Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amato. Pittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.
Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.
Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.
SOGNI INFRANTI
Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.
ACCOGLIERE L’IMPERFEZIONE DI UNA MELA BACATA
Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.
LA RIVALSA DEI COLORI
Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.
NARJES GHORBANI
Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.
Ho appena visto Seduced il documentario che racconta la storia della setta NXVIM con a capo il sedicente uomo più intelligente del mondo tant’è che è arrivato a marchiare delle donne con le sue inziali e a indottrinare lo sdoganamento di stupro e abusi su minori, addossando la colpa a chi “si sente” vittima. Se tu ti senti abusato è un tuo problema, non mio. Sei tu a non essere abbastanza forte per non viverti tutto questo da vittima. È la tua fragilità a creare l’abuso nella tua mente, non il mio esercizio di violenza, diceva, durante il suo Executive Success Program di auto-aiuto e crescita personale davanti ad un pubblico strapagante e adorante.
Prima riflessione
Che sia con la scusa dello Yoga Illuminante che arriva dall’India (vedi WILD WILD COUNTRY) o dello Yoga Sudaticcio Hollywoodiano (vedi BIKRAM: YOGI, GURU, PREDATOR) o che sia in nome di Cristo (vedi KEEP SWEET: PRAY AND OBEY) e tanti altri casi che non mi vengono in mente ora (vedi anche, in un certo senso, anche SANPA)… che diamine di problemi hanno i sociopatici, megalomani, mitomani con le donne? Sembra che queste persone abbiano costruito un impero di sopraffazione e violenza solo per scopare.
Scherzi a parte… a vedere certe cose è lampante come la sessualità delle donne perseveri ad essere una leva fortissima per ottenere il potere e mantenere il controllo. In queste dinamiche autoritarie e coercitive alle donne viene chiesto di scegliere tra sottomettersi o, sottomettendosi, essere allo stesso tempo le carnefici di altre donne. Anzi… si può dire che l’ingrato compito della violenza, spesso, venga appunto assegnato ad altre donne che lo perpetrano “nel nome del padre” da cui hanno ricevuto un osso. Come un’eco del potere maschile che acquisisce brutalità ogni volta che viene reiterato. Cosa che, ahimé, ho visto in ambienti che credevo sicuri, ma che “safe” non lo sono mai stati all’infuori degli slogan sui volantini.
Vuoi il potere e il controllo assoluto? Inibisci la sessualità femminile e metti le donne una contro l’altra inventandoti, magari, un’atavica attitudine e predisposizione tutta femminile all’invidia e alla competizione che, se non sbaglio, in realtà rappresenta un’esclusiva e un’eccezione nel regno animale in cui di solito sono i maschi a dover competere con piume colorate, balletti e ferocia.
Seconda riflessione
Sono ossessionata dalle sette perché so benissimo di avere la resistenza mentale di un lombrico e l’autodisciplina di una limaccia. Riesco ad essere dipendente anche dei giochini scemi sullo smartphone… So che, se dovessi avvicinarmi a qualcosa del genere, ci finirei dentro con tutte le zampe. E allora guardo – in modo ossessivo – tutto quello che ha a che fare con le sette e con le dinamiche che ti fottono il cervello, come per capire i trucchi e farmi gli anticorpi e, finalmente dopo anni e anni, ho capito che no, non mi potrà mai succedere perché… SONO POVERA.
Sarà come camminare su travi scricchiolanti senza far rumore – come fa la protagonista grazie alle sue lezioni private di Yoga – poter scrivere di questo horror socio-psicologico senza svelare uno dei pochi colpi di scena che sia riuscito a sorprendermi, da un bel po’ di tempo a questa parte, in ambito cinematografico. (p.s. NON guardate il trailer)
Il film in questione è Antebellum e, per quanto assurdo possa suonarvi, per parlare di questo devo prima parlare del remake in chiave femminile di Ghostbusters.
