9. Report#4 – 31 ottobre 2041, lasciando Minsk per la 100° data del tour. Destinazione Kiev.

9. Report#4 – 31 ottobre 2041, lasciando Minsk per la 100° data del tour. Destinazione Kiev.

Ho svegliato Fausto tirandogli una lattina vuota di birra addosso perché tocca a lui guidare fino a Kiev ed io dovrei fargli compagnia, ma lui sta ancora dormendo rannicchiato come una larva di maggiolino riesumata controvoglia, sul sedile del passeggero di quel camper fatiscente, unico superstite dell’incendio che ha devastato l’intera vita di Monica. Il camper, Monica e la sua gallina nera di nome Siouxsie: unici sopravvissuti di una vita randagia da lupa.

Sebbene ci sia andata bene fino ad ora, non possiamo abbassare la guardia e così ci alterniamo 24 ore su 24 alla guida, con turni di quattro ore a testa e poche soste programmate per ridurre al minimo il rischio di essere ripresi dalle telecamere delle centraline di rifornimento. Evitiamo l’autostrada e percorriamo così centinaia di chilometri ogni giorno, che ci portano da una città all’altra toccata dal nostro tour clandestino. 

Da stasera dovremo usare tre cifre per contare le notti che ci siamo lasciate alle spalle. Ieri era il nostro novantanovesimo concerto e, questo di Kiev, sarà il numero cento. 

L’estate ha lasciato spazio all’autunno ma, ormai da diverse settimane, le temperature ricordano uno di quei rigidi inverni che hanno preceduto l’estinzione dei ghiacciai. Queste terre, ambite mete dei turisti climatici, conservano ancora quel senso di sospensione e prospettiva di chi cela per mesi la propria nudità sotto una spessa coltre di vestiti, e che trasforma l’azione in immaginazione e dimenticando l’impazienza. 

So che in passato veniva considerato sconveniente il silenzio e ci si sforzava di intrattenere conversazioni, anche con chi, non si aveva nulla di cui parlare. Esistevano ormai pochi argomenti che non rischiavano di trasformarsi in conflitto e c’è stato un tempo, prima che il sopravvivere alle intemperie diventasse un privilegio, che uno di questi argomenti –  neutri, leggeri e versatili – fosse proprio il clima e il succedersi del tempo e delle stagioni. 

Che fosse in una sala d’attesa di un medico o nella sospensione claustrofobica di un ascensore, sui mezzi di trasporto pubblici o in pausa caffè a lavoro, con una sconosciuta dietro ad un bancone che ci serve una birra ed un rimedio d’emergenza alla nostra solitudine, lamentarsi del fatto che non ci fossero più le mezze stagioni, era un modo per rompere quel ghiaccio che si scioglieva nel silenzio e nell’indifferenza di troppi, alle estremità opposte del globo. Nell’affermare ciò – questa tesi secondo la quale avremmo dovuto presto piangere l’assenza della primavera, la scomparsa dell’autunno ed il dominio della risolutezza di climi, temperature, festività, ritmi e umori, troppo distanti tra loro, per essere così vicini e appiccicati – si rivelò senza troppa meraviglia precisamente sbagliata. No, non avrebbero sentito la mancanza delle cosiddette “mezze stagioni” ed il buon senso avrebbe presto rese vane e ridicole, quelle invocazioni di concederci di tenere strette a noi l’autunno e la primavera, affinché ci fosse più facile accettare il passaggio di testimone dall’afa e la siccità, al gelo e il buio. Perché davvero non si può passare dai tormentoni pop estivi, dai ritmi latini di cuori anelanti o spezzati, al dondolare di jingle pieni di accenti che balenano come luci natalizie nella capitale del non troppo compianto impero americano. 

Sbagliavano, sai che novità, perché nessun funerale è stato celebrato per Signorina Primavera e Signora Autunno dal momento che a sparire, da quella che era considerata la zona temperata al di sotto 60° meridiano terrestre, è stato il tanto ingiustamente odiato inverno che nessuno avrebbe salvato, se non fosse stato per le ferie concesse dalle festività e dalla parziale assoluzione della nostra pigrizia letargica.  

Ed eccoci qui, nelle terre in cui l’inverno è reale. 

Eccoci qui a imparare (per me) e ricordare (per Fausto, Monica e Giulio che l’inverno lo hanno già vissuto) come sia facile amare per contrasto. Il tepore di un sacco a pelo, dopo aver passato una notte in una fabbrica abbandonata, senza finestre a trattenere il calore e respingere la bufera di neve. Il conforto di un abbraccio, nell’attesa di quel momento in cui, quello stesso sacco a pelo, da gelido diventa ospitale per il nostro corpo e quel calore che altrimenti andrebbe disperso. Ed è nell’ammirare e vivere l’inverno che ho scoperto cosa sia il desiderio che qui, oltre il 60° meridiano terrestre, ancora esiste nonostante l’instaurazione del regime del Buonsenso. 

In queste terre in cui l’inverno è reale, e sopravvive il desiderio, ogni concerto è stato incredibile. Due generazioni di persone disposte a sfidare il freddo, il rischio di contagio batterico e la legge del buonsenso in assembramenti disordinati e incuranti dell’etichetta, avevano urlato con noi e riso e ballato, fino alle prime luci dell’alba, intanto che la bufera infuriava là dove il silenzio non portava più imbarazzo ma morte. 

«Stasera faresti meglio a recuperare la quarta corda del basso. Passiamo da una città più o meno civile in cui esistono ancora negozi stabili come quelli di una volta e, magari, in qualche bottega di modernariato per collezionisti, viene fuori qualcosa di utile per il tuo basso» urla Fausto, cercando di coprire il rumore della turbina solare del camper, innervosito per il brusco risveglio causato dall’urto della lattina sulla sua fronte. Si è svegliato con la luna storta e preferisce fare lo stronzo piuttosto di chiedere scusa per aver dormito troppo ed obbligato me, non solo a guidare più del previsto, ma a farlo nel silenzio e in solitudine.

«Sarebbe magnifico» ha risposto Monica, accogliendo e perdonando quell’aggressività che Fausto vorrebbe rivolgere verso se stesso, ma che non fa, e che rovescia su di lei come le feci che si staccano dal tutù di Gallina Siouxsie, fuori dal finestrino del camper, sotto gli occhi divertiti di Giulio.

