. Rari sono gli incidenti sul lavoro, quelli stradali e persino quelli domestici. Nessuno si taglia più nell’affettare una cipolla, né si addormenta alla guida, poiché non abbiamo più la possibilità di distrarci grazie al nostro dispositivo occhio-orecchio che vigila sui nostri impulsi neuronali e rivela il calo di attenzione.
Stai ancora guardando?
Non ci sono risse nei bar e nessun uomo accoltella un altro per debiti o dipendenze. Nessun uomo ammazza i figli per punire l’ex moglie che lo ha lasciato. Abolita la rabbia, il sangue è diventato un’esclusiva della scienza.
Ma quanto può essere potente la rabbia? Può far scoppiare temporali, esplodere macchine, incendiare città, far scorrere il sangue ed io con le mia ferocia e le mie mani ho provocato una lesione ad un essere umano. Ho violato il confine di ciò che è dentro e ciò che è fuori, ho aperto un varco nell’integrità del corpo, bucato un sistema e, da quella lacerazione, è uscito il sangue che prima scorreva, invisibile, nelle vene di un individuo confezionato in un corpo che non credevo così friabile. Pura follia! Eppure nessuno mi ha fermato e nemmeno condannata per aver manifestato una così vile, pericolosa e sconveniente emozione. Mi sono ritrovata, invece, circondata da diverse donne e ragazze molto giovani, che urlavano contro quell’idiota – ormai obbligato ad una poco virile ritirata con la coda tra le gambe – quelli che dovevano essere i più spietati appellativi che la lingua slava concedeva loro.
No macho bullshit! No macho bullshit! No macho bullshit! Urlavano le mie streghe dall’accento sovietico e a loro si sono uniti anche gli uomini. E così Fausto, alla batteria, ha assecondato quel ritmo primordiale con i giusti colpi di cassa e rullante. Ci siamo guardati negli occhi e, senza parlare, abbiamo attaccato con quel pezzo, mai suonato prima, composto durante il tragitto verso Minsk.
Abbiamo scritto una nuova canzone durante il mio turno di guida, improvvisando con basso e chitarra non amplificati. Giulio ha simulato la distorsione della chitarra, soffiando tra gli incisivi socchiusi e i molari serrati. Monica accentuava la linea di basso gonfiando e sgonfiando le guance e facendo rimbalzare le labbra. Fausto teneva il ritmo picchiando con le bacchette su cruscotto, sterzo e portiera del camper, intanto che io urlavo una canzone di suoni senza senso, facendo fatica a tenere entrambe le mani sul volante di questo mezzo di trasporto che è custode di tutto ciò che ci serve in questa nostra nuova vita.
Tutto ciò che io, Monica, Giulio e Fausto abbiamo abbandonato prima di partire per il tour, sembra così lontano e distorto. Come quell’incontro-scontro in metropolitana tra me e Monica.
«Te lo ricordi Monica? Ero io quella ragazza che ti ha fatto cadere in metro» le ho confessato, girando la testa verso la zona a giorno del camper.
«Certo che me le ricordo, non dimentico mai la gentilezza e tu eri stata gentile, che è una cosa rara di questi tempi» risponde, con quel suo sorriso stralunato che non abbandona mai il suo volto, senza lasciarle in dono occhi umidi di affetto.
«Sai, io non ho mai voluto rinunciare alla gentilezza anche a costo di perdere moltissimo. Hanno ragione a dire che l’emotività porta rogne, ma è quello che sono e che sempre sarò: non riesco a immaginarmi, neanche nel più schifoso dei mondi, ad agire secondo ciò che è più conveniente, utile o gratificante, se ciò non è fedele e coerente alla persona che vedo guardandomi allo specchio» scandisce le ultime parole, sillaba dopo sillaba, puntandosi un dito sul petto e, per la prima volta, in questa tenera gattina un po’ addormentata, vedo manifestarsi la fierezza di una predatrice.
«Non tutto può essere deciso secondo un calcolo che ci garantisca un’adeguata ricompensa, un ritorno di investimento vantaggioso, anche a scapito degli altri e della nostra individualità. Anche prima di tutto questo – dice indicando la strada oltre il parabrezza – essere noi stesse era un problema, piccola, Woland o non Woland…» conclude, strizzandomi l’occhio.
«Io ho sempre amato e odiato con tutta me stessa. Senza calcoli, freni o inibizioni. Ho fatto del male e me ne è stato fatto molto di più, ma in tutta la mia vita io non ho mai mentito, tradito i miei valori o ignorato i miei sogni perché in quella determinata situazione ne avrei ottenuto qualcosa di vantaggioso in cambio. A che prezzo? L’amicizia, la devozione, l’amore e la solidarietà non sono mai relazioni in cui si vince e basta. Non c’è nessuna, nessuna, ricompensa al mondo che legittimi e giustifichi il calpestare i propri valori. Non ho un dio né un marito e tanto meno un dispositivo occhio-orecchio con un logo aziendale che riporta il mio nome e che mi dica chi sono o chi devo essere. Sono una reietta? Una fallita? Ho quarant’anni e vivevo in mezzo al nulla in compagnia degli alberi e degli animali? È vero, ne sono consapevole e fiera, ma ho deciso di essere me stessa fino in fondo e, ciò che provo, nessuna delle tue analisi potrà mai misurarlo. I tuoi ex-colleghi analisti, per esempio, avrebbero mai potuto prevedere che perdere ogni cosa in un incendio, mi avrebbe fatto trovare un’amica come te e che grazie al nostro incontro mi sarei ritrovata di nuovo in tour con la mia band?» chiede senza aspettarsi una risposta, che io non potrei comunque darle.
«Credo proprio di no, Monica – ho risposto, forse troppo seria e scura – ma se io fossi in te non mi darei tutta questa importanza, ecco. Io non sono altro che una che fa calcoli, dopotutto…»
Quel giorno piovoso di circa un anno fa, in cui avevo incontrato Monica sulle scale della metro, era stato il primo giorno di quella che non può essere definita una stagione fortunata per lei e quei randagi che ospitava nella vecchia baita di legno, dispersa nell’hinterland periferico non cementificato di Milano.
Eppure ieri notte sul palco dopo aver colpito l’orso bielorusso, ho cercato lo sguardo di Monica e ho trovato quel suo sorriso di viaggia libera dall’ingombro del passato, senza però dimenticarlo o rinnegarlo. Ho ricambiato il suo sorriso, sincera, per davvero. E, senza bisogno di parlarci, abbiamo seguito Fausto che, alla batteria, aveva dato inizio a quella canzone mai sentita da nessuno.
Picchiava come un fabbro sul rullante e prendeva a calci la cassa. Pam-pam-pam-pam! Dopo i quattro giri di Monica al basso – con sole tre corde – e Giulio alla chitarra, è arrivato il mio momento di attaccare, ma mi è risultato impossibile. Capitanate dalla piccola punk con caschetto nero, le donne del pubblico mi hanno tirato su di peso e mi sospendevano sopra le loro teste, ed io mi sono abbandonata a quella marea che, passandomi di braccia in braccia, tra una mano sul culo, una in mezzo alle gambe, nell’incavo delle ginocchia o sotto le ascelle sudate, alla base del cranio, mi aveva portato a zonzo sulle teste rasate, colorate e appuntite presenti nel capanno per boscaioli in cui si teneva quel concerto clandestino.
Paura di cadere? Mai avuta.
Eppure il mio volo d’angelo decadente, sulle mani dei punk di Minsk, è atterrato contro l’amplificatore ed il mio microfono ancora insanguinato, che non si staccava mai dalle mani come in una sorta di patto magnetico, puntava il suo diaframma verso i coni. Il feedback è stato così assordante che ne porto ancora la testimonianza in questo biiiiip persistente che mi infastidisce, persino durante i miei turni di guida. Eppure, per la prima volta nella mia vita, provo una strana forma di piacere nel nascondere la stanchezza e il dolore.
Prima di questo strano tour, non ho mai fatto qualcosa che mi arrecasse un danno o una scocciatura, per il bene comune. È il mio turno di guida? Ho una responsabilità. Gli altri possono riposarsi perché contano su di me. Si fidano e si affidano a me. E quel senso per cui, in quelle quattro ore uguali per tutti e tutte, ognuno dà un pezzo di sé per gli altri, così come sul palco. Ed è davvero come dice Monica: qualcosa che nessuna formula può misurare.