No, We cannot…porcocazzo
No, perché la mia è proprio una vita di merda. Era un normalissimo venerdì sera in pieno lockdown e avevo voglia di vedere un film leggero con quel cicinin di nostalgia dei tempi che furono, ma mi sono ritrovata ad incazzarmi come una jena con le mestruazioni perché, se l’empowerment delle donne in versione hollywoodiana, deve essere il racconto di donne potenti che fanno battute rozze e uomini etero macchietta, belli e stupidi, di mero contorno e allora no, porca merda, qua non andiamo da nessuna parte. Perché non si tratta di prendere il loro posto ma di “una vita radicalmente diversa. Braaah. Braaaah” (cit.)
“Si tratta di capire che la vita, che il capitalismo troppo spesso ci porta a maledire, può essere bella … e che il programma della lotta che abbiamo intrapreso non è per una vita migliore, ma per una vita radicalmente diversa”.
Quel potere, come lucidamente raccontato nel romanzo “Ragazze elettriche” (titolo originale “The power”, putacaso) di Naomi Alderman ed edito dalla nottetempo, fa schifo a prescindere. E io volevo solo passare qualche ora di spensieratezza, diocristo. Ma tornando ad Antebellum e all’idea di una vita radicalmente diversa di Contrasto HC-memoria, è vero che ci siamo riempiti il giubbotto di spille, ci siamo riempiti la bocca di slogan, abbiamo imparato a dire Senatora o a usare l’asterisco, la “u” o la ə per un linguaggio più inclusivo. La settimana vegana controvoglia e lo spazzolino di bamboo fabbricato nella medesima azienda che divide la sua linea di produzione con il brand sensibilone per consumatori sensibili (e abbienti) e il brand che salva il profitto e distrugge il pianeta, per il restante 99% della popolazione. Siamo dotte, siamo politicamente impegnate, siamo sexy ma fedeli e attente a tenere sempre viva la fiamma della passione (che è comunque quel focolare, ma in versione socialmente accettabile). Facciamo yoga per scacciare i cattivi pensieri e imparare a stare in equilibrio sui sensi di colpa del tempo che togliamo ai nostri figli, alla carriera, a noi stesse e piangiamo da sole per nascondere una fragilità che non è più accettabile. Ci scusiamo con le amiche se abbiamo una giornata “no”. Siamo sempre pronte a sdrammatizzare tutto (il dolore, il senso di fallimento, il lento stillicidio quotidiano di micro-lotte per l’affermazione di noi stesse e dei torti abitudinari, il decadimento dei corpi, l’appassire dei sogni e le ambizioni) come la sapiente arte di friggere tutto per nobilitare anche la più insulsa delle verdurine anemiche. Eppure, eccoti, raggiante su un palco a dire che NOI siamo il futuro, davanti a uomini e donne che non possono far altro che applaudire e incoraggiarti perché tu sei una donna nera negli Stati Uniti d’America nell’epoca di Trump, perché il patriarcato è morto e lo sappiamo perché su Netflix in ogni serie ogni minoranza è sapientemente rappresentata e narrata senza – ovviamente – accennare lievemente il fatto che no, non è così semplice e spontaneo essere un teenager gay di colore in un paesino di provincia, non lo è nemmeno essere una madre lesbica di colore nella medesima cittadina di provincia – come ci vogliono raccontare in Sex Education in cui l’unica vera discriminata, guarda caso, è la povera (ma figa) che vive nella roulotte – ed io per te, donna afroamericana, a mo’ di parziale (seppur iniquo) risarcimento di quello che hai subito e subisci, dico che sia giusto cancellare Via Col Vento dal palinsesto perché è razzista e persino quella puntata di Mad Men in cui il protagonista si dipinge la faccia di nero perché è offensivo. Tutto questo perché il razzismo è una cosa brutta, no? Lo sanno tutti. Il razzismo appartiene alla storia. Il patriarcato è morto. Così come è morta quella docilità che ha reso schiave e schiavi fino a…
Antebellum si apre con una frase di Faulkner che dice: «Il passato non muore mai. Non è neanche passato» ed una delle primissime battute della protagonista recita: “Le cose non sono come quelle che sembrano“.