«Concima» si giustifica Monica, sebbene fuori ci sia solo asfalto, ghiaccio e fango da giorni e giorni e che le feci della gallina, in ogni caso, si sono spalmate tra il vento e la fiancata del camper. 

 Il viaggio prosegue, con Fausto alla guida adesso, lasciandoci alle spalle le feci di Siouxsie, l’irascibilità del nostro batterista e la città di Minsk, ma non quell’acufene al mio orecchio destro, dono di un piccolo incidente avvenuto sul palco. 

Al nostro arrivo la città si è presentata ostile e polverosa. Per attraversare quella che ricordo come la rotonda più grande e trafficata mai vista in vita mia, abbiamo impiegato mezza giornata! Quando le istruzioni criptate ci hanno portato fuori dal centro, oltre la zona industriale, in mezzo alla foresta dove vivono contadini, taglialegna e tagliagole ne siamo stati sommamente contenti. 

Durante il concerto, però, un giovane orso di circa un paio di tonnellate, invadente e ferale poiché digiuno – essendo un orso – della conspevolezza del proprio e dell’altrui ingombro e delle leggi non scritte del pogo, si è introdotto tra il pubblico. L’inesperto orso ha infastidito, tocchicchiato, trussato e urtato diverse ragazze accanto al palco e, all’ennesimo respingimento osato questa volta dalle scheletriche braccia di una ragazzina microscopica coi capelli nerissimi, l’orso (infiltratosi tra i punk di Minsk) ha reagito, spingendola con violenza e scaraventandola per terra. Tra lei e il pavimento si ergeva però,  minaccioso, il manico della chitarra di Giulio, troppo perso nella cacofonia di un assolo improvvisato e non richiesto, per rendersene conto. 

Come in una premonizione a rallentatore frutto del calcolo – dopotutto è il mio lavoro – ho visto l’occhio della ragazza infilzato da qualche chiavetta dell’accordatura del manico della chitarra e mi sono lanciata, tra lei e Giulio, accogliendola tra le mie braccia e arrestando così la rovinosa caduta e la probabile futura necessità di trovare un bulbo di vetro abbastanza simile all’occhio sano rimato. 

Di risposta ho ricevuto un bacio morbido, umido e lungo, sulle labbra. 

Ho abbracciato quel piccolo corpicino sudaticcio, che poteva essere scambiato tranquillamente per quello di una bambina di undici o dodici anni, il cui bacino non si è ancora schiuso per plasmare i fianchi di una donna. Era così piccola, che aveva dovuto alzarsi sulle punte dei piedi per baciarmi e aveva usato il mio corpo per aggrapparsi e mantenersi in equilibrio. Sotto le mie dita, attraverso il tessuto della maglietta intrisa di sudore, potevo contare le costole, una per una, così come i nodi sporgenti della colonna vertebrale. Ossa esposte, che spingono sulla pelle, tipiche di una fame che nessuna pasto può saziare. La voracità di chi ha ribaltato tutta la propria vita dalle fondamenta e non vuole sottostare a quelle leggi, che suonano come una lingua morta e incomprensibile, che la vogliono fragile, così fragile, da non poter sfidare la danza appassionata e frenetica delle prime file di un concerto, un autentico concerto suonato dal vivo. Leggi sbagliate che la vorrebbero privare di quel legame che si crea tra musicisti e pubblico. Un legame sincero e vero, come quel bacio. 

No, nessuna voglia di épater la bourgeoisie o accendere fantasie erotiche maschili con saffiche effusioni. Nessun desiderio di manifestare la propria liberazione sessuale o ammiccamento alle battaglie civili in voga tra gli uffici di marketing e le assemblee dei collettivi, ma solo un bacio – rivoluzionario per davvero – che sovverte il concetto di intimità tra due soggetti partecipi e protagonisti e che hanno compreso la differenza tra esibirsi e darsi completamente ad un pubblico. Tra chi si mostra e chi, invece, si espone su un palco attraverso il proprio corpo, la propria voce, le parole che scrive e il rumore che le accompagna.  

Una volta messa in salvo la piccola rivoluzionaria dai capelli neri, ho sentito montare una rabbia improvvisa che è partita dall’altezza dello stomaco. Faccio ancora molta, molta fatica a gestire il mio sentire e le emozioni, e ho perso il controllo. È molto più facile inibire e reprimere il proprio sentire, rispetto all’accettare e controllare la propria emotività. Ed era dall’inizio del concerto che avevo voglia di prendere a schiaffi quel grezzo energumeno che menava ginocchiate, gomitate e pugni a caso come una trottola inebetita, facendo il vuoto attorno a sé, sfidando quel nugolo di altri suoi simili con furiose flessioni e torsioni, tra un calcio e l’altro, a petto nudo sul pavimento sudicio. 

«No macho bullshit» ho urlato al microfono – me lo ha insegnato Monica – prima di scagliarglielo in testa, stretto nel mio pugno. Non ce l’ho fatta. Volevo fargli del male. Avrei voluto vederlo implodere, rattrappirsi e trasformarsi in una micro-merda di gallina plasmata dalla violenza del vento contro la fiancata del camper di Monica. Volevo punirlo e fargli del male affinché smettesse di essere così maledettamente bullo ed individualista, in mezzo a quella danza violenta ma armoniosa nel suo essere un coro di membra e muscoli e pelle e sudore. 

Come fa a non capire? Come fa a non vedere tutta la bellezza di questi corpi che, come elementi chimici, si attraggono e si allontanano, si fondono e tornano unici, si spingono e si abbracciano senza alcuna paura? 

Dritta in piedi, su quel palco alto come le orecchie di un coniglio, l’ho sfidato puntando i miei occhi dentro il suo unico occhio che riusciva a tenere aperto dal momento in cui l’altro occhio era protetto dalle palpebre raggrinzite e impegnate a tenere fuori quel sangue che colava giù dal sopracciglio che io, io, gli ho spaccato col microfono stretto in pugno. – Monica avrebbe parlato di karma, nonostante sia stata provata l’inverosimilitudine di quel principio per cui tutto viene vendicato e nessuno resta impunito –

“Non serve parlare la stessa lingua, ora” ho pensato, intanto che Fausto, Giulio e Monica continuavano a suonare e ridere come se nulla fosse accaduto. 