Dal momento in cui scendiamo dal camper per scaricare gli strumenti, a quando il concerto è concluso e brindiamo insieme. Persino nel momento in cui ci laviamo in fretta, affinché la poca acqua calda concessa dai boiler mezzi rotti dei luoghi in cui dormiamo, permetta a tutti il lusso di una doccia calda, non esiste più io o voi, ma siamo solo un “noi”, in cui ognuna delle nostre individualità splende e fa brillare gli altri di rimando, come raggi di luna che si frammentano tra le increspature di un mare mosso, come una maledetta palla da discoteca in un night club abbandonato e pieno di specchi rotti.
«Sei stanca?» mi ha chiesto Giulio, vedendomi sbadigliare.
«Se sei stanca posso fare io compagnia a Fausto, intanto che tu ti riposi. Il concerto di ieri è stato impegnativo e quello che è successo con quel tizio, il pugno, il sangue e tutto il resto… avrebbe turbato chiunque, persino te, DeeDee figlia del rogo» ha proseguito, sorridendo.
«Figlia del rogo?» ho chiesto.
«Oh, sì… quel fuoco che hai dentro arriva proprio da lì. Non so come sia possibile, ma dentro di te c’è tutta quella forza incendiaria che credevamo spenta per sempre.»
Mi lasciai alle spalle il Grande Palazzo, sede della filiale italiana della Woland Corporation, che non era ancora scoccato mezzogiorno per accorgermi che diluviava. All’interno dell’edificio le finestre erano, in realtà, schermi che irradiavano la giusta intensità di raggi solari per stimolare la produzione di Vitamina D, proiettando cieli azzurri solleticati da qualche nuvoletta candida e soffice, come la schiuma che ricopriva l’aquapark dei Navigli, dividendo in due la città. Mi fiondai giù per le scale della Metropolitana che mi avrebbe portato nel quartiere residenziale di Fausto quando, il mio dispositivo occhio-orecchio, mi trasmise il dato di aver portato a termine la sfida del digiuno intermittente e concluso il mio periodo di disintossicazione settimanale. Confermai di non avevo assimilato calorie, né sprecato risorse alimentari nelle ultime 48 ore con un tocco sulla tempia. Con altri due tocchi ravvicinati scattai una foto, sorridendo in direzione del mio dispositivo microdermale innestato sul polso. Un altro tocco ancora e l’autoscatto venne pubblicato sul mio diario alimentare e condiviso tra la mia comunità elettronica della piattaforma dedicata ad una sana e corretta alimentazione e all’equa redistribuzione delle risorse della Terra. Mi voltai con un dietrofront improvviso, per tornare nella mensa del giardino pensile del Grande Palazzo, ma un ostacolo bloccò il mio cammino con un urto violento. Da quell’incontro-scontro ne venne fuori un trambusto di lattine rotolanti giù per le scale della metro, piume nere ed un concertino di starnazzamenti, strilli vibranti e delle scuse emesse da una voce che ricordava il sapore dello zucchero filato un po’ sbruciacchiato. «Oh, che sbadata. Scusami, amica. Scusami, ma non ti ho vista!» disse l’ostacolo, confondendomi con un sorriso stralunato e bellissimo, nonostante fossi io la colpevole di disattenzione e la parte attiva di quel placcaggio metropolitano. La aiutai a raccogliere quelle lattine che scoprii contenevano cibo per animali e le infilai in una borsa logora di un nero sbiadito, in cui intravidi un logo scrostato di un’azienda che non conoscevo ma che doveva, un tempo lontano, raffigurare la zampa di un cane accanto al pugno di un umano, entrambi circondati da’un aureola di lettere che non riuscivo ad interpretare.
Era una donna assurda con nastri e dadi di acciaio tra i capelli stopposi, che avevano i colori slavati di un timido arcobaleno che si riflette sulla superficie di una pozzanghera. Non aveva un buon odore, o meglio, aveva un odore che io non avevo mai attribuito ad una donna ed era simile al fango, all’erba dei prati, alla pelliccia dei gatti, alla resina degli alberi, alla ciccia dei bimbi, ai broccoli bolliti e all’ammoniaca. «Grazie, amica mia» ripeté, prendendomi le mani tra le sue, per poi andare via con una gallina nera, stretta in una buffa pettorina piena di balze e fiocchetti, attaccata ad un guinzaglio. «Pol-pot, pol-pot, pol-pot» chiocciava la gallina guardandomi con severa dignità, nonostante il grosso tutù di pizzi e merletti viola, che avvolgeva metà del suo corpo. Ma più della pennuta al guinzaglio col tutù, mi colpì il fatto che per la seconda volta, nell’arco di una manciata di minuti, due persone avevano stabilito un contatto fisico non occasionale con me. Potevo ancora sentire quella sensazione improvvisa, ma ferma, della mano di Fausto sulla mia spalla che persisteva, come se avesse lasciato delle spore sulla mia pelle.
È dal 2020 che il distanziamento sociale è diventato legge, a seguito della pandemia, ed è stato adottato come buona etichetta anche dopo aver debellato il virus, per una mera questione di buonsenso. Toccarsi rappresentava comunque un rischio e allora perché baciarsi, abbracciarsi o stringersi le mani per salutarsi? Eppure pochi minuti prima Fausto mi aveva appoggiato una mano sulla spalla ed ora la donna della gallina, con quella sua stretta avvolgente e delicata e quella sensazione di contaminazione.
Mi guardai le mani, convinta che quel contagio si doveva tradurre anche in una manifestazione visibile ai miei occhi. Ma niente… le mie mani erano quelle di sempre e tenevano in mano una scatoletta di cibo in mousse per gatti anziani.
«Perché hai in mano una scatoletta di cibo per gatti senza denti?» mi chiese Fausto, non appena varcai la soglia di casa sua. «Se hai fame possiamo ordinare qualcosa» disse piegando un sopracciglio che trascinò con sé, come il filo di un burattino, anche l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco e scanzonato. «Il fattorino sarà felice di farsi il viaggio in una così bella giornata» disse. Stavo per obiettare indicando i miei vestiti zuppi, tralasciando il fatto che non avrei mai mangiato cibo per gatto neanche in una situazione di emergenza, ma poi capii che lo aveva fatto ancora. Quella cosa dell’ironia. Che schifo.
Gli raccontai cosa mi era successo, della donna coi capelli del colore dell’arcobaleno sbiadito, della gallina al guinzaglio e di quel logo aziendale che non avevo riconosciuto. «Non è un logo – rispose – è un simbolo». E non disse più nulla per qualche minuto, ma mi fece accomodare con un cenno sul grosso divano color perla e accendendo con un telecomando un camino a led, incurante del mio giacchino di jeans fradicio e delle piccole pozzanghere di pioggia e sporcizia che avevo lasciato lungo il mio cammino.
«Quello che hai visto era uno dei simboli usati dagli animalisti prima della grande riforma del Buonsenso. Ai tempi c’era chi aveva deciso di battersi in difesa di chi non poteva farlo» urlò dalla cucina. «E perché? Quale beneficio portava, a questa gente, combattere per chi non poteva dare nulla in cambio? Mi sembra poco sensato e ancor di più rivendicare questa stupida irrazionalità indossando un marchio che lo renda manifesto» obiettai. «Si tratta di qualcosa che tu non hai avuto tempo e modo di conoscere. Parliamo di un ideale ed è anche di questo che ti devo parlare, se vogliamo lavorare bene e presentare il rapporto più sensato di tutte le altre squadre dell’Officina di Lavoro» disse, tornando con due grosse lattine di birra in mano ed un asciugamano con cui cercai di asciugare il ricordo di quel temporale inaspettato di cui erano intrisi miei capelli.