Non sarà la verità edulcorata e raggiante del politicamente corretto à la Netflix, non sarà il nostro successo legittimato da una audience compiacente venuta lì perché crede in quello che diciamo, perché vuole sentirsi dire quello che raccontiamo, non sarà il chiuderci in cerchi sempre più concentrici e autoreferenziali in cui tutti pensano, agiscono e vivono allo stesso modo, non sarà il rifugiarci in un universo parallelo in cui noi – grazie alla ricchezza e alla nostra posizione sociale – possiamo permetterci di agire come chi ci ha oppresso e rivendicare che noi beviamo solo champagne e la vodka al mirtillo è da miserabili, molestare l’autista di Uber perché è un gran bel figo scopabilissimo, trattare male la cameriera perché ci mette in un tavolo di merda troppo vicino al cesso del migliore ristorante della metropoli, a proteggerci o salvare noi stesse e il mondo intero dagli abusi di potere e i meccanismi malati delle gerarchie, perché ci sarà sempre una receptionist che ti tratterà di merda perché sei nera. Così come ci sarà una donna nera ricca che tratterà di merda un cameriere bianco. E ci sarà quel cameriere bianco che tratterà di merda un disoccupato. E quel disoccupato che odierà così tenacemente tutto questo che egli stesso cercherà di creare la sua isola felice dove i neri sono negri e schiavi, le donne o sono mogli o puttane – ma comunque inferiori – e lui bianco, maschio, eterosessuale non è secondo a nessuno.
Se cito Israele, il sionismo e la questione palestinese, piscio fuori? Chiedo per un amico.
“Ma tu che razza di donna sei?” urla la protagonista, alla sua carnefice, in quel campo di cotone in cui è schiava. Che razza di donna sei, se permetti agli uomini di violentare, picchiare e uccidere altre donne. Tu, che per loro sei comunque inferiore eppure gregaria e complice della gerarchia e del potere, in tutto il tuo “donnismo” alla Alpha Woman?
Niente è come sembra in Antebellum. Esiste la narrazione della realtà ed esiste un piano alternativo e parallelo in cui il bianco e nero è ben distinto e non ci sono arcobaleni che celebrano l’uguaglianza e l’inclusività di chicchessia. La lotta è sempre e solo una. Quella contro il potere, indipendentemente dalla casacca che l’oppressore decide di indossare.
No, non indossare la giubba dell’oppressore, amica. Manco se fa freschino, MAI.
Mi viene in mente quel buffo MEME che inizia con “Bill fa questo e Bill non fa necessariamente questo. Sii intelligente. Sii come Bill”. Dopo la visione di Antebellum mi viene da dire “Non essere come Veronica e le sue amiche. Non indossare quella giubba.” Il potere fa schifo SEMPRE. Ah, anche il capitalismo… quello fa cagarissimo perché libera dall’oppressione rendendo oppressori. E fin tanto che non sovvertiremo questo potere e le sue dinamiche, tutto ci potrà essere portato via in qualsiasi momento. O un pochino per volta come il lavoro, i soldi sul con conto in banca, la propria identità (come in Handmaid’s Tale di Margaret Atwood), anche nel più lucido dei sogni “pay per view” in cui crediamo di essere liberi. Veronica, senza i suoi soldi e la sua posizione sociale, non è nulla di più che una schiava, esattamente come lo erano i suoi avi.
Britney Spears è diventata famosa con una canzoncina che diceva Hit me baby one more time, che significa “colpiscimi”, anche se lei intendeva “sorprendimi”, ma noi tutti abbiamo visto e rivisto una ragazzina vestita da collegiale con le treccine, dire “picchiami” per quasi quattro minuti di canzone. Eppure, la fidanzatina d’America, che per prima fece della verginità qualcosa di pop e cool, riusci ad ingannare proprio tutti. Tutta l’America cristiana e bigotta, che non si fece scandalizzare neanche dalla mastoplastica additiva (silicone alle tette), quando la nostra non era ancora maggiorenne.
Lei, di bianco vestita, che in Sometimes, chiedeva all’uomo della sua vita di “aspettare”. Ma poi è arrivato Justin, le delicate dichiarazioni di lui, la dolorosa rottura, l’accusa di tradimento di lui (Cry me a river) e la difesa di lei (Everytime).