Eppure non riesco a togliermi dalla testa il ricordo di quel sangue, forse a causa della mia scarsa familiarità con esso. 

Ad eccezione del flusso mestruale con cui conviviamo di rado, poiché il buonsenso suggerisce sì, di mestruare ma non più di una manciata di volte all’anno, onde evitare lo spreco di energia combustibile in emozioni distorte ed inganni ormonali, non è che siano poi così tante le situazioni in cui si ha a che fare col sangue oggigiorno. Non esistono film violenti. Non esistono macellerie. Rari sono gli incidenti sul lavoro, quelli stradali e persino quelli domestici. Nessuno si taglia più nell’affettare una cipolla, né si addormenta alla guida, poiché non abbiamo più la possibilità di distrarci grazie al nostro dispositivo occhio-orecchio che vigila sui nostri impulsi neuronali e rivela il calo di attenzione. 

Stai ancora guardando?  

Non ci sono risse nei bar e nessun uomo accoltella un altro per debiti o dipendenze. Nessun uomo ammazza i figli per punire l’ex moglie che lo ha lasciato. Abolita la rabbia, il sangue è diventato un’esclusiva della scienza. 

Ma quanto può essere potente la rabbia? Può far scoppiare temporali, esplodere macchine, incendiare città, far scorrere il sangue ed io con le mia ferocia e le mie mani ho provocato una lesione ad un essere umano. Ho violato il confine di ciò che è dentro e ciò che è fuori, ho aperto un varco nell’integrità del corpo, bucato un sistema e, da quella lacerazione, è uscito il sangue che prima scorreva, invisibile, nelle vene di un individuo confezionato in un corpo che non credevo così friabile. Pura follia! Eppure nessuno mi ha fermato e nemmeno condannata per aver manifestato una così vile, pericolosa e sconveniente emozione. Mi sono ritrovata, invece, circondata da diverse donne e ragazze molto giovani, che urlavano contro quell’idiota – ormai obbligato ad una poco virile ritirata con la coda tra le gambe – quelli che dovevano essere i più spietati appellativi che la lingua slava concedeva loro.

No macho bullshit! No macho bullshit! No macho bullshit! Urlavano le mie streghe dall’accento sovietico e a loro si sono uniti anche gli uomini. E così Fausto, alla batteria, ha assecondato quel ritmo primordiale con i giusti colpi di cassa e rullante. Ci siamo guardati negli occhi e, senza parlare, abbiamo attaccato con quel pezzo, mai suonato prima, composto durante il tragitto verso Minsk. 

Abbiamo scritto una nuova canzone durante il mio turno di guida, improvvisando con basso e chitarra non amplificati. Giulio ha simulato la distorsione della chitarra, soffiando tra gli incisivi socchiusi e i molari serrati. Monica accentuava la linea di basso gonfiando e sgonfiando le guance e facendo rimbalzare le labbra. Fausto teneva il ritmo picchiando con le bacchette su cruscotto, sterzo e portiera del camper, intanto che io urlavo una canzone di suoni senza senso, facendo fatica a tenere entrambe le mani sul volante di questo mezzo di trasporto che è custode di tutto ciò che ci serve in questa nostra nuova vita. 

Tutto ciò che io, Monica, Giulio e Fausto abbiamo abbandonato prima di partire per il tour, sembra così lontano e distorto. Come quell’incontro-scontro in metropolitana tra me e Monica. 

«Te lo ricordi Monica? Ero io quella ragazza che ti ha fatto cadere in metro» le ho confessato, girando la testa verso la zona a giorno del camper. 

«Certo che me le ricordo, non dimentico mai la gentilezza e tu eri stata gentile, che è una cosa rara di questi tempi» risponde, con quel suo sorriso stralunato che non abbandona mai il suo volto, senza lasciarle in dono occhi umidi di affetto.

«Sai, io non ho mai voluto rinunciare alla gentilezza anche a costo di perdere moltissimo. Hanno ragione a dire che l’emotività porta rogne, ma è quello che sono e che sempre sarò: non riesco a immaginarmi, neanche nel più schifoso dei mondi, ad agire secondo ciò che è più conveniente, utile o gratificante, se ciò non è fedele e coerente alla persona che vedo guardandomi allo specchio» scandisce le ultime parole, sillaba dopo sillaba, puntandosi un dito sul petto e, per la prima volta, in questa tenera gattina un po’ addormentata, vedo manifestarsi la fierezza di una predatrice.

«Non tutto può essere deciso secondo un calcolo che ci garantisca un’adeguata ricompensa, un ritorno di investimento vantaggioso, anche a scapito degli altri e della nostra individualità. Anche prima di tutto questo – dice indicando la strada oltre il parabrezza – essere noi stesse era un problema, piccola, Woland o non Woland…» conclude, strizzandomi l’occhio.

«Io ho sempre amato e odiato con tutta me stessa. Senza calcoli, freni o inibizioni. Ho fatto del male e me ne è stato fatto molto di più, ma in tutta la mia vita io non ho mai mentito, tradito i miei valori o ignorato i miei sogni perché in quella determinata situazione ne avrei ottenuto qualcosa di vantaggioso in cambio. A che prezzo? L’amicizia, la devozione, l’amore e la solidarietà non sono mai relazioni in cui si vince e basta. Non c’è nessuna, nessuna, ricompensa al mondo che legittimi e giustifichi il calpestare i propri valori.  Non ho un dio né un marito e tanto meno un dispositivo occhio-orecchio con un logo aziendale che riporta il mio nome e che mi dica chi sono o chi devo essere. Sono una reietta? Una fallita? Ho quarant’anni e vivevo in mezzo al nulla in compagnia degli alberi e degli animali? È vero, ne sono consapevole e fiera, ma ho deciso di essere me stessa fino in fondo e, ciò che provo, nessuna delle tue analisi potrà mai misurarlo. I tuoi ex-colleghi analisti, per esempio, avrebbero mai potuto prevedere che perdere ogni cosa in un incendio, mi avrebbe fatto trovare un’amica come te e che grazie al nostro incontro mi sarei ritrovata di nuovo in tour con la mia band?» chiede senza aspettarsi una risposta, che io non potrei comunque darle.

