8. Senti il richiamo | IL GRANDE ROGO DEL ’25

8. Senti il richiamo | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Mi lasciai alle spalle il Grande Palazzo, sede della filiale italiana della Woland Corporation, che non era ancora scoccato mezzogiorno per accorgermi che diluviava. All’interno dell’edificio le finestre erano, in realtà, schermi che irradiavano la giusta intensità di raggi solari per stimolare la produzione di Vitamina D, proiettando cieli azzurri solleticati da qualche nuvoletta candida e soffice, come la schiuma che ricopriva l’aquapark dei Navigli, dividendo in due la città. 
 Mi fiondai giù per le scale della Metropolitana che mi avrebbe portato nel quartiere residenziale di Fausto quando, il mio dispositivo occhio-orecchio, mi trasmise il dato di aver portato a termine la sfida del digiuno intermittente e concluso il mio periodo di disintossicazione settimanale. 
Confermai di non avevo assimilato calorie, né sprecato risorse alimentari nelle ultime 48 ore con un tocco sulla tempia. Con altri due tocchi ravvicinati scattai una foto, sorridendo in direzione del mio dispositivo microdermale innestato sul polso. Un altro tocco ancora e l’autoscatto venne pubblicato sul mio diario alimentare e condiviso tra la mia comunità elettronica della piattaforma dedicata ad una sana e corretta alimentazione e all’equa redistribuzione delle risorse della Terra. 
Mi voltai con un dietrofront improvviso, per tornare nella mensa del giardino pensile del Grande Palazzo, ma un ostacolo bloccò il mio cammino con un urto violento. Da quell’incontro-scontro ne venne fuori un trambusto di lattine rotolanti giù per le scale della metro, piume nere ed un concertino di starnazzamenti, strilli vibranti e delle scuse emesse da una voce che ricordava il sapore dello zucchero filato un po’ sbruciacchiato.
«Oh, che sbadata. Scusami, amica. Scusami, ma non ti ho vista!» disse l’ostacolo, confondendomi con un sorriso stralunato e bellissimo, nonostante fossi io la colpevole di disattenzione e la parte attiva di quel placcaggio metropolitano. La aiutai a raccogliere quelle lattine che scoprii contenevano cibo per animali e le infilai in una borsa logora di un nero sbiadito, in cui intravidi un logo scrostato di un’azienda che non conoscevo ma che doveva, un tempo lontano, raffigurare la zampa di un cane accanto al pugno di un umano, entrambi circondati da’un aureola di lettere che non riuscivo ad interpretare. 

Era una donna assurda con nastri e dadi di acciaio tra i capelli stopposi, che avevano i colori slavati di un timido arcobaleno che si riflette sulla superficie di una pozzanghera. Non aveva un buon odore, o meglio, aveva un odore che io non avevo mai attribuito ad una donna ed era simile al fango, all’erba dei prati, alla pelliccia dei gatti, alla resina degli alberi, alla ciccia dei bimbi, ai broccoli bolliti e all’ammoniaca.
«Grazie, amica mia» ripeté, prendendomi le mani tra le sue, per poi andare via con una gallina nera, stretta in una buffa pettorina piena di balze e fiocchetti, attaccata ad un guinzaglio.
«Pol-pot, pol-pot, pol-pot» chiocciava la gallina guardandomi con severa dignità, nonostante il grosso tutù di pizzi e merletti viola, che avvolgeva metà del suo corpo.
Ma più della pennuta al guinzaglio col tutù, mi colpì il fatto che per la seconda volta, nell’arco di una manciata di minuti, due persone avevano stabilito un contatto fisico non occasionale con me. Potevo ancora sentire quella sensazione improvvisa, ma ferma, della mano di Fausto sulla mia spalla che persisteva, come se avesse lasciato delle spore sulla mia pelle. 

È dal 2020 che il distanziamento sociale è diventato legge, a seguito della pandemia, ed è stato adottato come buona etichetta anche dopo aver debellato il virus, per una mera questione di buonsenso. Toccarsi rappresentava comunque un rischio e allora perché baciarsi, abbracciarsi o stringersi le mani per salutarsi? Eppure pochi minuti prima Fausto mi aveva appoggiato una mano sulla spalla ed ora la donna della gallina, con quella sua stretta avvolgente e delicata e quella sensazione di contaminazione. 

Mi guardai le mani, convinta che quel contagio si doveva tradurre anche in una manifestazione visibile ai miei occhi. Ma niente… le mie mani erano quelle di sempre e tenevano in mano una scatoletta di cibo in mousse per gatti anziani.

«Perché hai in mano una scatoletta di cibo per gatti senza denti?» mi chiese Fausto, non appena varcai la soglia di casa sua.
«Se hai fame possiamo ordinare qualcosa» disse piegando un sopracciglio che trascinò con sé, come il filo di un burattino, anche l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco e scanzonato.
«Il fattorino sarà felice di farsi il viaggio in una così bella giornata» disse. Stavo per obiettare indicando i miei vestiti zuppi, tralasciando il fatto che non avrei mai mangiato cibo per gatto neanche in una situazione di emergenza, ma poi capii che lo aveva fatto ancora. Quella cosa dell’ironia. Che schifo.

Gli raccontai cosa mi era successo, della donna coi capelli del colore dell’arcobaleno sbiadito, della gallina al guinzaglio e di quel logo aziendale che non avevo riconosciuto.
«Non è un logo – rispose – è un simbolo».
E non disse più nulla per qualche minuto, ma mi fece accomodare con un cenno sul grosso divano color perla e accendendo con un telecomando un camino a led, incurante del mio giacchino di jeans fradicio e delle piccole pozzanghere di pioggia e sporcizia che avevo lasciato lungo il mio cammino.