Osservai quei buffi cilindri di alluminio attraversati da sentieri di condensa, che si trasformava in piccole gocce nello scivolare verso le mani ben curate di Fausto. Le lattine… un formato che nessun produttore di birra, in grado di pagare uno studio di commercializzazione e di analisi dei sentimenti, metterebbe mai sul mercato! Un arcaico e sgradevole metodo di assunzione degli alcolici che riportava a quella volgare mediocrità di quegli anni in cui, la birra era ancora una bevanda economica, popolare e monosapore. Non sapevo neanche come si bevesse una birra da una lattina e mi faceva anche un po’ schifo l’idea di appoggiare le labbra sull’alluminio. Chi poteva rassicurarmi sul fatto che non fossero rotolate per terra o che chi le aveva maneggiate, per l’intero arco della filiera, avesse sempre avuto le mani ben lavate? E la polvere che cade dal cielo, l’inquinamento domestico dei toner e… «Toh, bevi – disse brusco Fausto intuendo i miei pensieri – non essere paranoica» concluse, porgendomi la lattina che aveva appena aperto. Trovai eccessivo associare una psicosi, alla mia razionalissima attitudine a destrutturare una filiera produttiva per individuare le possibili falle igieniche, ma con Fausto era così, stavo imparando a conoscerlo, iperbole e paradossi disseminati nella conversazione, come bolle di anidride carbonica che frizzavano nella schiuma della birra in una lattina troppo fredda e che tenevo in mano. La studiai con sospetto per qualche istante. Non conoscevo l’azienda produttrice poiché non era presente sulla rete, né sugli spazi pubblicitari urbani, né tanto meno in quelli astrali o onirici con cui controlliamo i nostri sogni. La lattina era verde scuro e conteneva circa mezzo litro di liquido, ma nessun gusto veniva indicato tra le poche scritte che comparivano su di essa (una birra al gusto birra?), ma riuscii ad individuare un simbolo di divieto attorno alla sagoma di una donna incinta. Davvero c’era bisogno di illustrare su una lattina il divieto di bere alcolici per le donne incinte? Doveva essere un’altra delle stranezze di quell’epoca in cui il buonsenso non era ancora legge.
Finkbrau: nome e confezione non promettevano nessuna ricompensa sociale e non raccontava nulla che potesse farmi capire a quale potenziale comunità di consumatori appartenessero i bevitori. Nessun manifesto. Nessuna adesione ad un modello. Nessuna dichiarazione d’intenti. Una birra e nient’altro. Eppure mi feci coraggio e appoggiai le labbra al cerchio argentato della lattina e, inclinando la testa all’indietro, lasciai scorrere nella gola un generoso sorso di liquido giallastro e amarognolo, che mi solleticò il palato. Il mio primo sorso della mia prima lattina di Finkbrau, di quelli che sarebbero stati innumerevoli sorsi di innumerevoli lattine di squisitissima birraccia, che io e Fausto avremmo bevuto insieme.
Mancavano esattamente 382 giorni al nostro arresto da parte dei Tutori della Serenità, ma quella notte non avremmo potuto neanche programmarlo nei nostri incubi più oscuri.
«Dammi il pacchetto» ordinò Fausto, alzandosi e dirigendosi verso la cucina con la sua lattina in mano, che svuotò in un ultimo lungo sorso, per poi accartocciarla tra le dita e liberarsene con un canestro nel lavandino. Tornò con altre due lattine e delle patatine nel sacchetto che cominciò a sgranocchiare, tuffandoci le dita dentro, incurante delle norme basilari di igiene ed educazione. Pensai che bere le bevande in voga negli anni Venti lo avesse reso nostalgico. Non potevo spiegarmi altrimenti quella forma puerile di ribellione alla legge sulla sicurezza batteriologica che, in effetti, era sconosciuta nell’epoca pre-pandemica in cui Fausto doveva essere stato adolescente. Aprii lo zaino e sfilai quel pacchetto avvolto in carta color tabacco, che lui mi strappò bruscamente dalle mani per scartarlo come un selvaggio, come se ignorasse i corretti passaggi dell’arte dello spacchettamento dei prodotti, che tanti savi avevano reso dogma. La volgare, frettolosa e disordinata lacerazione dell’involucro aprì uno spiraglio su qualcosa che lo fece sorridere. «Non ci credo! Questo mi mancava» disse euforico, fiondandosi verso un mobile di metallo color canna di fucile che custodiva un giradischi. Mi risultò bizzarro che lo nascondesse dietro a delle antine e che non ne facesse sfoggio come ci si aspetterebbe da ogni amatore della musica di statistica! Persino io ne avevo uno esposto nella mia stanza affittata, tra un vecchio mangianastri e la mia collezione di vinili mai ascoltati e sigillati ermeticamente.
Ognuno di quegli album, che avevo fotografato e condiviso a favore della mia comunità elettrica di fedeli, mi aveva garantito un avanzamento nella gerarchia di ascolto della piattaforma musicale della Woland Corporation. La mia collezione di dischi e i relativi video di spacchettamento in cui mostravo il contenuto, per poi apporre nuovamente il sigillo in ceralacca, non passò inosservata alla Woland Corporation con cui, ben presto, iniziai una relazione lavorativa come assistente di Fausto. Alcuni colleghi dissero che era stato lui a segnalarmi e a volermi con sé, ma il suo essere così rude, imprevedibile e irriverente nei miei confronti non mi fece mai sposare quella teoria, eppure quel giorno mi aveva cercato – ancora – e voluta per quel lavoro così importante!
E così mi ero ritrovata da sola a casa sua, nella sua camera da letto, davanti a ciò che poteva essere considerato disdicevole agli occhi di chiunque, ma che aveva deciso di mostrarmi. Fausto, aprendo le antine di quel mobile color canna di fucile, mise in luce un caos di copertine scolorite e logore, musicassette dalla confezione di plastica ingiallita e addirittura dei dischi compatti d’argento ammassati uno sopra l’altro. Quell’uomo nascondeva diverse stranezze e atteggiamenti fuori statistica, non c’era più alcun dubbio in merito – come bere la birra e ascoltare per davvero la musica su supporti fisici – e così fece, cercando i miei occhi e con un sorriso che non era però una smorfia, appoggiò quel piccolo disco in vinile grande come un piatto da dessert, sul giradischi. Dalle casse dello stereo partì un sibilo di una chitarra distorta in lontananza ed il riff di una motosega sempre più vicino e minaccioso, l’eco di un urlo soffocato e poi il frangersi di onde contro la roccia e l’acciaio, per tre volte, e poi il ringhio di una voce maschile sull’orlo del precipizio ed io che mi sentì con le spalle al muro. Quello… quell’istante e quella voce. Quello fu il momento in cui capii di essere spacciata. Seguirono diversi minuti di silenzio e stordimento. Mi attaccai alla lattina di birra che mi dissetò come nessuna bevanda aveva mai fatto prima.
«Di nuovo» chiesi, e Fausto spostò il braccino del giradischi per riporre la puntina sui solchi più estremi del vinile. Quando finimmo di ascoltare l’EP ero ormai sbronza e così Fausto. Il sole stava tramontando e noi non avevamo lavorato a neanche una diapositiva da presentare il giorno successivo. Ci eravamo a malapena parlati. Non avevamo fatto altro che bere birre e ascoltare a ripetizione ogni singola traccia del disco, con gli occhi fissi sull’astuccio di cartone logoro che lo custodiva.
Dal nero dello sfondo si stagliava una luce che, come raggi di luna, esplodevano da una crepa della notte. Una luna maledetta che ha il volto della morte e gli artigli di un rapace, pronto a dilaniare un cuore. Il mio cuore, ormai lo sapevo. Studiai per momenti interminabili anche il retro dell’album in cui la morte, dai lunghi capelli spettrali, stende un sudario su cui vengono svelati i titoli delle sei tracce che stavamo ascoltando da ore e ore. E quelle foto così fuori dal tempo e dalle statistiche e i loro nomi: Giammario, Fabio, Zambo e Daniele. Chi erano questi uomini? Avrei voluto chiederlo a Fausto che sembrava conoscere tutte quelle parole urlate impunemente e che sembrava sul punto di piangere. Per la prima volta lo vidi così fragile, autentico e fiero.
Conoscevo la fragilità di chi, per il troppo lavoro o perché ebbro, fa emergere le proprie emozioni, così come conoscevo la fierezza di chi non permette al proprio sentire di indebolirlo. Ma non avevo mai visto queste due dimensioni dell’aspetto più animale, dell’essere umano, convivere. Io, che mi truccavo per nascondere i segni della stanchezza, cintura nera di autodifesa emozionale, fedele al buon senso e all’analisi dei bisogni indotti, perché non esistono bisogni all’infuori di quelli che non sappiamo di avere, ma che sappiamo di poter soddisfare; tra i corridoi e gli uffici della Woland Corporation, tra le vie delle città costruite a misura d’azienda, nei negozi temporanei in cui vendono kit identitari dalle mille opzioni, nessuno mi vieta di essere stanca o fragile, ma è considerato inopportuno e teneramente sconsigliato. Così come la gioia violenta e la devastante tristezza sono state sconfitte, poiché facce differenti della stessa moneta, che ora tintinna nel fondo del barattolo delle mance di chi ci offre soluzioni usa&getta.
Fausto mi guardò, come rapito da una forma di eros e mi confessò: «Io ne ho molti altri! Ho rubato un’intera scatola oggi, se vuoi li ascoltiamo insieme» mi tentò ed io gliene fui grata. Ubriaca. Elettrificata.