«Credo proprio di no, Monica – ho risposto, forse troppo seria e scura – ma se io fossi in te non mi darei tutta questa importanza, ecco. Io non sono altro che una che fa calcoli, dopotutto…» 

Quel giorno piovoso di circa un anno fa, in cui avevo incontrato Monica sulle scale della metro, era stato il primo giorno di quella che non può essere definita una stagione fortunata per lei e quei randagi che ospitava nella vecchia baita di legno, dispersa nell’hinterland periferico non cementificato di Milano. 

Eppure ieri notte sul palco dopo aver colpito l’orso bielorusso, ho cercato lo sguardo di Monica e ho trovato quel suo sorriso di viaggia libera dall’ingombro del passato, senza però dimenticarlo o rinnegarlo. Ho ricambiato il suo sorriso, sincera, per davvero. E, senza bisogno di parlarci, abbiamo seguito Fausto che, alla batteria, aveva dato inizio a quella canzone mai sentita da nessuno. 

Picchiava come un fabbro sul rullante e prendeva a calci la cassa. Pam-pam-pam-pam! Dopo i quattro giri di Monica al basso – con sole tre corde – e Giulio alla chitarra, è arrivato il mio momento di attaccare, ma mi è risultato impossibile. Capitanate dalla piccola punk con caschetto nero, le donne del pubblico mi hanno tirato su di peso e mi sospendevano sopra le loro teste, ed io mi sono abbandonata a quella marea che, passandomi di braccia in braccia, tra una mano sul culo, una in mezzo alle gambe, nell’incavo delle ginocchia o sotto le ascelle sudate, alla base del cranio, mi aveva portato a zonzo sulle teste rasate, colorate e appuntite presenti nel capanno per boscaioli in cui si teneva quel concerto clandestino.

Paura di cadere? Mai avuta. 

Eppure il mio volo d’angelo decadente, sulle mani dei punk di Minsk, è atterrato contro l’amplificatore ed il mio microfono ancora insanguinato, che non si staccava mai dalle mani come in una sorta di patto magnetico, puntava il suo diaframma verso i coni. Il feedback è stato così assordante che ne porto ancora la testimonianza in questo biiiiip persistente che mi infastidisce, persino durante i miei turni di guida. Eppure, per la prima volta nella mia vita, provo una strana forma di piacere nel nascondere la stanchezza e il dolore. 

Prima di questo strano tour, non ho mai fatto qualcosa che mi arrecasse un danno o una scocciatura, per il bene comune. È il mio turno di guida? Ho una responsabilità. Gli altri possono riposarsi perché contano su di me. Si fidano e si affidano a me. E quel senso per cui, in quelle quattro ore uguali per tutti e tutte, ognuno dà un pezzo di sé per gli altri, così come sul palco. Ed è davvero come dice Monica: qualcosa che nessuna formula può misurare. 

Dal momento in cui scendiamo dal camper per scaricare gli strumenti, a quando il concerto è concluso e brindiamo insieme. Persino nel momento in cui ci laviamo in fretta, affinché la poca acqua calda concessa dai boiler mezzi rotti dei luoghi in cui dormiamo, permetta a tutti il lusso di una doccia calda, non esiste più io o voi, ma siamo solo un “noi”, in cui ognuna delle nostre individualità splende e fa brillare gli altri di rimando, come raggi di luna che si frammentano tra le increspature di un mare mosso, come una maledetta palla da discoteca in un night club abbandonato e pieno di specchi rotti. 

«Sei stanca?» mi ha chiesto Giulio, vedendomi sbadigliare. 

«Se sei stanca posso fare io compagnia a Fausto, intanto che tu ti riposi. Il concerto di ieri è stato impegnativo e quello che è successo con quel tizio, il pugno, il sangue e tutto il resto… avrebbe turbato chiunque, persino te, DeeDee figlia del rogo» ha proseguito, sorridendo.

«Figlia del rogo?» ho chiesto. 

«Oh, sì… quel fuoco che hai dentro arriva proprio da lì. Non so come sia possibile, ma dentro di te c’è tutta quella forza incendiaria che credevamo spenta per sempre.»

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

12 giugno 2040 – Linea Cadorna, Monte Orsa. Distretto montano della Valceresio.

Il nostro tour è partito dalla provincia.

Non ricordavo più cosa volesse dire vivere sconnessa dal mio dispositivo occhio-orecchio. L’avanguardia della tecnologia, della modifica del corpo e il design di innesti magnetici microdermali che nascono dietro al padiglione auricolare, brillano di luce pulsante sulla tempia e strisciano sotto il sopracciglio per agganciarsi ad un gioiello di acciaio chirurgico a ponte, nella parte alta del naso, tra i due bulbi oculari. 

Da quando ho disarticolato il mio dispositivo dal servitore della rete della Woland Corporation, devo essere io a capire, per esempio, se ho voglia di patatine fritte e dove posso trovare la friggitoria più vicina e più quotata dalla comunità elettrica.  

Devo essere io a bere quando ho sete e ricordarmi di farlo. 

Non ho il conforto di un immediato riscontro in merito a ciò che indosso o ascolto o frequento. Né di ciò che penso. Dobbiamo essere noi a scegliere, a prendere le nostre decisioni.

E infatti ci siamo persi. 

Siamo finiti in mezzo ad un bosco e lasciato il camper a lato della strada, per evitare una fusione del radiatore surriscaldato dalle fatiche della salita impervia e degli imperturbabili tornanti, le curve a gomito e a zig-zag, indifferenti alla sofferenza del vecchio camper di Monica. 

Abbandonata la pianura piastrellata della grande metropoli di Milano, non c’è rettilineo che non si trasformi, all’orizzonte, in una svolta. Curva che non sia in discesa o salita che non nasconda una rovinosa china dietro al suo picco.  

Abbiamo visto il paesaggio cambiare. Addio città-fabbrica e addio città-commerciali. Addio campi lasciati incolti dalla pianificazione agricolo-economica del Buon Senso. Addio tele-strada regolare e magnetizzata su cui non è necessario essere vigili alla guida. Una volta entrati in Provincia, disarticolati i nostri dispositivi e afferrato il volante, la strada ha cominciato a inasprirsi e lungo la nostra prospettiva, si stagliavano le prime colline. Soffici collinette ricoperte di un verde rigoglioso e brillante, in principio, ma poi il verde si è fatto sempre più cupo, fino ad alternarsi a rocce grigie, ruvide e dall’aspetto minaccioso.  