«Quello che hai visto era uno dei simboli usati dagli animalisti prima della grande riforma del Buonsenso. Ai tempi c’era chi aveva deciso di battersi in difesa di chi non poteva farlo» urlò dalla cucina.
«E perché? Quale beneficio portava, a questa gente, combattere per chi non poteva dare nulla in cambio? Mi sembra poco sensato e ancor di più rivendicare questa stupida irrazionalità indossando un marchio che lo renda manifesto» obiettai.
 «Si tratta di qualcosa che tu non hai avuto tempo e modo di conoscere. Parliamo di un ideale ed è anche di questo che ti devo parlare, se vogliamo lavorare bene e presentare il rapporto più sensato di tutte le altre squadre dell’Officina di Lavoro» disse, tornando con due grosse lattine di birra in mano ed un asciugamano con cui cercai di asciugare il ricordo di quel temporale inaspettato di cui erano intrisi miei capelli. 

Osservai quei buffi cilindri di alluminio attraversati da sentieri di condensa, che si trasformava in piccole gocce nello scivolare verso le mani ben curate di Fausto. Le lattine… un formato che nessun produttore di birra, in grado di pagare uno studio di commercializzazione e di analisi dei sentimenti, metterebbe mai sul mercato! Un arcaico e sgradevole metodo di assunzione degli alcolici che riportava a quella volgare mediocrità di quegli anni in cui, la birra era ancora una bevanda economica, popolare e monosapore. Non sapevo neanche come si bevesse una birra da una lattina e mi faceva anche un po’ schifo l’idea di appoggiare le labbra sull’alluminio. Chi poteva rassicurarmi sul fatto che non fossero rotolate per terra o che chi le aveva maneggiate, per l’intero arco della filiera,  avesse sempre avuto le mani ben lavate? E la polvere che cade dal cielo, l’inquinamento domestico dei toner e…
«Toh, bevi – disse brusco Fausto intuendo i miei pensieri – non essere paranoica» concluse, porgendomi la lattina che aveva appena aperto. Trovai eccessivo associare una psicosi, alla mia razionalissima attitudine a destrutturare una filiera produttiva per individuare le possibili falle igieniche, ma con Fausto era così, stavo imparando a conoscerlo, iperbole e paradossi disseminati nella conversazione, come bolle di anidride carbonica che frizzavano nella schiuma della birra in una lattina troppo fredda e che tenevo in mano.  
La studiai con sospetto per qualche istante. Non conoscevo l’azienda produttrice poiché non era presente sulla rete, né sugli spazi pubblicitari urbani, né tanto meno in quelli astrali o onirici con cui controlliamo i nostri sogni. 
La lattina era verde scuro e conteneva circa mezzo litro di liquido, ma nessun gusto veniva indicato tra le poche scritte che comparivano su di essa (una birra al gusto birra?), ma riuscii ad individuare un simbolo di divieto attorno alla sagoma di una donna incinta. Davvero c’era bisogno di illustrare su una lattina il divieto di bere alcolici per le donne incinte? Doveva essere un’altra delle stranezze di quell’epoca in cui il buonsenso non era ancora legge. 

Finkbrau: nome e confezione non promettevano nessuna ricompensa sociale e non raccontava nulla che potesse farmi capire a quale potenziale comunità di consumatori appartenessero i bevitori. Nessun manifesto. Nessuna adesione ad un modello. Nessuna dichiarazione d’intenti. Una birra e nient’altro. Eppure mi feci coraggio e appoggiai le labbra al cerchio argentato della lattina e, inclinando la testa all’indietro, lasciai scorrere nella gola un generoso sorso di liquido giallastro e amarognolo, che mi solleticò il palato. Il mio primo sorso della mia prima lattina di Finkbrau, di quelli che sarebbero stati innumerevoli sorsi di innumerevoli lattine di squisitissima birraccia, che io e Fausto avremmo bevuto insieme.

Mancavano esattamente 382 giorni al nostro arresto da parte dei Tutori della Serenità, ma quella notte non avremmo potuto neanche programmarlo nei nostri incubi più oscuri. 

 «Dammi il pacchetto» ordinò Fausto, alzandosi e dirigendosi verso la cucina con la sua lattina in mano, che svuotò in un ultimo lungo sorso, per poi accartocciarla tra le dita e liberarsene con un canestro nel lavandino. Tornò con altre due lattine e delle patatine nel sacchetto che cominciò a sgranocchiare, tuffandoci le dita dentro, incurante delle norme basilari di igiene ed educazione. Pensai che bere le bevande in voga negli anni Venti lo avesse reso nostalgico. Non potevo spiegarmi altrimenti quella forma puerile di ribellione alla legge sulla sicurezza batteriologica che, in effetti, era sconosciuta nell’epoca pre-pandemica in cui Fausto doveva essere stato adolescente. 
Aprii lo zaino e sfilai quel pacchetto avvolto in carta color tabacco, che lui mi strappò bruscamente dalle mani per scartarlo come un selvaggio, come se ignorasse i corretti passaggi dell’arte dello spacchettamento dei prodotti, che tanti savi avevano reso dogma. La volgare, frettolosa e disordinata lacerazione dell’involucro aprì uno spiraglio su qualcosa che lo fece sorridere.
«Non ci credo! Questo mi mancava» disse euforico, fiondandosi verso un mobile di metallo color canna di fucile che custodiva un giradischi. Mi risultò bizzarro che lo nascondesse dietro a delle antine e che non ne facesse sfoggio come ci si aspetterebbe da ogni amatore della musica di statistica! Persino io ne avevo uno esposto nella mia stanza affittata, tra un vecchio mangianastri e la mia collezione di vinili mai ascoltati e sigillati ermeticamente. 