Giunse l’alba e noi non avevamo lavorato un solo istante. Avevamo finito anche per fare sesso, dimenticandoci di registrarlo sulla piattaforma di incontri sessuali e, vedendolo nudo, scoprii trai suoi bei tatuaggi visibili in maniche di camicia, altri segni indelebili di inchiostro che non avrei potuto vedere se non andandoci a letto insieme. Sulla sua spalla una A cerchiata sembrava incisa sull’osso parietale di un teschio con la cresta. Sul suo petto un pugnale fendeva la carne all’altezza del cuore.
Sul manico della lama c’era scritto “Guenda, 6 aprile 1998 – 31 dicembre 2023”
14 Giugno 2040, in strada verso il Bauwagenplatz di Strasburgo.
Mi sono svegliata, con la testa di Fausto appoggiata tra la mia spalla destra e la tetta. Quest’uomo che ha l’età per essermi genitore, dorme avvinghiato a me, senza smettere mai di stringermi in un forte abbraccio disperato. Come sull’orlo di un precipizio. Le mie gambe oltrepassano in diagonale il suo corpo rannicchiato contro il mio.
Qui, nei boschi sul fianco dei monti, le notti estive sono gelide e abbiamo avuto freddo. Abbiamo studiato ogni incastro di braccia, torso, gambe e guance per dormire, facendo aderire la maggiore superficie possibile dei nostri due corpi. Cambiando e stravolgendo ogni possibile innesto, ogni qual volta il sangue che faticava a scorrere nelle nostre vene, lo esigeva trasformando il suo bisogno in un nostro fastidio.
Fausto si è svegliato pochi istanti dopo, con un sorriso, bestemmiando.
«Mi fa male ogni cosa, ogni singolo muscolo del mio corpo» ha grugnito, stiracchiandosi nel poco spazio concesso dalla piccola mansarda, posizionata sopra la cabina di guida del camper in movimento.
Fausto mi ha baciato sulla fronte e dopo essersi messo le mani a conchetta davanti alla bocca, espirato e inspirato ciò che avevano trattenuto, ha fatto una brutta smorfia che si è trasformata in un sorriso da bambino.
«Merda… mi sembra di aver mangiato un ratto» ha borbottato.
«Non mi sembra ci fosse stata carne di ratto nei panini di ieri» ho obiettato.
Fausto ha schiuso le labbra per dire qualcosa, ma le parole gli si sono congelate prima di abbandonare quella lingua ispessita dal sonno e dai postumi. Ci ha riprovato, con maggiore determinazione, ma niente… Mi ha stretto in un abbraccio, mi ha baciato di nuovo la fronte – DeeDee, DeeDee… povera piccola – ha detto, scavalcandomi e saltando giù dalla mansarda, per atterrare nel corridoio del camper con un “oplà”.
«Non ci avete svegliati» ha protestato, borbottando, rivolgendosi a Giulio, al volante, e a Monica con una vetusta cartina stradale cartacea spiegata sul cruscotto davanti al sedile del passeggero.
«Eravate maledettamente carini» si è giustificata la seconda, girando il busto all’indietro e allungando un braccio, in cerca di un bacio da parte di Fausto, che l’ha accontentata, abbracciandola di sbieco.
«Buongiorno anche a te» lo ha salutato Giulio, che si è girato al tocco della mano di fausto sulla sua spalla, lasciando la presa del volante per rispondere con un pat pat sul dorso della mano di fausto.
«Buongiorno a te» ha risposto, accennando un inchino grottesco. Dopo alcuni istanti di silenzio, gli occhi di Fausto hanno incrociato quelli di Monica, Monica ha scambiato uno sguardo con Giulio, i due uomini si sono guardati ancora e sono scoppiati, tutti e tre, a ridere.
«Cosa cazzo è successo ieri sera?» ha chiesto Giulio, squassato dalle risate e con le lacrime agli occhi che faticava a domare lo sterzo del camper in corsa.
«Io non me lo so spiegare» ha risposto Monica, in affanno, per ritrovare tutta quell’aria che il ridere aveva sottratto dai suoi polmoni.
«Io… io, boh… non ho parole» replicò Fausto.
I tre infine si sono girati verso di me che nel frattempo ho raggiunto, abbandonando quel nido caldo e dall’aria viziata, in cui ho lottato contro il freddo e la scomodità con la complicità di Fausto.
Muti, mi hanno osservato, sorridendo. Nei loro occhi c’era qualcosa che io non conoscevo. Ed è stata Monica a infrangere il silenzio.
«Chiunque tu sia, dea furiosa che ti sei impadronita di questo corpo, non fare del male alla brava ragazza che ti ospita» ha detto, sollevando le mani e giungendole in preghiera davanti alla fronte, china verso di me.
Mi sono voltata, pensando si stesse rivolgendo a qualcuno alle mie spalle, ma no, non c’era nessuno a parte Siouxsie la Gallina che, appollaiata nel lavandino del bagno, cercava di fare un uovo tra starnazzi e improperi strazianti.
«Monica sono io, Dorotea, ed è da decenni che è stata provata l’inesistenza di divinità ultraterrene od eventuali possessioni ad essi riconducibili» ho fatto notare, sorpresa del fatto che Monica, per quanto possa essere considerata oggettivamente “originale” e fuori statistica, non mi sembra quel tipo di donna che possa credere nell’esistenza di dio. Davvero esiste ancora qualcuno che sente il bisogno di avere un’anima da salvare, nutrire e proteggere da un male che trascende il nostro controllo?
Fausto ha sbuffato, o forse era un sospiro, Monica ha alzato gli occhi al cielo e Giulio ha scosso la testa in segno di sconforto e diniego.
«Monica, perdonala, è una causa persa, ma ci sto lavorando – ha detto Fausto, passandomi un braccio attorno al collo – questa ragazza non sa cosa sia l’ironia e di tutte le lordure e le porcate fatte nel nome del Buonsenso, questa, è la più subdola delle ingiustizie» ha sentenziato, diventando cupo.
«Non saprà cosa sia l’ironia ma, capperi, sa come stare su un palco!» ha detto Monica.
«Perché state parlando di me come se non fossi presente? Anche questa è una forma di ironia?» ho chiesto ma poi, all’improvviso, ho ricordato e tutto mi è stato chiaro.
I lividi sugli stinchi, i capelli appiccicosi di birra, i graffi sulle braccia. Il taglio sul labbro superiore, la cui tenera carne ha eroicamente protetto, sacrificandosi, i miei incisivi dall’urto con il microfono stretto in un pugno che mi si è rivoltato contro. È stata una lucida follia. Una psicosi collettiva ed una suggestione corale. Da quando Fausto ha battuto quattro con le bacchette a quando Giulio ha lasciato vibrare le corde dell’ultimo accordo…
Qualcosa deve avermi posseduto per davvero.
Sono già stata ad un concerto, è ovvio… ho sempre amato la musica, ma l’intrattenimento e lo spettacolo nelle grandi arene, costruite e gestite dalla Woland Corporation, non ha nulla a che fare con quello che ho vissuto questa notte.
I concerti del 2040 avvengono in piccole città-fortezza, che ricordano l’urbanistica di certi borghi medievali e quel complesso sistema di mura e portali di accesso tra un settore e l’altro. Una volta varcato il grande portone centrale, il percorso recintato si apre su una grande area in cui è possibile convertire i propri crediti, in gettoni utili solo dentro quelle mura. Fuori da lì, quei gettoni, non hanno alcun valore mentre all’interno sono essenziali per acquistare i beni esposti – i cui i prezzi sono espressi in cifre esadecimali – nei diversi presidi delle aziende sostenitrici dell’artista.
I gettoni servono anche per poter scattare foto e condividerle sui propri diari digitali, mangiare, bere o usufruire delle toilettes.
Oltre la piazza centrale, superate le seconda mura, ecco che si arriva nel cuore dell’arena dove si svolgerà il concerto che è così organizzato: al centro di una dozzina di cerchi concentrici, si erge il palco diviso in un numero variabile di spicchi. I settori vengono popolati in base ai dati di ascolto della piattaforma di musica digitale Woland. Maggiore è il tuo punteggio all’interno della piattaforma (numero di fedeli della comunità elettronica, frequenza delle interazioni, acquisto di accessori e dispositivi a tema o pacchetti extra, fedeltà alla linea e allo stile dettati dal genere musicale, per esempio) maggiore è la possibilità che la scaletta dell’esibizione sia fedele alle tue abitudini di ascolto e, il posto che ti spetta di conseguenza, è all’interno dei settori più prossimi al palco con accesso esclusivo e quindi minore possibilità di entrare in contatto con altri utenti di classi inferiori. Chi può sedere in prima fila, insomma, ha la certezza di assistere ad uno spettacolo che soddisfa appieno le proprie aspettative. Mano a mano che si arretra, invece, i settori sono sempre più popolosi e raggruppano persone che non hanno espresso le stesse preferenze in quanto alle canzoni che avrebbero voluto sentire e in quale ordine.