Britney ora è sola. Troppo adulta per la DC (Disney Channel), troppo poco vergine per la Chiesa Evangelica e i Repubblicani, che invece puntano sulla nuova pupilla Jessica Simpson, la prima a mostrare fiera l’anello della purezza sui rotocalchi, seguita da tutta una serie di teen-idol più giovani e pure di lei. Le vendite sono in calo ed è davvero difficile rimanere sempre al top, così la nostra (o chi per lei) decide che bisogna ripetere la formula che l’ha portata al successo, ovvero vendere sesso facendo finta di niente. Giunse così l’ora della famosissima SVOLTA SEXY con I’m a slave4You, in cui Britney sudata e seminuda sussurra sensuale e ci va giù pesante di movimenti pelvici, affermando “Sono la tua schiava” (ma lei si rivolge alla musica, mica a te, pervertito!)
Jessica Simpson si presenta al mondo come la figlia di un reverendo texano, (ma non è vero! Il padre è solo un manager musicale che dopo di lei, lancerà la figlia più piccola, con un piglio meno virginale e caramelloso, in favore delle buone ballad rock’n’roll-country che piacciono alla sana e cristiana America). Esordisce comunque come la nuova icona della Cristianità.
Canta in chiesa, incide cd di christian-pop, va ai convegni nazionali cristiani, va al MICKEY MOUSE CLUB, si mette insieme ad uno del MICKEY MOUSE CLUB, si sposano, fanno il reality, interpreta (male) il sogno erotico di ogni buon redneck che si rispetti, ovvero Daisy di Hazard, finanzia la campagna elettorale di Geroge W. Bush, divorzia, ingrassa e sparisce dalle scene.
Per Britney è l’inizio della fine. All’età di 22 anni si sposa a Las Vegas con un amico d’infanzia, sopra una limousine verde mela. Indossa dei jeans strappati ed un cappellino da baseball. Il giorno dopo si scusa, ma il danno è fatto ed una foto prova l’inconfutabile: Britney Spears era dannatamente ubriaca. La roba manda così in bestia l’America bacchettona da far imbufalire pure la moglie del governatore del Maryland, che lancia una campagna dal cristianissimo nome “KILL BRITNEY” e dichiara «You know, really, if I had an opportunity to shoot Britney Spears, I think I would.» Comincia a frequentare gentaccia (come Fred Dusrt dei Limp Bizkit), che si bullerà parecchio di averla scopata. Diventa molto amica di Paris Hilton e Mel Gibson (tanto ninfetta la prima, quanto folle il secondo), fuma, beve, va in giro senza mutande e si sposa con un ballerino con la faccia da idiota (Kevin Federline) con cui fa una manciata di figli. Il giorno del matrimonio le damigelle e i damigelli indossano tute di ciniglia con su scritto “Pimp” (pappone) o “Bitch” (stronza/puttana) sulle chiappe. Servono ali di pollo e immolano parecchie mucche al dio del trash. Britney e Kevin scopano un sacco. Oh, sì… lei è obnubilata dal suo cazzo. Si fa beccare dai paparazzi in tanto che glielo massaggia, si lascia andare, ingrassa e ride sguaiata ed ubriachella all’obiettivo. Britney ora è felice.
Ma a chi può vendere i dischi una Britney incapace di danzare, cantare, fuori forma, volgare e che fa la solita musica di merda? Fosse una rock star, nessuno si stupirebbe! Ma lei è la reginetta gné-gné d’America, mica Courtney Love!
Britney chiederà il divorzio a Kevin (senza addurre alcuna motivazione ufficiale). Lui darà il via ad una lunghissima battaglia legale per l’affidamento dei figli, denunciandola di ogni cosa. Lei, per pararsi il culo, si ricovera in una clinica di riabilitazione e si rapa a zero, in modo da evitare un eventuale test tricologico, volto a rilevare la presenza di droghe nel suo corpo. Britney è fuori di testa.
Da fidanzatina a incubo d’America. Cosa è successo realmente a Britney Spears?