Ognuno di quegli album, che avevo fotografato e condiviso a favore della mia comunità elettrica di fedeli, mi aveva garantito un avanzamento nella gerarchia di ascolto della piattaforma musicale della Woland Corporation. La mia collezione di dischi e i relativi video di spacchettamento in cui mostravo il contenuto, per poi apporre nuovamente il sigillo in ceralacca, non passò inosservata alla Woland Corporation con cui, ben presto, iniziai una relazione lavorativa come assistente di Fausto. Alcuni colleghi dissero che era stato lui a segnalarmi e a volermi con sé, ma il suo essere così rude, imprevedibile e irriverente nei miei confronti non mi fece mai sposare quella teoria, eppure quel giorno mi aveva cercato – ancora – e voluta per quel lavoro così importante! 

E così mi ero ritrovata da sola a casa sua, nella sua camera da letto, davanti a ciò che poteva essere considerato disdicevole agli occhi di chiunque, ma che aveva deciso di mostrarmi.
Fausto, aprendo le antine di quel mobile color canna di fucile, mise in luce un caos di copertine scolorite e logore, musicassette dalla confezione di plastica ingiallita e addirittura dei dischi compatti d’argento ammassati uno sopra l’altro. Quell’uomo nascondeva diverse stranezze e atteggiamenti fuori statistica, non c’era più alcun dubbio in merito – come bere la birra e ascoltare per davvero la musica su supporti fisici – e così fece, cercando i miei occhi e con un sorriso che non era però una smorfia, appoggiò quel piccolo disco in vinile grande come un piatto da dessert, sul giradischi.
Dalle casse dello stereo partì un sibilo di una chitarra distorta in lontananza ed il riff di una motosega sempre più vicino e minaccioso, l’eco di un urlo soffocato e poi il frangersi di onde contro la roccia e l’acciaio, per tre volte, e poi il ringhio di una voce maschile sull’orlo del precipizio ed io che mi sentì con le spalle al muro. Quello… quell’istante e quella voce. Quello fu il momento in cui capii di essere spacciata.
Seguirono diversi minuti di silenzio e stordimento. Mi attaccai alla lattina di birra che mi dissetò come nessuna bevanda aveva mai fatto prima.

 «Di nuovo» chiesi, e Fausto spostò il braccino del giradischi per riporre la puntina sui solchi più estremi del vinile. Quando finimmo di ascoltare l’EP ero ormai sbronza e così Fausto. Il sole stava tramontando e noi non avevamo lavorato a neanche una diapositiva da presentare il giorno successivo. Ci eravamo a malapena parlati. Non avevamo fatto altro che bere birre e ascoltare a ripetizione ogni singola traccia del disco, con gli occhi fissi sull’astuccio di cartone logoro che lo custodiva. 

Dal nero dello sfondo si stagliava una luce che, come raggi di luna, esplodevano da una crepa della notte. Una luna maledetta che ha il volto della morte e gli artigli di un rapace, pronto a dilaniare un cuore. Il mio cuore, ormai lo sapevo. Studiai per momenti interminabili anche il retro dell’album in cui la morte, dai lunghi capelli spettrali, stende un sudario su cui vengono svelati i titoli delle sei tracce che stavamo ascoltando da ore e ore. E quelle foto così fuori dal tempo e dalle statistiche e i loro nomi: Giammario, Fabio, Zambo e Daniele. Chi erano questi uomini? Avrei voluto chiederlo a Fausto che sembrava conoscere tutte quelle parole urlate impunemente e che sembrava sul punto di piangere. Per la prima volta lo vidi così fragile, autentico e fiero. 

Conoscevo la fragilità di chi, per il troppo lavoro o perché ebbro, fa emergere le proprie emozioni, così come conoscevo la fierezza di chi non permette al proprio sentire di indebolirlo. Ma non avevo mai visto queste due dimensioni dell’aspetto più animale, dell’essere umano, convivere. 
Io, che mi truccavo per nascondere i segni della stanchezza, cintura nera di autodifesa emozionale, fedele al buon senso e all’analisi dei bisogni indotti, perché non esistono bisogni all’infuori di quelli che non sappiamo di avere, ma che sappiamo di poter soddisfare; tra i corridoi e gli uffici della Woland Corporation, tra le vie delle città costruite a misura d’azienda, nei negozi temporanei in cui vendono kit identitari dalle mille opzioni, nessuno mi vieta di essere stanca o fragile, ma è considerato inopportuno e teneramente sconsigliato. Così come la gioia violenta e la devastante tristezza sono state sconfitte, poiché facce differenti della stessa moneta, che ora tintinna nel fondo del barattolo delle mance di chi ci offre soluzioni usa&getta.

Fausto mi guardò, come rapito da una forma di eros e mi confessò:
«Io ne ho molti altri! Ho rubato un’intera scatola oggi, se vuoi li ascoltiamo insieme» mi tentò ed io gliene fui grata. Ubriaca. Elettrificata.

 Giunse l’alba e noi non avevamo lavorato un solo istante. Avevamo finito anche per fare sesso, dimenticandoci di registrarlo sulla piattaforma di incontri sessuali e, vedendolo nudo, scoprii trai suoi bei tatuaggi visibili in maniche di camicia, altri segni indelebili di inchiostro che non avrei potuto vedere se non andandoci a letto insieme. Sulla sua spalla una A cerchiata sembrava incisa sull’osso parietale di un teschio con la cresta. Sul suo petto un pugnale fendeva la carne all’altezza del cuore.

Sul manico della lama c’era scritto “Guenda, 6 aprile 1998 – 31 dicembre 2023” 

6. La vita che loro ci devono | IL GRANDE ROGO DEL ’25

6. La vita che loro ci devono | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Il relatore sul palco dell’auditorium era molto noto tra i corridoi della Woland Corporation poiché aveva isolato il grappolo di utenti che, seppur ascoltassero molta musica, rifiutavano di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma digitale Woland. Lo sciame identificato era restio ad abbandonare un preistorico portale, in cui chiunque poteva caricare registrazioni audio e video amatoriali low-fi. Video storti di canzoni mal arrangiate che facevano gracchiare il dispositivo di ricezione audio, interpretate da gente fuori statistica che si dimenava su palchetti improvvisati, in mezzo allo sporco, al sudore e ad un’euforia che non poteva essere misurata. Si faceva persino fatica a distinguere gli strumenti, così come era pressoché impossibile distinguere il pubblico dal gruppo che cercava di suonare, respingendo e accogliendo come in una danza, quel ribollire di lava umana e lapilli incandescenti di spruzzi di birra lanciata per aria. 