E così la musica, distribuita per settori attraverso diversi canali radio e impulsi nervosi captabili dai dispositivi occhio-orecchio, raggiunge ogni singolo abbonato che ha pagato il biglietto per varcare la soglia di una delle grandi arene della musica dal vivo della Woland Corporation.
Ballerini e attori, distribuiti strategicamente attorno al totem a led che si erge al centro del palco, accentuano i 100 BPM standard (che le analisi sostengono sia il tempo ideale – e quindi l’unico possibile – per le esibizioni dal vivo) con coreografie frenetiche, cambi d’abito e spettacoli pirotecnici.
Ai musicisti sotto contratto della Woland spetta solo il compito di registrare la musica, che viene generata dagli algoritmi determinativi, per poi perdere qualsiasi diritto di reinterpretazione anche in occasione di feste private, esibizioni amatoriali o diletto personale.
Un musicista può suonare la musica che ha inciso, per cui è stato retribuito e per cui è conosciuto dalla sua comunità elettronica, solo a patto che non commetta errori. Una cattiva interpretazione rappresenta un vero e proprio atto di vilipendio nei confronti della Woland Corporation, poiché costituisce un danno alla sua immagine.
Ed è stato così che abbiamo messo fine alle proteste dei musicisti: ad ogni artista che commette un errore durante un’esibizione dal vivo o ha atteggiamenti, frequentazioni od opinioni che si discostano dal dogma e dal canone Woland, vengono decurtati alcuni crediti (anche noti come “Punti Autorevolezza”) ed è obbligato al pagamento di severe sanzioni.
Ogni passo falso costa crediti, credibilità e l’abbandono dei propri fedeli, poiché i Punti Autorevolezza fanno la differenza tra un artista credibile e capace di influenzare i consumi e le opinioni, da un artista che non promette alcun tipo di ricompensa sociale o passepartout per le élite della propria comunità elettronica.
Ci sono artisti che è bene ascoltare, leggere, indossare, esibire e seguire ed altri che piacciono solo ai perdenti. E nessuno vuole essere un perdente. Non lo volevamo prima del Grande Rogo Civile del ‘25 e non lo vogliamo adesso, in questi anni in cui il fallimento personale è calcolabile e misurabile con criteri scientifici. Desideriamo tutti piacere agli altri e ora abbiamo la possibilità di conoscere e dimostrare il nostro valore attraverso una valutazione imparziale, oggettiva e libera dagli inganni della percezione che abbiamo di noi stessi.
Quando la Woland Corporation ha proposto di fare a meno dei musicisti durante i concerti, e di preferire delle registrazioni coreografate, nessun artista aveva ormai più voglia di protestare.
Il relatore sul palco dell’auditorium era molto noto tra i corridoi della Woland Corporation poiché aveva isolato il grappolo di utenti che, seppur ascoltassero molta musica, rifiutavano di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma digitale Woland. Lo sciame identificato era restio ad abbandonare un preistorico portale, in cui chiunque poteva caricare registrazioni audio e video amatoriali low-fi. Video storti di canzoni mal arrangiate che facevano gracchiare il dispositivo di ricezione audio, interpretate da gente fuori statistica che si dimenava su palchetti improvvisati, in mezzo allo sporco, al sudore e ad un’euforia che non poteva essere misurata. Si faceva persino fatica a distinguere gli strumenti, così come era pressoché impossibile distinguere il pubblico dal gruppo che cercava di suonare, respingendo e accogliendo come in una danza, quel ribollire di lava umana e lapilli incandescenti di spruzzi di birra lanciata per aria.
Ci si chiedeva cosa spingesse queste persone a un tale comportamento irrazionale. E lui aveva scorporato, destrutturato e ricostruito pezzo per pezzo ogni passaggio che portava al cosiddetto “abbandono del carrello”, ma nessuno dei dogmi dell’ingegneria inversa riuscì a spiegarlo.
«L’esperienza dell’utente che atterra sulla piattaforma è piacevole e senza ostacoli, i punti di contatto col potenziale utente hanno le giuste parole chiave ed sono ben piazzati, l’imbuto commerciale lubrificato a dovere eppure… eppure non siamo riusciti a sfondare le resistenze di questo blocco di utenti, identificati come ascoltatori di musica. Milioni di canzoni su richiesta, elenchi di riproduzione mutanti a seconda dello storico di navigazione e dell’umore dell’utente, artisti con trilioni di visualizzazioni la cui musica rispetta tutti i parametri richiesti dagli analisti e una qualità del suono cristallina, ma no… nessun abbonamento e accordo siglato che ci permetta di accedere ai loro impulsi neuronali, in cambio della garanzia di non dover scegliere cosa ascoltare e non doversi interrogare sui propri gusti musicali. Perché la piattaforma di musica digitale della Woland Corporation sceglie per te. E anticipa ogni tuo desiderio, interruzioni pubblicitarie comprese. Ma allora perché? Perché un grappolo di individui continua ad ascoltare quel rumore e guardare quei video bui e malfermi? Perché, alla perfezione calcolata della piattaforma, perseverano a farsi carico di dover scegliere e, infine, scelgono questa merda?» disse il relatore. Concludendo, ad arte, il suo intervento con una parolaccia, perché così gli aveva suggerito l’algoritmo per rendersi più informale, affabile e performante.
Il nostro compito era capire ciò che nemmeno l’algoritmo aveva compreso, elaborare una tesi, impacchettarla a dovere e presentarla il giorno successivo. Il relatore ripose sul tavolo che lo divideva dal resto dell’auditorium, alcuni pacchetti avvolti in carta color tabacco.
«Quasi tutta la musica che il nostro target preferisce alla piattaforma Woland è stata prodotta nei quarant’anni che vanno dagli anni Ottanta del XX secolo e gli anni Venti del XXI. Anno in cui, a causa di una pandemia mondiale e del Grande Rogo Civile, sono stati interrotti e interdetti quegli spettacoli in cui la musica veniva suonata, in diretta, dagli stessi musicisti e in presenza di un pubblico reale. Il materiale che troverete ci è stato prestato dai Tutori della Serenità – che ai tempi si chiamava Esercito – ed è frutto dei sequestri e delle perquisizioni avvenute tra il 2020 e il 2025, quando ancora, gruppi clandestini si trovavano qua e là ad organizzare concerti illegali. Potete scegliere se procedere da soli o in squadra. Buon lavoro! La felicità se non è misurabile, non è» concluse il relatore, con il consueto segno di congedo.
Mi guardai attorno. Non conoscevo nessuno, o meglio, li conoscevo ma non avevo mai parlato davvero con nessuno dei presenti. Erano appartenuti tutti, fino a pochi giorni prima, ad una classe lavorativa superiore alla mia. Sentii una mano sulla mia spalla – chi poteva essere così stupido da stabilire un contatto fisico non consensuale sul luogo di lavoro? – mi girai di scatto e rimasi interdetta nel riconoscere Fausto, il mio superiore in grado. «Per questo lavoro faremo squadra insieme» mi disse con una voce che non era la sua.