Sbucando oltre una lunga galleria, ci hanno accolto  cinque vette aguzze a saturare la nostra vista. Oltre quelle vette brilla il Lago di Lugano e la costa Elvetica. Ed è lì che abbiamo progettato di fuggire nell’eventualità che qualcosa vada storto in occasione del nostro primo concerto clandestino. 

Abbandonato il camper abbiamo deciso di proseguire a piedi, grazie alle indicazioni scarabocchiate su un foglietto da Fausto,  intanto che parlava con un arcaico telefonino cellulare con A. del collettivo clandestino alla regia della nostra prima data del tour. 

Monica stava legando la sua gallina con un guinzaglio fuori dal camper, quando abbiamo sentito alle nostre spalle una voce maschile che ricordava, però, il tubo di scappamento di un mezzo a motore. 

 «Non vi conviene lasciarla lì, a meno che non vogliate applicare il protocollo D.E.A.T.H. alla gallina. Qui – disse alzando entrambi le mani come a verificare che non piovesse – vivono liberi e selvatici diversi animali come leprotti, tassi, cinghiali e volpi ghiotte di tutto ciò che ha le piume e il becco!» aveva detto il ragazzo con la voce a scoppio, accogliendoci con un grande sorriso giallo di nicotina. 

Dopo essersi presentato stringendoci le mani ed abbracciandoci, si è acceso una sigaretta davanti a noi ed io ho abbassato lo sguardo per la vergogna. 

«Volete? – ci ha chiesto porgendo il pacchetto – ne abbiamo scoperto, e continuiamo a farlo, a quintali qua tra le montagne!» 

Lo sapevo. Conosco la storia di questi luoghi eppure ho ascoltato volentieri il suo racconto di queste montagne, rotta di contrabbandieri e criminali in fuga. Durante le mie indagini preliminari e la pianificazione dei concerti, ho svelato parte dei segreti che questi boschi nascondono. E ricordo, che nel farlo, la mia pelle si era ricoperta di puntini in rilievo e mi si era rizzata la peluria sulle braccia, intanto che un brivido strambo mi ha attraversato il corpo. Ho tremato nonostante le miti temperature di una Primavera inaspettatamente così calda, da ingannare persino le lucertole che, irrompendo tra le crepe del cemento,  si scaldavano alla luce degli schermi pubblicitari. 

Ero a conoscenza del fatto che determinate emozioni potevano generare dei corto-circuiti sensoriali, come tremare anche se non fa freddo, appunto, o svegliarsi in un bagno di sudore persino in pieno Inverno. Ridere fino a lacrimare o ridere nel pianto. Il Buon Senso mi diceva che sarei dovuta stare alla larga da un posto del genere, ma avevo sentito una sorta di livida attrazione per la storia, meschina e sbagliata, di quei boschi. 

Luoghi di sofferenza.

«Tra queste vette nessuna guerra è mai stata combattuta, eppure ogni singola pietra deposta è frutto della miseria, dello sfruttamento e della follia militare» ci ha svelato Signor Nicotina, Monossido di Carbonio, Catrame ed Ammoniaca.  

Ci siamo guardati intorno. Ai lati del sentiero, che aveva smesso di assomigliare una strada da troppo tempo, all’ombra degli alberi e tra il marcire e il rigenerarsi delle foglie in humus, facevano capolino delle cupole di pietra con scorci, finestrelle e feritoie scolpiti nella roccia per far passare luce, aria e la canna di un fucile. 

Messa al sicuro Gallina Siouxsie abbiamo proseguito il nostro cammino con basso, chitarra, gli zaini e il resto della strumentazione sulla schiena. Ci hanno raggiunto, superandoci, altre persone cariche all’inverosimile; chi di panini, chi di birre in lattina ammassate in grandi bidoni di latta adattati a zaino o grosse giare di pioppo intrecciato sorretti con fasce in tensione sulla fronte. 

«Questo è l’ultimo carico, Ballard» ha detto una ragazza dalla larghe spalle e le braccia ricoperte di brutti tatuaggi, appoggiando a terra una cassa che teneva in bilico sulla testa. L’urto col terreno ha dato origine a sbuffi e nuvole di polvere, provocando alcuni colpi di tosse in serie alla ragazza che non si è preoccupata, però, di coprire la bocca con l’incavo del gomito né tantomeno, di disinfettare il perimetro di aria che la circondava. Ho abbassato lo sguardo, ancora una volta, per la medesima sgradevole sensazione che si avverte nel vedere il pus di una ferita infetta e le gocce di sudore di chi perde il controllo dove altri resistono.  

“Credo che il bosco non sia regolato dalle stesse leggi della città e così chi li vive” ho pensato.

 «Questa volta ti sei superata, Lara. Dove ne hai trovati così tanti?» ha chiesto un altro ragazzo che ricordava un cyborg mutante, con una grancassa sulla schiena, aste agganciate a gambe e braccia, cavi che si attorcigliavano come serpenti attorno al collo e un mixer al posto del torace. 

«Non ne ho la più pallida idea. Lo sa la Dea, lo sa! Non mi è mai successo di avere così tanta fortuna. Ma al momento spero solo di darli via tutti per non doverli riportare giù! Pesano, mannaggia. Pesano così tanto che sto rivalutando la mia posizione in merito alla piattaforma digitale di Willy Wonka!» ha detto scoppiando a ridere, seguita da Ballard e il cyborg avvolto nei cavi. 

«Willy Wonka?» ho chiesto senza ottenere risposta, poiché il bottino di Lara ha catalizzato l’attenzione di tutti i presenti, compreso Fausto che si è inginocchiato, come in preghiera, verso la cassa. 

Al suo interno: decine e decine di musicassette, CD e vinili proibiti con teschi, robot, esplosioni nucleari, bestie feroci, filo spinato, armi e bombe a mano, divinità terribili, città in rovina e motoseghe disegnati sulle copertine. Erano uguali a quelli dell’illecita collezione di Fausto. Simili a quei dischi sequestrati dai Tutori della Serenità e che ci erano stati assegnati dalla Woland Corporation durante la nostra officina di lavoro nei primi giorni di Primavera.  