Ci si chiedeva cosa spingesse queste persone a un tale comportamento irrazionale. E lui aveva scorporato, destrutturato e ricostruito pezzo per pezzo ogni passaggio che portava al cosiddetto “abbandono del carrello”, ma nessuno dei dogmi dell’ingegneria inversa riuscì a spiegarlo.

«L’esperienza dell’utente che atterra sulla piattaforma è piacevole e senza ostacoli, i punti di contatto col potenziale utente hanno le giuste parole chiave ed sono ben piazzati, l’imbuto commerciale lubrificato a dovere eppure… eppure non siamo riusciti a sfondare le resistenze di questo blocco di utenti, identificati come ascoltatori di musica. Milioni di canzoni su richiesta, elenchi di riproduzione mutanti a seconda dello storico di navigazione e dell’umore dell’utente, artisti con trilioni di visualizzazioni la cui musica rispetta tutti i parametri richiesti dagli analisti e una qualità del suono cristallina, ma no… nessun abbonamento e accordo siglato che ci permetta di accedere ai loro impulsi neuronali, in cambio della garanzia di non dover scegliere cosa ascoltare e non doversi interrogare sui propri gusti musicali. Perché la piattaforma di musica digitale della Woland Corporation sceglie per te. E anticipa ogni tuo desiderio, interruzioni pubblicitarie comprese. Ma allora perché? Perché un grappolo di individui continua ad ascoltare quel rumore e guardare quei video bui e malfermi? Perché, alla perfezione calcolata della piattaforma, perseverano a farsi carico di dover scegliere e, infine, scelgono questa merda?» disse il relatore. Concludendo, ad arte, il suo intervento con una parolaccia, perché così gli aveva suggerito l’algoritmo per rendersi più informale, affabile e performante.   

Il nostro compito era capire ciò che nemmeno l’algoritmo aveva compreso, elaborare una tesi, impacchettarla a dovere e presentarla il giorno successivo. Il relatore ripose sul tavolo che lo divideva dal resto dell’auditorium, alcuni pacchetti avvolti in carta color tabacco.

«Quasi tutta la musica che il nostro target preferisce alla piattaforma Woland è stata prodotta nei quarant’anni che vanno dagli anni Ottanta del XX secolo e gli anni Venti del XXI. Anno in cui, a causa di una pandemia mondiale e del Grande Rogo Civile, sono stati interrotti e interdetti quegli spettacoli in cui la musica veniva suonata, in diretta, dagli stessi musicisti e in presenza di un pubblico reale. Il materiale che troverete ci è stato prestato dai Tutori della Serenità – che ai tempi si chiamava Esercito – ed è frutto dei sequestri e delle perquisizioni avvenute tra il 2020 e il 2025, quando ancora, gruppi clandestini si trovavano qua e là ad organizzare concerti illegali. Potete scegliere se procedere da soli o in squadra. Buon lavoro! La felicità se non è misurabile, non è» concluse il relatore, con il consueto segno di congedo.

Mi guardai attorno. Non conoscevo nessuno, o meglio, li conoscevo ma non avevo mai parlato davvero con nessuno dei presenti. Erano appartenuti tutti, fino a pochi giorni prima, ad una classe lavorativa superiore alla mia. Sentii una mano sulla mia spalla – chi poteva essere così stupido da stabilire un contatto fisico non consensuale sul luogo di lavoro? – mi girai di scatto e rimasi interdetta nel riconoscere Fausto, il mio superiore in grado.
«Per questo lavoro faremo squadra insieme» mi disse con una voce che non era la sua. 

Qualcosa non tornava. Fausto, il signor cronometro digitale a cui bisogna inserire nell’agenda elettronica anche l’invito a bere un caffè alle macchinette, mi stava chiedendo di fare squadra con lui e lo stava facendo in modo assai bislacco.
I suoi occhi erano fissi dentro i miei, l’espressione era quella di chi cerca di mettere a fuoco qualcosa che gli risulta familiare, la voce era di qualche tono più alta del solito, quasi strozzata, come se fosse in affanno nell’emettere quei suoni. Pronunciare quelle parole gli costava tutta la fatica che grava, di solito, sulla gola di chi sa che potrebbe ricevere un rifiuto. Sebbene l’intonazione non fosse quella di una domanda, perché a me pareva tale? Il mio capo mi stava forse chiedendo di poter lavorare insieme? E prendeva in considerazione il fatto che io avessi il diritto di non obbedire? Bizzarro! Un comportamento piuttosto atipico per quell’uomo preciso e fedele alla gerarchia, che non mi aveva mai sfiorato neanche con lo sguardo. E quella mano sulla spalla, poi! 
«Certo – risposi – coinvolgiamo anche qualcuno del reparto Ingegneria Inversa?» chiesi.
«No, solo io e te» rispose, dopo quell’attimo di esitazione, come lo stronzo che conoscevo bene. 
«Hai fatto un lavoro apprezzabile con quel tuo studio sul ritorno delle passioni, per quanto le argomentazioni risultino a tratti elementari e didascaliche. Ma per questo lavoro dobbiamo partire da alcune delle tue intuizioni che, devo ammettere, sono state davvero brillanti. Piccole scintille che non voglio vedere spente da quelle teste analitiche del reparto di Ingegneria Inversa. A furia di destrutturare ogni cosa, hanno perso persino la capacità di farsi un panino» gorgogliò in un unico borbottio senza prendere fiato, concludendo con una volgare risata.
«In verità credo di averli visti qualche volta mangiare dei sandwich in pausa pranzo» obiettai, ma lui non mi stava più ascoltando. 
«Proseguiremo il lavoro a casa mia. Sai dove abito? – mi chiese senza attendere la risposta – Recupera l’indirizzo e cerca di essere lì tra massimo un’ora» concluse. Si girò sulle suole di quelle scarpe che valevano tanti crediti quanto due dei miei stipendi, e prese la via da cui era arrivato e che io ignoravo. Non avevo la più pallida idea di dove potesse abitare quell’uomo? Aveva una vita fuori dalle mura del Grande Palazzo?
Recuperai il plico di materiale confiscato assegnatomi e mi avviai verso l’Ufficio Accoglienza, dove avrei potuto chiedere l’indirizzo di casa di Fausto. 