Qualcosa non tornava. Fausto, il signor cronometro digitale a cui bisogna inserire nell’agenda elettronica anche l’invito a bere un caffè alle macchinette, mi stava chiedendo di fare squadra con lui e lo stava facendo in modo assai bislacco. I suoi occhi erano fissi dentro i miei, l’espressione era quella di chi cerca di mettere a fuoco qualcosa che gli risulta familiare, la voce era di qualche tono più alta del solito, quasi strozzata, come se fosse in affanno nell’emettere quei suoni. Pronunciare quelle parole gli costava tutta la fatica che grava, di solito, sulla gola di chi sa che potrebbe ricevere un rifiuto. Sebbene l’intonazione non fosse quella di una domanda, perché a me pareva tale? Il mio capo mi stava forse chiedendo di poter lavorare insieme? E prendeva in considerazione il fatto che io avessi il diritto di non obbedire? Bizzarro! Un comportamento piuttosto atipico per quell’uomo preciso e fedele alla gerarchia, che non mi aveva mai sfiorato neanche con lo sguardo. E quella mano sulla spalla, poi! «Certo – risposi – coinvolgiamo anche qualcuno del reparto Ingegneria Inversa?» chiesi. «No, solo io e te» rispose, dopo quell’attimo di esitazione, come lo stronzo che conoscevo bene. «Hai fatto un lavoro apprezzabile con quel tuo studio sul ritorno delle passioni, per quanto le argomentazioni risultino a tratti elementari e didascaliche. Ma per questo lavoro dobbiamo partire da alcune delle tue intuizioni che, devo ammettere, sono state davvero brillanti. Piccole scintille che non voglio vedere spente da quelle teste analitiche del reparto di Ingegneria Inversa. A furia di destrutturare ogni cosa, hanno perso persino la capacità di farsi un panino» gorgogliò in un unico borbottio senza prendere fiato, concludendo con una volgare risata. «In verità credo di averli visti qualche volta mangiare dei sandwich in pausa pranzo» obiettai, ma lui non mi stava più ascoltando. «Proseguiremo il lavoro a casa mia. Sai dove abito? – mi chiese senza attendere la risposta – Recupera l’indirizzo e cerca di essere lì tra massimo un’ora» concluse. Si girò sulle suole di quelle scarpe che valevano tanti crediti quanto due dei miei stipendi, e prese la via da cui era arrivato e che io ignoravo. Non avevo la più pallida idea di dove potesse abitare quell’uomo? Aveva una vita fuori dalle mura del Grande Palazzo? Recuperai il plico di materiale confiscato assegnatomi e mi avviai verso l’Ufficio Accoglienza, dove avrei potuto chiedere l’indirizzo di casa di Fausto.
Il viaggio verso il piano terra del Grande Palazzo non fu vano: il mio nuovo grado all’interno della gerarchia della Woland mi permetteva di ottenere alcune informazioni personali sugli altri dipendenti. L’accesso ai dati sensibili di chi ci circonda è un privilegio accordato a chi, come me, aveva un titolo lavorativo composto da almeno quattro parole sintetizzate in un acronimo. Io ero passata da essere un A.C. (Analista Calcolatrice, due sole parole) ad essere una Fedele Osservatrice e Analista Demoscopica – ben quattro parole – riassunte altrimenti (e per comodità) nel termine F.O.A.D. Soltanto gli A.A. (Addetti Accoglienza), nonostante le sole due lettere del titolo lavorativo, avevano accesso ai dati sensibili di chi, invece, aveva quattro o più parole a descrivere la propria mansione e posizione gerarchica all’interno della Woland Corporation. Tra le loro mansioni, dopotutto, vi era anche quella di chiamare taxi e concordare il costo in crediti per la tratta verso casa o prendere le telefonate di mogli e mariti, ritirare la corrispondenza e la domiciliazione dei beni di prima necessità, ricordare gli appuntamenti con medici e partner sessuali ecc. ecc.
Un dirigente della Woland Corporation aveva proposto di sostituire gli A.A. con degli automi per digitalizzare la loro funzione, ma presto scoprimmo che questa tecnologia aveva un grande difetto: gli automi non sono in grado di mentire e, un buon ed efficiente A.A., deve padroneggiare l’arte della menzogna ogni qual volta un dipendente della Woland viene esonerato dall’attività lavorativa, cancellato dagli archivi anagrafici e amministrativi, eliminato da tutte le foto che lo collegano all’azienda (o ai suoi dipendenti) e a cui viene inibita la facoltà di mettersi in contatto con gli ex-colleghi rimasti fedeli alla Woland Corporation. Non siamo ancora riusciti a trasmettere, alle intelligenze artificiali, la capacità di annichilire psicologicamente un individuo. O meglio, l’effetto di annichilimento si è rivelato molto più significativo e impattante quando sono delle persone reali, in questo caso gli A.A., che fino al giorno prima si occupavano silenziosamente, con dedizione e premura alle esigenze altrui, a disconoscere, ignorare e umiliare dipingendo con della vernice spray nera i colori gerarchici della divisa di chi è stato licenziato o, peggio ancora, ha deciso deliberatamente di abbandonare l’azienda.
Nel 2040 nessuno si veste di nero, perché il nero è il colore degli inadatti e di chi non ha un posto all’interno di una gerarchia aziendale. Il nero è il colore di un monitor spento.
La decisione di affidarsi ancora all’emotività delle persone, in questo caso la spettrale indifferenza degli A.A. e la condanna all’umiliazione e al confino degli annichiliti che non si sono adeguati o hanno tradito la fiducia aziendale, è forse uno degli ultimi lasciti dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della Dittatura delle passioni. Istanza accettata, perfezionata e canonizzata in quanto si è rivelata essere la via più efficace per il benessere, la motivazione e l’appagamento di chi rimane e non sfida la gerarchia. Agli A.A., l’ultima ruota del grande carro a cui faceva capo Michail “Huxley” Woland, veniva insomma delegata quella brutta rogna, quel lavoro sporco, del disprezzo.
I veri leader non hanno bisogno di disprezzare chi non si è mostrato all’altezza delle loro aspettative, perché lasciano che siano le fauci dei propri cani a ringhiare e deridere chi non accetta, sfida o abbandona il sistema.
Era capitato anche a me.
Avevo dovuto annichilire un partner con cui stavo valutando l’ipotesi di stipulare un contratto matrimoniale. La nostra proiezione statistica di compatibilità era discreta, ma ambivo ad elevare la mia classe sociale, in cambio di sesso, compagnia e tenerezza, buttandomi definitivamente alle spalle anche l’ultimo lascito della mia condizione di nascita ed ennesimo fardello ereditato dalla mia coppia genitrice,. Dopotutto le uniche due motivazioni per giustificare la monogamia, secondo Woland, erano appunto un’assoluta compatibilità circa i gusti e i disgusti alimentari, sessuali e ludici oppure un contratto bilaterale economico tra membri di diverse classi sociali.
Una volta annichilito il mio partner, colpevole di aver rifiutato una promozione che avrebbe esautorato il suo superiore non più gradito alla Woland, mi ritrovai punto e da capo a cercare possibili candidati per una notte di sesso o per la vita, sulla piattaforma di incontri gestita direttamente dalla Woland Corporation.
Ricordo che una volta l’algoritmo mi propose persino Fausto ma, ai tempi, non l’avevo reputata una scelta dettata dal buonsenso e in ogni caso, nonostante fossi a conoscenza del suo successo sulle piattaforme di incontri sessuali, io non mi sentivo attratta da quell’uomo. L’attrazione sessuale, in quanto istinto condiviso in tutto il regno animale e spiegabile attraverso l’etologia e la chimica, rappresenta a tutti gli effetti una variabile nel calcolo per la determinazione della compatibilità tra due individui ed il mio istinto trovava Fausto repellente. Quella tonda gonfia faccia gioconda amplificata da un sorriso che di raro mancava sulla sua bocca. Un sorriso così osceno, da avergli deformato persino quel mento collassato in una profonda fossetta centrale. Alcune rughe marcavano i suoi occhi fino ad incontrare due grosse basette pelose, ormai più grigie che nere, che gli incorniciavano il viso. Il suo non era un volto, ma un manifesto alla derisione e all’irriverenza. E poi faceva sempre quella cosa strana… di dire il contrario di ciò che pensava. Ogni tanto diceva che si moriva di caldo, ma eravamo nel pieno dell’inverno o dava del genio ad un collega che aveva espresso un concetto particolarmente banale. Diceva che era “ironia” e quanto lo trovava divertente! Rumorose risate! E ridere, diamine, mi risultava così volgare. Nel resto del tempo? Fausto riusciva a essere finto persino in una società in cui non era più necessario fingere di essere felici.
13 giugno 2040 – Monte Orsa, Frontiera Nord. Distretto montano della Valceresio.
La nostra camminata per i ripidi sentieri dei boschi di castagno si è conclusa davanti al cancello degli Inferi della mitologia Cristiana. O un portale, forse, che ci avrebbe fatto viaggiare nel tempo per atterrare coi piedi nel fango delle trincee della Prima Guerra Mondiale. Le premesse non sono delle migliori. Ho pensato.
E infatti, se non avessimo disarticolato i nostri dispositivi occhio-orecchio, una serie di notifiche incalzanti ci avrebbe sconsigliato di seguire Signor Conto alla Rovescia per un Tumore e le sue sigarette puzzolenti, in quella fossa greve. Eppure lui, reso impavido, forse, dalla certezza che presto sarebbe comunque morto male per via del cancro ai polmoni, ci ha sorriso con un solo angolo della bocca – quello libero dalla sigaretta fumante – per far cigolare i battenti di quel cancello arrugginito che ci separava da quel buio così profondo ed estraneo.