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Per i politici, gli uomini d’affari e i comuni consumatori il datismo offre tecnologie all’avanguardia e nuovi immensi poteri. Anche ad accademici e intellettuali permette di rivelare il Sacro Graal scientifico che è sfuggito loro per secoli: una sola teoria onnicomprensiva che unifichi tutte le discipline scientifiche dalla musicologia all’economia e alla biologia. Secondo il datismo, la Quinta sinfonia di Beethoven, una bolla finanziaria e il virus dell’influenza sono soltanto tre pattern di un flusso di dati che può essere analizzato usando gli stessi concetti di base e gli stessi strumenti. Quest’idea è estremamente attraente. 

Homo Deus, YUVAL NOAH HARARI

L’idea sulla carta sembrava vincente. 

Sedevo in una trattoria minimalista, che serviva solo cibo color arancio, insieme a quelli che erano i miei colleghi dell’ufficio “analisi dei sentimenti” della Woland Corporation, una grande multinazionale presente in ventisette paesi del mondo. Bevevamo vino da centotrentatré euro a bottiglia, ottenuto da uva dal DNA modificato per ricordare il colore del tramonto. Era stata una nostra invenzione, la mossa giusta che ci aveva fatto ottenere quell’ambito premio aziendale al merito, per cui stavamo brindando in occasione della festa mensile dedicata alla socializzazione tra dipendenti del colosso sino-russo. Il vino, una volta stappato e fatto decantare, cambiava colore seguendo le mille e una sfumature del sole che tramonta per poi diventare nero come la notte. E, insieme al colore, aumentava la gradazione alcolica passando dai 5° di un leggero aperitivo, per arrivare ai 15° di un cocktail annacquato. Alta ingegneria genetica e una scientifica strategia di comunicazione, per un vino che era composto per il 65% da inchiostro e sintesi. Ma i consumatori lo trovavano romantico e in quei tempi, dati alla mano, la passione e l’emotività erano tornate sulla cresta dell’onda dell’intrattenimento a pagamento. Da noi venivano editori, politici, discografici massoni e industriali a capo di corporazioni che producevano dalle merendine ai sex-toys. L’analisi dei sentimenti stava alla base di ogni decisione commerciale e diplomatica. Il mio lavoro consisteva nel mappare e misurare le cyber-emozioni attraverso un sistema metrico basato sulla vanità, individuare uno schema ricorrente e passare le informazioni ai miei colleghi specializzati nella formulazione dell’algoritmo. 

Il popolo dichiara pubblicamente, di fronte alla propria comunità elettrica, ciò che acquista, mangia, ascolta e pensa poiché indossare quelle scarpe, seguire quella dieta o quel guru,  sostenere o aborrire quella opinione in merito ad una determinata questione sociale, politica o mondana, è motivo di vanto e appartenenza. Qualcosa da esibire, come la felicità di essere ciò che siamo, a proprio agio nelle nostre identità additive di bambole con mille accessori intercambiabili in dotazione. Ogni scelta, una volta individuato lo schema, può essere prevista, suggerita, corretta e appagante, anticipandone il desiderio.  

Io leggevo, osservavo e scavavo nei meandri dell’iperspazio. Ed ero brava in questo, perché non mi fermavo mai a ciò che era manifesto e fatto alla luce del sole, con filtri “bellezza” e innumerevoli scatti scartati a causa di pappagorge traditrici o rotolini di adipe svelati da elastici e cuciture. 
Senza troppa fatica era facile scoprire il sottotesto: noi della Woland abbiamo, dopotutto, accesso agli impulsi neuronali di tutti gli utenti che indossano un dispositivo occhio-orecchio. E se un tempo esistevano cronologie di navigazione da cancellare, musica da ascoltare soltanto quando si è soli, articoli morbosi letti con vergogna di cui non parleresti con nessuno, domande sussurrate in cerca di una diagnosi medica o parole chiave digitate con una mano sola, intanto che l’altra è nelle mutande alla ricerca di un colpevole piacere… adesso ci pensa l’algoritmo a mostrarti quello che vuoi liberandoti dal senso di colpa, la vergogna o l’abulia del dover scegliere tra le infinite possibilità. Che si tratti di cosa mangiare a pranzo o su cosa masturbarsi. 


Ecco, fu proprio da lì, dalle tendenze nella pornografia, che mi accorsi con grande e inaspettata meraviglia, che i video più popolari, suggeriti dagli impulsi neuronali, erano quelli in cui c’era una storia e che il ritmo di questa storia, spesso, era sostenuto da un concatenarsi di invidie, drammi della gelosia, competizione e faide tra classi sociali, ambientate in epoche passate. Ritmo accentuato da una sincopata tensione narrativa che esplodeva, risolvendosi, in grandissime scopate appassionate.

Quella mattina avevo fissato un appuntamento con il mio capo e i miei sette colleghi presenti in ufficio, usando i nostri dispositivi occhio-orecchio. Sette diversi bip, con uno scarto di qualche secondo, notificarono l’invito. Dopo un’altra manciata di secondi mi arrivarono cinque conferme su sette. Il mio collega seduto accanto a me – responsabile della moderazione delle polemiche accese dai nostalgici carnivori – era impegnato in una video-chiamata con la responsabile delle attività extra-lavorative. Il mio superiore mi inoltrò una proposta di anticipare l’incontro di otto minuti. Tolsi il dispositivo occhio-orecchio agganciato alla tempia, feci un giro di 90° sulla mia sedia girevole e chiesi ad alta voce se agli altri andasse bene, ma tutti erano rapiti come falene dalla luce dei monitor e non ottenni risposta. Tutti, tranne l’addetta allo svelamento delle superstizioni e pulsioni anti-scientifiche che annuì, dicendo:
«A me va bene, ma aggiorna l’evento sul calendario condiviso se non ti dispiace»§«Ok, va bene» risposi e altre sette volte i nostri dispositivi occhio-orecchio suonarono per allertarci. Ottenute le sette notifiche di conferma, aspettai i tre minuti che mi separavano dall’ora proiettata in caratteri verde acido oltre la mia retina, mi alzai per andare verso la sala riunioni e così fecero gli altri. 
«Ho sedici minuti e quaranta secondi – disse il mio capo, impostando un orologio digitale a forma di cubetto di ghiaccio al centro del tavolo – parla».

E così, in sedici minuti e trentasei secondi, raccontai cosa avevo scoperto.
«La comunità elettrica ha bisogno di passione» dissi, e illustrai la mia tesi con diverse diapositive con il logo aziendale, grafici a torta e statistiche illustrate, che confermavano ciò che era già intuibile dal titolo della presentazione e cioè: “Tutto è misurabile? Come trasformare la fidelizzazione del cliente in apparente passione, attraverso la trasmissione e il contagio degli ideali liberali”. 