Il viaggio verso il piano terra del Grande Palazzo non fu vano: il mio nuovo grado all’interno della gerarchia della Woland mi permetteva di ottenere alcune informazioni personali sugli altri dipendenti. L’accesso ai dati sensibili di chi ci circonda è un privilegio accordato a chi, come me, aveva un titolo lavorativo composto da almeno quattro parole sintetizzate in un acronimo. Io ero passata da essere un A.C. (Analista Calcolatrice, due sole parole) ad essere una Fedele Osservatrice e Analista Demoscopica – ben quattro parole – riassunte altrimenti (e per comodità) nel termine F.O.A.D.
Soltanto gli A.A. (Addetti Accoglienza), nonostante le sole due lettere del titolo lavorativo, avevano accesso ai dati sensibili di chi, invece, aveva quattro o più parole a descrivere la propria mansione e posizione gerarchica all’interno della Woland Corporation. Tra le loro mansioni, dopotutto, vi era anche quella di chiamare taxi e concordare il costo in crediti per la tratta verso casa o prendere le telefonate di mogli e mariti, ritirare la corrispondenza e la domiciliazione dei beni di prima necessità, ricordare gli appuntamenti con medici e partner sessuali ecc. ecc. 

Un dirigente della Woland Corporation aveva proposto di sostituire gli A.A. con degli automi per digitalizzare la loro funzione, ma presto scoprimmo che questa tecnologia aveva un grande difetto: gli automi non sono in grado di mentire e, un buon ed efficiente A.A., deve padroneggiare l’arte della menzogna ogni qual volta un dipendente della Woland viene esonerato dall’attività lavorativa, cancellato dagli archivi anagrafici e amministrativi, eliminato da tutte le foto che lo collegano all’azienda (o ai suoi dipendenti) e a cui viene inibita la facoltà di mettersi in contatto con gli ex-colleghi rimasti fedeli alla Woland Corporation.
Non siamo ancora riusciti a trasmettere, alle intelligenze artificiali, la capacità di annichilire psicologicamente un individuo. O meglio, l’effetto di annichilimento si è rivelato molto più significativo e impattante quando sono delle persone reali, in questo caso gli A.A., che fino al giorno prima si occupavano silenziosamente, con dedizione e premura alle esigenze altrui, a disconoscere, ignorare e umiliare dipingendo con della vernice spray nera i colori gerarchici della divisa di chi è stato licenziato o, peggio ancora, ha deciso deliberatamente di abbandonare l’azienda.

Nel 2040 nessuno si veste di nero, perché il nero è il colore degli inadatti e di chi non ha un posto all’interno di una gerarchia aziendale. Il nero è il colore di un monitor spento.  

La decisione di affidarsi ancora all’emotività delle persone, in questo caso la spettrale indifferenza degli A.A. e la condanna all’umiliazione e al confino degli annichiliti che non si sono adeguati o hanno tradito la fiducia aziendale, è forse uno degli ultimi lasciti dell’epoca delle Democrazie Apparenti e della Dittatura delle passioni. Istanza accettata, perfezionata e canonizzata in quanto si è rivelata essere la via più efficace per il benessere, la motivazione e l’appagamento di chi rimane e non sfida la gerarchia. Agli A.A., l’ultima ruota del grande carro a cui faceva capo Michail “Huxley” Woland, veniva insomma delegata quella brutta rogna, quel lavoro sporco, del disprezzo. 

I veri leader non hanno bisogno di disprezzare chi non si è mostrato all’altezza delle loro aspettative, perché lasciano che siano le fauci dei propri cani a ringhiare e deridere chi non accetta, sfida o abbandona il sistema. 

Era capitato anche a me. 

Avevo dovuto annichilire un partner con cui stavo valutando l’ipotesi di stipulare un contratto matrimoniale. La nostra proiezione statistica di compatibilità era discreta, ma ambivo ad elevare la mia classe sociale, in cambio di sesso, compagnia e tenerezza, buttandomi definitivamente alle spalle anche l’ultimo lascito della mia condizione di nascita ed ennesimo fardello ereditato dalla mia coppia genitrice,. Dopotutto le uniche due motivazioni per giustificare la monogamia, secondo Woland, erano appunto un’assoluta compatibilità circa i gusti e i disgusti alimentari, sessuali e ludici oppure un contratto bilaterale economico tra membri di diverse classi sociali.

Una volta annichilito il mio partner, colpevole di aver rifiutato una promozione che avrebbe esautorato il suo superiore non più gradito alla Woland, mi ritrovai punto e da capo a cercare possibili candidati per una notte di sesso o per la vita, sulla piattaforma di incontri gestita direttamente dalla Woland Corporation. 