Ho cercato di trasmettere il desiderio di luce al mio dispositivo occhio-orecchio, l’ho cercato con la punta delle dita sulla mia tempia: era ancora lì. Ma era freddo e non pulsava né emetteva quel bianco ronzio, che è il respiro stesso della processione di nuovi dati. Con il dispositivo disarticolato, i miei occhi avrebbero dovuto adattarsi a quel buio. Sono necessari circa trenta minuti affinché la concentrazione di rodopsina sia sufficiente per modificare la fotosensibilità della retina e passare così da una visione diurna a quella notturna. Trenta minuti in cui avremmo dovuto camminare alla cieca, facendo affidamento solo sul suono dei nostri passi e l’aguzzarsi di tutti gli altri sensi.
Non mi piace il buio e ciò che esso sa celare.
Trenta minuti.
Trenta minuti in cui avrei dovuto sfidare il mio bisogno epidermico di controllo e accogliere l’imprevisto. Trenta lunghissimi minuti di vuoto che può essere colmato da trappole, agguati e sgambetti di ciò che non può essere previsto o che forse non esiste. Ho cominciato un conto alla rovescia silenzioso, come la sabbia che scivola giù dalla stretta vita di una clessidra, dividendo la luce dall’oscurità. Trenta minuti prima di addomesticare le ombre e definire la loro cattività…
«Non vuoi una torcia?» mi ha chiesto Mister Enfisema vendendomi paralizzata all’ingresso del lungo tunnel oscuro.
«È buio dentro!» ha concluso con un sorriso storto e giallastro, sfregando una torcia sferica tra le mani per generare un campo magnetico. La torcia a carica elettrostatica si è attivata emanando un alone freddo di luce senza riflessi, più simile alla nebbia che a raggi pronti a fendere le tenebre, ma meglio di niente! Ho sfregato le mie mani una contro l’altra e ho schiuso le dita affinché la luce, attratta dal mio campo magnetico, ha fatto un balzo controllato verso di me e lì si è depositata, senza toccarmi, come un bombo disturbato che fluttua da un fiore all’altro, senza mai rinunciare al volo. Con la sfera sospesa davanti a me, sono riuscita a scorgere delle scale oltre al cancello. Mi sono voltata, un’ultima volta, per cercare con lo sguardo Fausto, Giulio e Monica. Ognuno di loro aveva la propria sfera luminosa che balenava sui palmi delle mani. Mi hanno sorriso e Monica mi si è messa accanto e, insieme, abbiamo varcato la soglia di quella lunga trincea scavata nel XX secolo.
Fu durante la Prima Guerra Mondiale che il Generale Cadorna decise di portare a termine il grande progetto di fortificazione del confine settentrionale del Paese, dalle valli ossolane fino ai passi orobici. Quarantamila uomini vennero impiegati nella costruzione di strade, sentieri, mulattiere, trincee e depositi dai 600 a 2mila metri di altitudine. Vennero così scavati oltre settanta chilometri di trincee nella roccia della montagna e fatti esplodere centinaia di ordigni, per ricavare più di ottanta postazioni di artiglieria lungo le trincee e noi, a distanza di oltre un secolo, ci trovavamo proprio lì, in una di quelle postazioni – ferite aperte nella roccia – predisposte ad ospitare cannoni, mortai e disperati con un fucile carico in mano.
Abbiamo camminato per diversi minuti lungo un tunnel scivoloso e ostile, con le gocce di umidità che cadevano da quel soffitto scavato nella pietra e spaccato, qua e là, dalle radici degli alberi che aveva avuto l’esclusiva di invadere, storicamente, la fortezza. «Sono anni ormai che ci troviamo qui. Queste trincee sono diventate la nostra casa. Qui ci sentiamo come se… Maledetto figlio di uno stronzo malcagato da un cane malato e puzzolente!» ha urlato a un certo punto la Valchiria, arrestandosi di colpo sui suoi piedi e interrompendo il cammino della carovana che la seguiva. La marcia è ripartita pochi istanti dopo, senza però che si fosse interrotta quella rara e maleducatissima manifestazione di improperi e turpiloquio da parte della Valchiria che si è avvicinata, con lunghe falcate agili e minacciose come lo scatto di un predatore, verso il volto nobile e seducente di Michail “Huxley” Woland in persona che riempiva un’intera parete della caverna. «Willy Wonka e la tua fabbrica di merda, che tu sia maledetto!» ha detto avvicinandosi con aria di sfida a quello che però era solo il simulacro dell’uomo più potente e subdolo del mondo. «Ti piace?» ha chiesto Ballard. «L’idea è sua…» ha detto, indicando Fausto, che ci ha raggiunto sorridendo, come al suo solito, deformando la bocca in un ghigno cattivo. «Durante la nostra esibizione chiederemo di lasciare un segno sulla gigantografia del faccione del Signor Woland. Una scritta, una firma, una foto… uno sputo!»Ballard non se l’è fatto dire due volte e, abbandonato il suo carico a terra, ha raggiunto la gigantografia di Woland e ci ha pisciato sopra nonostante le proteste, non abbastanza autorevoli, di Monica. «Hey, abbiamo intenzione di portarcelo dietro per tutto il tour! Non ho voglia di viaggiare su un camper puzzolente della tua urina!» ha detto, fornendomi così il gancio per poter affrontare con lei un discorso a me molto caro: l’igiene di Monica. O meglio, il suo concetto di igiene e la sua percezione degli odori che emana.
Conosco Monica da ormai diversi mesi e credo che cambi più spesso i vestiti della sua gallina che i suoi. Mi chiedo cosa ci sia in quel vano puzzolente sotto il suo letto da cui attinge abitini, tutù e gonelline colorate per la gallina, ma da cui non tira mai fuori qualcosa per se stessa. Indossa la stessa maglietta da quando la conosco. «Tanto non ha le ascelle!» si è giustificata, non senza ragione, dal momento in cui definire ciò che indossa una t-shirt effettivamente è un po’ fantasioso. Monica indossa quella che un tempo, molto lontano, doveva essere una maglietta ma di cui, adesso, ciò che rimane, sono dei lembi con un buco in mezzo per la testa e due lunghi squarci che partono dalle spalle, arrivano sui fianchi dove un nodo sigilla i lembi. Ed è oggettivo che il vuoto costituito dagli squarci laterali, non possa essere contaminato dalla puzza di sudore che il contatto diretto con le ascelle può creare, ma è altrettanto vero che da quegli squarci laterali gli esca sovente una tetta. «Tanto non ce le ho le tette e non le ho mai avute!» si è giustificata, ancora, nel momento in cui chiedevo lumi in merito alla sua presa di posizione di non lavarsi, non cambiarsi e ignorare il buonsenso di non uscire di casa con le tette di fuori. No, non c’entra il pudore. Nella nostra società non esiste la vergogna, perché non esiste l’idea del peccato carnale e il corpo della donna non è più sessualizzato o usato per sedurre, vendere o tentare ma, dati alla mano, si è rivelato molto più vantaggioso educare le donne a coprirsi piuttosto di insegnare agli uomini a non mal interpretare certi segnali e, per evitare le aggressioni di natura sessuale, molestie e abusi, il regime del Buonsenso sconsiglia vivamente alle donne di indossare capi che possano essere oggettivamente considerati sexy. La Woland Corporation rilascia una lista stagionale aggiornata poiché, si sa, i canoni erotici cambiano in base al momento storico, le tradizioni culturali, il clima, il benessere psico-sociale collettivo e tanti, tanti, altri fattori. Uscire con le tette di fuori, devo dire, che è una presenza piuttosto costante all’interno di queste liste.
Ma sembra che a Monica non importi. Per lei niente ha valore, tranne quella maglietta puzzolente o quella borsa logora e sbiadita o quegli anfibi sbucciati. Il suo basso consumato che non cambierebbe con nessun altro strumento al mondo. Il camper rattoppato e sfinito dalla strada che ancora dovrà percorrere. Apparecchiare la tavola in qualsiasi situazione, chiederti un milione di volte al giorno “come stai?” e non ascoltare mai davvero la risposta. Monica vive in un mondo in cui il senso di ogni cosa è mutevole e arbitrario e, in assenza di certezze, bisogna abbandonare il superfluo, il dovuto, il non sentito. Aggrapparsi con tutte le forze, invece, celebrare e proteggere quei minimi rituali che sono luogo di cura e amore.