Tra gli intellettuali e i dissidenti dell’epoca delle Democrazie Apparenti, andava molto forte una teoria argomentata e divulgata con cinismo, rassegnazione e con un’implicita sfumatura di biasimo e condanna: la critica verso la società, a loro contemporanea, era quella di non saper imparare nulla dalla Storia e dagli errori del passato. Ed ecco che ogni giorno si vestiva a festa per ricordare quella violenta strage da non perdonare, un olocausto da non ripetere o quelle vittime, seppur generosamente vendicate, da non dimenticare. Nulla di più falso. Ogni individuo e ogni essere vivente (del regno vegetale e animale) lotta per la propria sopravvivenza e, razionalmente, non dovrebbe commettere errori fatali, fare scelte controproducenti o assumere atteggiamenti autodistruttivi per se stessi o la propria specie a cui trasmette, attraverso i geni, queste informazioni essenziali. Questo sul piano razionale, appunto.

Prendiamo ad esempio il cosiddetto “vizio” del fumo, palese manifestazione delle assurde gabbie mentali, delle menzogne confortanti e dell’irrazionale e sconfinata ricerca del profitto di quell’epoca. 
Fumare il tabacco è un inutile passatempo dispendioso, che crea dipendenza psicologica, fa venire il cancro e causa gravissimi danni all’apparato broncopolmonare e al sistema cardiovascolare. Eppure, ai fumatori, non sembrava importare quanto il rapporto tra vantaggi e svantaggi fosse sbilanciato verso questi ultimi. E su questa anomalia, nell’elaborazione e nella lettura ed interpretazione dei dati, che si inseriva l’avidità delle lobby del tabacco, il cui potere influenzava quei governi da cui però ci si aspettava che curassero tutti quei malati, sulla cui infantile rivendicazione di libertà,   l’industria del tabacco traeva un generoso profitto. 
Non fu facile individuare e correggere il bug di quello schema secondo cui, sia le vittime che i carnefici, condividevano il medesimo desiderio: essere liberi di vendere e fumare sigarette, sentirsi liberi di fare e farsi del male. Ma una volta formulato l’algoritmo e dopo una serie di azioni chirurgiche di propaganda e repressione, nonostante  la tenacia kamikaze delle parti coinvolte (i fumatori e i venditori di fumo) si arrivò alla definitiva e razionalmente ovvia distruzione dell’industria delle sigarette, la messa al bando del fumo nei luoghi pubblici e privati e, di conseguenza, l’eliminazione di una gravosa voce passiva dal bilancio del sistema sanitario nazionale.

Era stata la Woland Corporation, grazie al suo sterminato archivio di dati e ai suoi processori, a individuare l’anomalia, a correggerla e a sconfiggere l’industria del tabacco. E fu proprio così che la Woland Corporation cominciò ad analizzare ogni cosa. 

Una volta individuato lo schema e formulato l’algoritmo fu chiaro per tutti e tutte – così per i miserabili che per i burattinai di questi ultimi – che guerra, povertà, ingiustizia e violenza erano da imputare all’irrazionalità, all’imprevedibile sentire, alla furia del ventre e alla follia del sognare di essere liberi, desiderare il potere e sperare di ottenerlo o mantenerlo.  La democrazia, allora, è stata sostituita da analisi scientifiche e calcoli statistici atti a creare proiezioni di ogni possibile scenario, al fine di valutare la scelta più conveniente per la stabilità sociale e, questo metodo, viene applicato anche alle scelte intime e private dei cittadini, circa gli amici da frequentare e i partner a cui legarsi. Così come per il concetto di bello, giusto o buono. 

L’algoritmo è in grado di vagliare infinite possibilità in un lasso di tempo irrisorio, inimmaginabile per la mente dell’uomo. L’algoritmo, inoltre, è più fedele alla realtà rispetto alla narrazione che facciamo di noi stessi e di ciò che ci circonda, perché non subisce l’influenza del vociare del nostro intimo soffrire, la pressione delle aspettative sociali, i ricatti affettivi e i pregiudizi culturali tipici così dei singoli individui come della coscienza delle società e dei gruppi sociali. L’algoritmo raccoglie i dati e li elabora. Punto. L’algoritmo sa prendere le decisioni giuste per noi. Anche se sono difficili e impopolari o molto lontane dalla nostra idea di etica e morale. L’algoritmo non conosce paura e insicurezza. Sia che si parli di gusto del gelato o di diritti umani. È una questione di buonsenso.

Immagine in evidenza elaborata da un dettaglio di un disegno di Miles Johnston.

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

STATI DI AGITAZIONE

«Andrà tutto bene» dico al mattone che fisso da circa un’ora.

Mi fanno male le braccia. Maledette appendici sottomesse alla forza di gravità. Dovrebbero stare giù e dondolare come orecchie di cocker e non in questa innaturale posizione di corna di cervo. Ma se tiro giù le braccia, l’uomo alle mie spalle urlerà qualcosa in una lingua che non comprendo, ma che mi fa paura.  

Indossa la mimetica, un passamontagna e un mitra a tracolla come se fosse una BC Rich attaccata al diaframma di un metallaro o di un musicista di liscio.  

«Metallari e animali da balera… Solo loro disdegnavano l’estetica grunge di uno strumento all’altezza dell’inguine, in favore di una maggiore resa tecnica. Loro, con le loro chitarre appuntite ad altezza capezzoli e i gomiti alti come zampe di cavalletta» mi aveva raccontato Fausto, parlando degli anni Venti, all’inizio di questa storia. 

Mi chiedo perché mi torni in mente, proprio ora, questo frammento di conversazione di quella notte. La notte in cui tutto è cominciato. 

Ma la memoria gioca strani scherzi e a volte riemergono ricordi che non reputiamo importanti e al contrario, di questioni considerate fondamentali non rimane che una scia lontana e sfocata alle nostre spalle. 