Ricordo che una volta l’algoritmo mi propose persino Fausto ma, ai tempi, non l’avevo reputata una scelta dettata dal buonsenso e in ogni caso, nonostante fossi a conoscenza del suo successo sulle piattaforme di incontri sessuali, io non mi sentivo attratta da quell’uomo. L’attrazione sessuale, in quanto istinto condiviso in tutto il regno animale e spiegabile attraverso l’etologia e la chimica, rappresenta a tutti gli effetti una variabile nel calcolo per la determinazione della compatibilità tra due individui ed il mio istinto trovava Fausto repellente. Quella tonda gonfia faccia gioconda amplificata da un sorriso che di raro mancava sulla sua bocca. Un sorriso così osceno, da avergli deformato persino quel mento collassato in una profonda fossetta centrale. Alcune rughe marcavano i suoi occhi fino ad incontrare due grosse basette pelose, ormai più grigie che nere, che gli incorniciavano il viso. Il suo non era un volto, ma un manifesto alla derisione e all’irriverenza. E poi faceva sempre quella cosa strana… di dire il contrario di ciò che pensava. Ogni tanto diceva che si moriva di caldo, ma eravamo nel pieno dell’inverno o dava del genio ad un collega che aveva espresso un concetto particolarmente banale. Diceva che era “ironia” e quanto lo trovava divertente! Rumorose risate! E ridere, diamine, mi risultava così volgare. Nel resto del tempo? Fausto riusciva a essere finto persino in una società in cui non era più necessario fingere di essere felici.

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

3. REPORT#1 | IL GRANDE ROGO DEL ’25

12 giugno 2040 – Linea Cadorna, Monte Orsa. Distretto montano della Valceresio.

Il nostro tour è partito dalla provincia.

Non ricordavo più cosa volesse dire vivere sconnessa dal mio dispositivo occhio-orecchio. L’avanguardia della tecnologia, della modifica del corpo e il design di innesti magnetici microdermali che nascono dietro al padiglione auricolare, brillano di luce pulsante sulla tempia e strisciano sotto il sopracciglio per agganciarsi ad un gioiello di acciaio chirurgico a ponte, nella parte alta del naso, tra i due bulbi oculari. 

Da quando ho disarticolato il mio dispositivo dal servitore della rete della Woland Corporation, devo essere io a capire, per esempio, se ho voglia di patatine fritte e dove posso trovare la friggitoria più vicina e più quotata dalla comunità elettrica.  

Devo essere io a bere quando ho sete e ricordarmi di farlo. 

Non ho il conforto di un immediato riscontro in merito a ciò che indosso o ascolto o frequento. Né di ciò che penso. Dobbiamo essere noi a scegliere, a prendere le nostre decisioni.

E infatti ci siamo persi. 

Siamo finiti in mezzo ad un bosco e lasciato il camper a lato della strada, per evitare una fusione del radiatore surriscaldato dalle fatiche della salita impervia e degli imperturbabili tornanti, le curve a gomito e a zig-zag, indifferenti alla sofferenza del vecchio camper di Monica. 

Abbandonata la pianura piastrellata della grande metropoli di Milano, non c’è rettilineo che non si trasformi, all’orizzonte, in una svolta. Curva che non sia in discesa o salita che non nasconda una rovinosa china dietro al suo picco.  

Abbiamo visto il paesaggio cambiare. Addio città-fabbrica e addio città-commerciali. Addio campi lasciati incolti dalla pianificazione agricolo-economica del Buon Senso. Addio tele-strada regolare e magnetizzata su cui non è necessario essere vigili alla guida. Una volta entrati in Provincia, disarticolati i nostri dispositivi e afferrato il volante, la strada ha cominciato a inasprirsi e lungo la nostra prospettiva, si stagliavano le prime colline. Soffici collinette ricoperte di un verde rigoglioso e brillante, in principio, ma poi il verde si è fatto sempre più cupo, fino ad alternarsi a rocce grigie, ruvide e dall’aspetto minaccioso.  

Sbucando oltre una lunga galleria, ci hanno accolto  cinque vette aguzze a saturare la nostra vista. Oltre quelle vette brilla il Lago di Lugano e la costa Elvetica. Ed è lì che abbiamo progettato di fuggire nell’eventualità che qualcosa vada storto in occasione del nostro primo concerto clandestino. 

Abbandonato il camper abbiamo deciso di proseguire a piedi, grazie alle indicazioni scarabocchiate su un foglietto da Fausto,  intanto che parlava con un arcaico telefonino cellulare con A. del collettivo clandestino alla regia della nostra prima data del tour. 

Monica stava legando la sua gallina con un guinzaglio fuori dal camper, quando abbiamo sentito alle nostre spalle una voce maschile che ricordava, però, il tubo di scappamento di un mezzo a motore. 

 «Non vi conviene lasciarla lì, a meno che non vogliate applicare il protocollo D.E.A.T.H. alla gallina. Qui – disse alzando entrambi le mani come a verificare che non piovesse – vivono liberi e selvatici diversi animali come leprotti, tassi, cinghiali e volpi ghiotte di tutto ciò che ha le piume e il becco!» aveva detto il ragazzo con la voce a scoppio, accogliendoci con un grande sorriso giallo di nicotina. 

Dopo essersi presentato stringendoci le mani ed abbracciandoci, si è acceso una sigaretta davanti a noi ed io ho abbassato lo sguardo per la vergogna. 

«Volete? – ci ha chiesto porgendo il pacchetto – ne abbiamo scoperto, e continuiamo a farlo, a quintali qua tra le montagne!» 

Lo sapevo. Conosco la storia di questi luoghi eppure ho ascoltato volentieri il suo racconto di queste montagne, rotta di contrabbandieri e criminali in fuga. Durante le mie indagini preliminari e la pianificazione dei concerti, ho svelato parte dei segreti che questi boschi nascondono. E ricordo, che nel farlo, la mia pelle si era ricoperta di puntini in rilievo e mi si era rizzata la peluria sulle braccia, intanto che un brivido strambo mi ha attraversato il corpo. Ho tremato nonostante le miti temperature di una Primavera inaspettatamente così calda, da ingannare persino le lucertole che, irrompendo tra le crepe del cemento,  si scaldavano alla luce degli schermi pubblicitari. 