Per fortuna Monica, con quella sua voce da bambina con la raucedine, è riuscita a convincere altri punx, che già avevano abbassato la zip dei pantaloni, a non far diventare un rituale (decisamente privo di amore) il pisciare contro la gigantografia di Woland. «Trasformate quella cosa gassosa e pesante che è l’odio, in linee e colori! Non sprecate quell’energia! Liberatevi della rabbia con gioia e creatività!» ha sussurrato Monica, nelle orecchie dei ragazzi e delle ragazze – sempre più numerosi – che si erano arrampicati fino a lì per assistere ad un concerto. Abbracciandoli tutti, posando una mano sopra le loro spalle, baciandoli sulla fronte come una zia ubriaca ad un matrimonio e dando via al primo segno, dopo il piscio di Ballard, a quell’opera d’arte corale, situazionista ed iconoclasta.
Dopo una cena a base di fagioli in scatola e panini avvolti nella stagnola, innaffiando tutto con ingenti quantità di birra in lattina, siamo tornati nella caverna centrale per assistere al primo concerto della band di apertura e ciò che abbiamo trovato ci ha tolto il respiro: armati di pennelli, pennarelli e bombolette spray un gruppetto di artisti improvvisati, ha trasformato il volto di Woland in quello di un mostro, sotto la cui pelle lacerata si nascondono le verdi squame di un rettile. E in quegli occhi, gialli e rossi dalla pupilla a taglio, lo sguardo feroce e afflitto di chi viene smascherato. Accanto a quel volto, al posto delle lettere che compongono il suo ed il nostro credo – la felicità se non è misurabile, non è – ne è comparsa un’altra che recita: “To the heroism of resistance fighters – past, present and future” con una grande “A” cerchiata in calce.
La band ha preso posto in quello che doveva essere il palco. Alcune ragazze gotiche vestite di pizzi neri e tutù di tulle funerei urlavano, da una parte all’altra della caverna, comandi ed indicazioni per attivare i generatori elettrostatici. Per avviarli era necessario dare una spinta iniziale attraverso un sistema di propulsione dinamica – ovvero delle cyclette modificate – e le tre spose delle tenebre si sono sfidate a carta, forbici e sasso per stabilire a chi sarebbe toccato pedalare. Una volta avviato il generatore, sarebbero bastati i nostri corpi in movimento, il sudore e il calore generato dai cori e le danze, per avere l’energia necessaria all’alimentazione dell’impianto luci e audio. Ballard, ancora sporco di vernice, ha preso posto dietro al mixer da cui partivano tanti e diversi cavi, che sembravano le viscide propaggini di un mostro paludoso tentacolare. Gli altoparlanti, ai lati della band, sono stati ricavati modificando quelle che dovevano essere delle casse di munizioni, in cui erano stati inseriti grossi coni, tenuti insieme con nastro isolante e filo di sutura. La Valchiria si è seduta dietro alla batteria. Una vera batteria. Con cassa, tom, timpano, rullante, piatti e persino il charleston. Fausto ne è rimasto rapito. La Valchiria, seduta là dietro, con le bacchette in mano, era una dea guerriera pronta a dare inizio e governare i tempi feroci di una battaglia tribale per la sopravvivenza.
So che esiste un mercato di veri strumenti destinati a collezionisti e nostalgici dell’epoca ma ovviamente è vietato suonarli e, per non creare infruttuose tentazioni, gli strumenti musicali in vendita non sono nelle condizioni di emettere alcun suono. Chitarre con corde in polimeri rigidi che riproducono, ma solo all’apparenza, la spessa elasticità e la ruvidezza del Mi basso o l’algida tensione del Mi Cantino. Corde impassibili al tocco di dita senza calli, che sono dono degli errori e della dedizione. Timpani flosci le cui pelli non possono assorbire l’urto dei colpi inferti. Pianoforti che sono gusci senz’anima, il cui bianco e nero di tasti ciechi non saprebbe come intonare meccanica alcuna.
Il vecchio cine è spento da anni Le scale e i nervi sempre sconnessi No future, FRANTI
Sostengono che i sogni non siano altro che il sistema di deframmentazione della memoria. Quel programma di Windows fatto di mattoncini colorati a cui ci si appellava quando non c’era più spazio sull’hard-disk e il sistema operativo andava in confusione. Il processo era alquanto lungo e noioso, ma l’alternativa era dover cancellare intere cartelle di foto e dischi scaricati illegalmente per far spazio a vecchi videogiochi bidimensionali dalla colonna sonora ipnotica e allucinata.
Non è possibile ricordare tutto. Custodire ogni istante.
Alcune cose vanno messe in ordine e alcune buttate. Altre, invece, che già sono state eliminate, hanno però lasciato una traccia non visibile a occhio nudo. Sognare vuol dire scegliere ciò che deve essere conservato, ed archiviarlo, o cancellare il ricordo di ciò che dobbiamo abbandonare lungo il nostro cammino. Questo è utile e lo metto qui. Quest’altro invece è pericoloso, fa male oppure è effimero e non è utile a quell’ecosistema di saliva inghiottita, parole taciute e artigli atrofizzati che è il vivere in mezzo agli altri. Deframmentare: Forma e colore dopo forma e colore, fino a ritrovare una zona libera, vuota, di un buio profondo capace di ospitare i nostri domani, come incastri in un Tetris della percezione.
Perché è solo nel sognare che combattiamo corpo a corpo con la medesima ferocia di un freddo calcolatore (if/then), che è clone dello spietato istinto a sopravvivere delle piante e degli animali, contro noi stessi e il nostro stare e sentire nel reale. Noi, i nostri ricordi e le nostre emozioni indomite e la possibilità di scegliere tra morire da stronzi o un piano a medio-lungo termine di non belligeranza con la realtà (gli altri e ciò che è lecito, utile ed opportuno), oppure sopravvivere, certo, ma come scemi di guerra. Senza alcuna possibilità di issare la bandiera della resa. Questo è ciò che vivi. Questo è ciò che senti per davvero.
Ed è nel sogno che noi viviamo.
Come quando sei su un palco fatto di bancali e rifiuti, i tuoi occhi incontrano quelli di chi è lì per sentirti suonare. Senza una cassa-spia a mettere in atto ciò che fai o una gerarchia che ti elevi ad un ruolo. Quando gli impianti sono quello che sono e l’eco delle gelide fabbriche – ex macelli, mercati comunali, case disabitate che trasudano di vita e selvatichezza come mai, prima di allora, nel loro ormai passato essere utili a qualcosa – amplifica la più debole delle urgenze.
Quando le orecchie servono a ben poco e la musica è tutta una questione di cuore, istinto, memoria muscolare e simbiosi con i tuoi compagni di ventura. Con i piedi a mollo nella birra del discount, i vestiti intrisi di fumo, a costruire un qui e ora che diventerà un ricordo. Un piccolo tassello di una memoria collettiva di cui non saresti mai parte senza chi, quello spazio, lo ha occupato e vissuto, senza il calore (l’odore e il sudore) di quella pelle bucata dall’acciaio chirurgico, le cicatrici che ci siamo scelti e che vengono celebrate dall’inchiostro, quelle parole sulle magliette nere, logore e fradice che sono manifesto, aculei e resistenza. Ogni segno, colori di guerra, per trasformare la rabbia in musica, la musica in elettricità, l’elettricità in moto e azione, l’azione in storia.
La nostra Storia.
Perché ad affrontare la realtà così come sogniamo – dichiarando guerra alla disperazione che paralizza e scacciando ciò in cui non crediamo o che ci viene a noia – non c’è trauma che non possa diventare banale. O dolore che non lasci una cicatrice di cui essere fieri.
Scriviamo questa storia, allora. Affinché i nostri ricordi non vengano ammansiti, addomesticati e resi innocui dal sistema immunitario della memoria che tutto normalizza. Cantiamo per contagiarci, gli uni con gli altri, con quel vivere e quel sentire caotico, fortissimo e a tratti assurdo che significa suonare in un gruppo d.i.y. punk, su questa faccia della Terra, a cavallo dei millenni.
Ci sono voluti vent’anni per creare questa storia. La racconterò come se fosse un sogno, mischiando il presente col passato, il reale col simbolico, il qui con l’altrove. Non mentirò mai. Poiché non esistono menzogne sotto la dittatura onirica del sogno e in quella dimensione, ai confini della realtà, che comincia il mio viaggio. In quella regione in cui s’innesca ed esplode un ricordo inventato… o forse è un incubo?
Era il 2041: avevamo il muso rivolto al muro e i fucili puntati alla schiena. Eravamo nella capitale russa della Confederazione post-europea, nell’anno XVI dall’instaurazione del Regime del Buonsenso.