Rammento molto bene, per esempio, la prima volta in cui Fausto mi ha fatto ridere fino a togliermi il fiato. E adesso che ho paura di morire, non ricordo più come si fa. Vorrei trovare divertente quest’uomo alle mie spalle, dalle manifeste e cattive intenzioni, con le dita sul suo strumento –  che è un fucile e non una BC Rich, non me lo devo scordare – simile ad una cavalletta gigante, pronto ad affrontare un riff in crescendo che leva il respiro. Il mio respiro.  Prana Apana Sushumna Hari.

Il torace: cassa di risonanza di questo battito assordante e del mio affanno, che è musica violenta e mi anima e mi soffoca, come ovatta infilata giù per la gola di una bambola a cui hanno staccato la testa. 

Come faccio a soffiar via il male cantando, se non ho più fiato in gola?

«Gente bizzarra i musicisti che ci tengono a suonare bene. Si contavano sulle dita di una mano» aveva aggiunto Fausto, ricordo. 

Si contano sulle dita che mi rimarranno attaccate alla mano, risparmiate dalla cancrena, quando tutto questo sarà finito. Quando mi sarà chiaro cosa ne sarà di me e degli altri quattrocentoventidue ragazzi, con la faccia al muro e le mani alzate sopra la testa. Quando capirò cosa è andato storto e come ci sono finita con un fucile puntato tra le scapole, in un night club sconsacrato con neon rotti, velluti pieni di pulci ed affreschi rinascimentali vandalizzati che ancora conserva le cicatrici del Grande Rogo Civile del 2025.  


IL GRANDE ROGO DEL ’25 | Prefazione

IL GRANDE ROGO DEL ’25 | Prefazione

PREFAZIONE

NO DREAMS, NO FUTURE

Il vecchio cine è spento da anni
Le scale e i nervi sempre sconnessi
No future, FRANTI 

Sostengono che i sogni non siano altro che il sistema di deframmentazione della memoria. Quel programma di Windows fatto di mattoncini colorati a cui ci si appellava quando non c’era più spazio sull’hard-disk e il sistema operativo andava in confusione. Il processo era alquanto lungo e noioso, ma l’alternativa era dover cancellare intere cartelle di foto e dischi scaricati illegalmente per far spazio a vecchi videogiochi bidimensionali dalla colonna sonora ipnotica e allucinata. 

Non è possibile ricordare tutto. Custodire ogni istante. 

Alcune cose vanno messe in ordine e alcune buttate. Altre, invece, che già sono state eliminate, hanno però lasciato una traccia non visibile a occhio nudo. Sognare vuol dire scegliere ciò che deve essere conservato, ed archiviarlo, o cancellare il ricordo di ciò che dobbiamo abbandonare lungo il nostro cammino. Questo è utile e lo metto qui. Quest’altro invece è pericoloso, fa male oppure è effimero e non è utile a quell’ecosistema di saliva inghiottita, parole taciute e artigli atrofizzati che è il vivere in mezzo agli altri. Deframmentare: Forma e colore dopo forma e colore, fino a ritrovare una zona libera, vuota, di un buio profondo capace di ospitare i nostri domani, come incastri in un Tetris della percezione. 

Perché è solo nel sognare che combattiamo corpo a corpo con la medesima ferocia di un freddo calcolatore (if/then), che è clone dello spietato istinto a sopravvivere delle piante e degli animali, contro noi stessi e il nostro stare e sentire nel reale. Noi, i nostri ricordi e le nostre emozioni indomite e la possibilità di scegliere tra morire da stronzi o un piano a medio-lungo termine di non belligeranza con la realtà (gli altri e ciò che è lecito, utile ed opportuno), oppure sopravvivere, certo, ma come scemi di guerra. Senza alcuna possibilità di issare la bandiera della resa. Questo è ciò che vivi. Questo è ciò che senti per davvero. 

Ed è nel sogno che noi viviamo. 

Come quando sei su un palco fatto di bancali e rifiuti, i tuoi occhi incontrano quelli di chi è lì per sentirti suonare. Senza una cassa-spia a mettere in atto ciò che fai o una gerarchia che ti elevi ad un ruolo. Quando gli impianti sono quello che sono e l’eco delle gelide fabbriche – ex macelli, mercati comunali, case disabitate che trasudano di vita e selvatichezza come mai, prima di allora, nel loro ormai passato essere utili a qualcosa – amplifica la più debole delle urgenze. 

Quando le orecchie servono a ben poco e la musica è tutta una questione di cuore, istinto, memoria muscolare e simbiosi con i tuoi compagni di ventura. Con i piedi a mollo nella birra del discount, i vestiti intrisi di fumo, a costruire un qui e ora che diventerà un ricordo. Un piccolo tassello di una memoria collettiva di cui non saresti mai parte senza chi, quello spazio, lo ha occupato e vissuto, senza il calore (l’odore e il sudore) di quella pelle bucata dall’acciaio chirurgico, le cicatrici che ci siamo scelti e che vengono celebrate dall’inchiostro, quelle parole sulle magliette nere, logore e fradice che sono manifesto, aculei e resistenza. Ogni segno, colori di guerra, per trasformare la rabbia in musica, la musica in elettricità, l’elettricità in moto e azione, l’azione in storia. 

La nostra Storia. 

Perché ad affrontare la realtà così come sogniamo – dichiarando guerra alla disperazione che paralizza e scacciando ciò in cui non crediamo o che ci viene a noia – non c’è trauma che non possa diventare banale. O dolore che non lasci una cicatrice di cui essere fieri. 

Scriviamo questa storia, allora. Affinché i nostri ricordi non vengano ammansiti, addomesticati e resi innocui dal sistema immunitario della memoria che tutto normalizza. Cantiamo per contagiarci, gli uni con gli altri, con quel vivere e quel sentire caotico, fortissimo e a tratti assurdo che significa suonare in un gruppo d.i.y. punk, su questa faccia della Terra, a cavallo dei millenni. 

Ci sono voluti vent’anni per creare questa storia. La racconterò come se fosse un sogno, mischiando il presente col passato, il reale col simbolico, il qui con l’altrove. Non mentirò mai. Poiché non esistono menzogne sotto la dittatura onirica del sogno e in quella dimensione, ai confini della realtà, che comincia il mio viaggio. In quella regione in cui s’innesca ed esplode un ricordo inventato… o forse è un incubo? 

Era il 2041: avevamo il muso rivolto al muro e i fucili puntati alla schiena. Eravamo nella capitale russa della Confederazione post-europea, nell’anno XVI dall’instaurazione del Regime del Buonsenso.