Ero a conoscenza del fatto che determinate emozioni potevano generare dei corto-circuiti sensoriali, come tremare anche se non fa freddo, appunto, o svegliarsi in un bagno di sudore persino in pieno Inverno. Ridere fino a lacrimare o ridere nel pianto. Il Buon Senso mi diceva che sarei dovuta stare alla larga da un posto del genere, ma avevo sentito una sorta di livida attrazione per la storia, meschina e sbagliata, di quei boschi. 

Luoghi di sofferenza.

«Tra queste vette nessuna guerra è mai stata combattuta, eppure ogni singola pietra deposta è frutto della miseria, dello sfruttamento e della follia militare» ci ha svelato Signor Nicotina, Monossido di Carbonio, Catrame ed Ammoniaca.  

Ci siamo guardati intorno. Ai lati del sentiero, che aveva smesso di assomigliare una strada da troppo tempo, all’ombra degli alberi e tra il marcire e il rigenerarsi delle foglie in humus, facevano capolino delle cupole di pietra con scorci, finestrelle e feritoie scolpiti nella roccia per far passare luce, aria e la canna di un fucile. 

Messa al sicuro Gallina Siouxsie abbiamo proseguito il nostro cammino con basso, chitarra, gli zaini e il resto della strumentazione sulla schiena. Ci hanno raggiunto, superandoci, altre persone cariche all’inverosimile; chi di panini, chi di birre in lattina ammassate in grandi bidoni di latta adattati a zaino o grosse giare di pioppo intrecciato sorretti con fasce in tensione sulla fronte. 

«Questo è l’ultimo carico, Ballard» ha detto una ragazza dalla larghe spalle e le braccia ricoperte di brutti tatuaggi, appoggiando a terra una cassa che teneva in bilico sulla testa. L’urto col terreno ha dato origine a sbuffi e nuvole di polvere, provocando alcuni colpi di tosse in serie alla ragazza che non si è preoccupata, però, di coprire la bocca con l’incavo del gomito né tantomeno, di disinfettare il perimetro di aria che la circondava. Ho abbassato lo sguardo, ancora una volta, per la medesima sgradevole sensazione che si avverte nel vedere il pus di una ferita infetta e le gocce di sudore di chi perde il controllo dove altri resistono.  

“Credo che il bosco non sia regolato dalle stesse leggi della città e così chi li vive” ho pensato.

 «Questa volta ti sei superata, Lara. Dove ne hai trovati così tanti?» ha chiesto un altro ragazzo che ricordava un cyborg mutante, con una grancassa sulla schiena, aste agganciate a gambe e braccia, cavi che si attorcigliavano come serpenti attorno al collo e un mixer al posto del torace. 

«Non ne ho la più pallida idea. Lo sa la Dea, lo sa! Non mi è mai successo di avere così tanta fortuna. Ma al momento spero solo di darli via tutti per non doverli riportare giù! Pesano, mannaggia. Pesano così tanto che sto rivalutando la mia posizione in merito alla piattaforma digitale di Willy Wonka!» ha detto scoppiando a ridere, seguita da Ballard e il cyborg avvolto nei cavi. 

«Willy Wonka?» ho chiesto senza ottenere risposta, poiché il bottino di Lara ha catalizzato l’attenzione di tutti i presenti, compreso Fausto che si è inginocchiato, come in preghiera, verso la cassa. 

Al suo interno: decine e decine di musicassette, CD e vinili proibiti con teschi, robot, esplosioni nucleari, bestie feroci, filo spinato, armi e bombe a mano, divinità terribili, città in rovina e motoseghe disegnati sulle copertine. Erano uguali a quelli dell’illecita collezione di Fausto. Simili a quei dischi sequestrati dai Tutori della Serenità e che ci erano stati assegnati dalla Woland Corporation durante la nostra officina di lavoro nei primi giorni di Primavera.  

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

STATI DI AGITAZIONE

«Andrà tutto bene» dico al mattone che fisso da circa un’ora.

Mi fanno male le braccia. Maledette appendici sottomesse alla forza di gravità. Dovrebbero stare giù e dondolare come orecchie di cocker e non in questa innaturale posizione di corna di cervo. Ma se tiro giù le braccia, l’uomo alle mie spalle urlerà qualcosa in una lingua che non comprendo, ma che mi fa paura.  

Indossa la mimetica, un passamontagna e un mitra a tracolla come se fosse una BC Rich attaccata al diaframma di un metallaro o di un musicista di liscio.  

«Metallari e animali da balera… Solo loro disdegnavano l’estetica grunge di uno strumento all’altezza dell’inguine, in favore di una maggiore resa tecnica. Loro, con le loro chitarre appuntite ad altezza capezzoli e i gomiti alti come zampe di cavalletta» mi aveva raccontato Fausto, parlando degli anni Venti, all’inizio di questa storia. 

Mi chiedo perché mi torni in mente, proprio ora, questo frammento di conversazione di quella notte. La notte in cui tutto è cominciato. 

Ma la memoria gioca strani scherzi e a volte riemergono ricordi che non reputiamo importanti e al contrario, di questioni considerate fondamentali non rimane che una scia lontana e sfocata alle nostre spalle. 

Rammento molto bene, per esempio, la prima volta in cui Fausto mi ha fatto ridere fino a togliermi il fiato. E adesso che ho paura di morire, non ricordo più come si fa. Vorrei trovare divertente quest’uomo alle mie spalle, dalle manifeste e cattive intenzioni, con le dita sul suo strumento –  che è un fucile e non una BC Rich, non me lo devo scordare – simile ad una cavalletta gigante, pronto ad affrontare un riff in crescendo che leva il respiro. Il mio respiro.  Prana Apana Sushumna Hari.

Il torace: cassa di risonanza di questo battito assordante e del mio affanno, che è musica violenta e mi anima e mi soffoca, come ovatta infilata giù per la gola di una bambola a cui hanno staccato la testa. 

Come faccio a soffiar via il male cantando, se non ho più fiato in gola?

«Gente bizzarra i musicisti che ci tengono a suonare bene. Si contavano sulle dita di una mano» aveva aggiunto Fausto, ricordo. 

Si contano sulle dita che mi rimarranno attaccate alla mano, risparmiate dalla cancrena, quando tutto questo sarà finito. Quando mi sarà chiaro cosa ne sarà di me e degli altri quattrocentoventidue ragazzi, con la faccia al muro e le mani alzate sopra la testa. Quando capirò cosa è andato storto e come ci sono finita con un fucile puntato tra le scapole, in un night club sconsacrato con neon rotti, velluti pieni di pulci ed affreschi rinascimentali vandalizzati che ancora conserva le cicatrici del Grande Rogo Civile del 2025.  


IL GRANDE ROGO DEL ’25 | Prefazione

IL GRANDE ROGO DEL ’25 | Prefazione

PREFAZIONE

NO DREAMS, NO FUTURE

Il vecchio cine è spento da anni
Le scale e i nervi sempre sconnessi
No future, FRANTI 

Sostengono che i sogni non siano altro che il sistema di deframmentazione della memoria. Quel programma di Windows fatto di mattoncini colorati a cui ci si appellava quando non c’era più spazio sull’hard-disk e il sistema operativo andava in confusione. Il processo era alquanto lungo e noioso, ma l’alternativa era dover cancellare intere cartelle di foto e dischi scaricati illegalmente per far spazio a vecchi videogiochi bidimensionali dalla colonna sonora ipnotica e allucinata. 

Non è possibile ricordare tutto. Custodire ogni istante. 

Alcune cose vanno messe in ordine e alcune buttate. Altre, invece, che già sono state eliminate, hanno però lasciato una traccia non visibile a occhio nudo. Sognare vuol dire scegliere ciò che deve essere conservato, ed archiviarlo, o cancellare il ricordo di ciò che dobbiamo abbandonare lungo il nostro cammino. Questo è utile e lo metto qui. Quest’altro invece è pericoloso, fa male oppure è effimero e non è utile a quell’ecosistema di saliva inghiottita, parole taciute e artigli atrofizzati che è il vivere in mezzo agli altri. Deframmentare: Forma e colore dopo forma e colore, fino a ritrovare una zona libera, vuota, di un buio profondo capace di ospitare i nostri domani, come incastri in un Tetris della percezione. 

Perché è solo nel sognare che combattiamo corpo a corpo con la medesima ferocia di un freddo calcolatore (if/then), che è clone dello spietato istinto a sopravvivere delle piante e degli animali, contro noi stessi e il nostro stare e sentire nel reale. Noi, i nostri ricordi e le nostre emozioni indomite e la possibilità di scegliere tra morire da stronzi o un piano a medio-lungo termine di non belligeranza con la realtà (gli altri e ciò che è lecito, utile ed opportuno), oppure sopravvivere, certo, ma come scemi di guerra. Senza alcuna possibilità di issare la bandiera della resa. Questo è ciò che vivi. Questo è ciò che senti per davvero. 

Ed è nel sogno che noi viviamo. 

Come quando sei su un palco fatto di bancali e rifiuti, i tuoi occhi incontrano quelli di chi è lì per sentirti suonare. Senza una cassa-spia a mettere in atto ciò che fai o una gerarchia che ti elevi ad un ruolo. Quando gli impianti sono quello che sono e l’eco delle gelide fabbriche – ex macelli, mercati comunali, case disabitate che trasudano di vita e selvatichezza come mai, prima di allora, nel loro ormai passato essere utili a qualcosa – amplifica la più debole delle urgenze. 

Quando le orecchie servono a ben poco e la musica è tutta una questione di cuore, istinto, memoria muscolare e simbiosi con i tuoi compagni di ventura. Con i piedi a mollo nella birra del discount, i vestiti intrisi di fumo, a costruire un qui e ora che diventerà un ricordo. Un piccolo tassello di una memoria collettiva di cui non saresti mai parte senza chi, quello spazio, lo ha occupato e vissuto, senza il calore (l’odore e il sudore) di quella pelle bucata dall’acciaio chirurgico, le cicatrici che ci siamo scelti e che vengono celebrate dall’inchiostro, quelle parole sulle magliette nere, logore e fradice che sono manifesto, aculei e resistenza. Ogni segno, colori di guerra, per trasformare la rabbia in musica, la musica in elettricità, l’elettricità in moto e azione, l’azione in storia. 

La nostra Storia. 

Perché ad affrontare la realtà così come sogniamo – dichiarando guerra alla disperazione che paralizza e scacciando ciò in cui non crediamo o che ci viene a noia – non c’è trauma che non possa diventare banale. O dolore che non lasci una cicatrice di cui essere fieri. 

Scriviamo questa storia, allora. Affinché i nostri ricordi non vengano ammansiti, addomesticati e resi innocui dal sistema immunitario della memoria che tutto normalizza. Cantiamo per contagiarci, gli uni con gli altri, con quel vivere e quel sentire caotico, fortissimo e a tratti assurdo che significa suonare in un gruppo d.i.y. punk, su questa faccia della Terra, a cavallo dei millenni. 

Ci sono voluti vent’anni per creare questa storia. La racconterò come se fosse un sogno, mischiando il presente col passato, il reale col simbolico, il qui con l’altrove. Non mentirò mai. Poiché non esistono menzogne sotto la dittatura onirica del sogno e in quella dimensione, ai confini della realtà, che comincia il mio viaggio. In quella regione in cui s’innesca ed esplode un ricordo inventato… o forse è un incubo? 

Era il 2041: avevamo il muso rivolto al muro e i fucili puntati alla schiena. Eravamo nella capitale russa della Confederazione post-europea, nell’anno XVI dall’instaurazione del Regime del Buonsenso.