Lamie Spears, suo padre, va da un giudice e fa dichiarare Britney incapace d’intendere e volere. Ora tutti i suoi soldi, la sua immagine, la sua carriera sono in mano al padre e alla madre, che diventano (ri-diventano) i suoi manager. Suo padre la segue persino in tour e durante le registrazioni dei videoclip. Britney Spears ormai trentenne, non ha tutt’ora la possibilità di scegliere della propria vita e per volontà di padre deve leggere la Bibbia per almeno un’ora al giorno. Perché se è una sfasciona è solo e soltanto perché ha voltato le spalle a Gesucristo! …ma non è l’unica.
Innumerevoli sono i prodotti della DC (e della Chiesa Evangelica) che hanno compiuto il medesimo percorso. Calcare le scene con ancora il pannolino addosso, far fare palate di soldi ai genitori, battere ogni record d’incasso, promuovere i sani valori cristiani, crescere, perdere pubblico, scandalizzare con la svolta sexy appena maggiorenni e sbottare.
Yo quiero fumaaaar mota!
Lo ha fatto Lindsay Lohan, la ragazzetta carina con le lentiggini del remake di HERBIE, IL MAGGIOLINO TUTTO MATTO (Disney) e che ora che è adulta, colleziona più arresti e risse del peggio gangsta rapper. Lo stesso è stato per Miley Cyrus… tanto odiosa, quanto prodigiosa, che dopo l’immancabile svolta sexy è stata beccata intenta a spipazzare un bong!
CONCLUSIONE Si potrebbe obiettare asserendo che questo folle gioco al massacro, non è del tutto originale. Si potrebbe dire che indipendentemente dalla Disney, ogni volta che un bambino diventa ricco e famoso in tenera età, è destinato a vivere una vita da sfascione.
Drew Barrymore per esempio, la bambina di E.T., a dodici anni era già dipendente da alcol e cocaina. Maculay Culkin, il bambino di Mamma ho perso l’aereo, tanto carino da diventare l’attore-bambino feticcio del mondo intero, a soli 15 anni era un uomo povero (il padre aveva sperperato ogni suo centesimo) depresso, esausto che decise di ritirarsi dalle scene e da allora non ne è più emerso. Stiamo parlando di mega disadattati, dunque. Ma se da un parte quel finto-buonista di Steven Spielberg, padrino di Drew Barrymore, ha fatto il possibile per “salvare” la sua pupilla, (famoso è l’episodio in cui Spielberg sgridò Drew, per aver posato nuda su Playboy) la DC invece, se ne strasbatte il cazzo ed una volta spremuti a dovere, lascia i suoi prodotti allo sfascio perché gli conviene così. Ma non è il bieco sfruttamento delle baby-star da parte dei genitori e della DC, a rendere questa storia abominevole (come un centipede umano), ma bensì il CALCOLO.
Sì, amici miei… tutto questo è voluto dalla Chiesa Evangelica che può così prendere ad esempio le Britney, le Lidsay e le altre sfascione a mo’ d’esempio per le future generazioni cristiane. ...e sta in questo la mia ipotesi di complotto: La DC (Disney Channel) in collaborazione con la Chiesa Evangelica, creando delle star ad hoc, vende sesso e pedofilia facendo finta di niente e fa un sacco di soldi. Sfrutta i suoi prodotti (negandogli infanzia e adolescenza “normali”), fino al punto di farli diventare dei disadattati del cazzo, in modo tale che, una volta “rotti”, si possa dire che è perché hanno fatto l’errore e l’abominio di abbandonare i binari delle cristianità e i saldi valori americani. …insomma, come Adamo ed Eva che colsero il frutto della conoscenza, come Icaro che si spinse a volare verso il sole. Il punto è questo: volta le spalle a Gesucristo e sei fottuto, tu sei una merda e tale devi restare. Merda.
Pedo-pornografia, matrimoni precoci, malattie sessualmente trasmissibili, sesso anale: sono solo alcune delle pratiche adotatte dagli adepti de “THE SILVER RING THING”!
In principio vi era la Chiesa Evangelica che negli anni Novanta lanciò il movimento “TRUE LOVE WAITS”, che poi divenne “SILVER RING THING” col nobilissimo obiettivo di preservare i giovani dalle gravidanze precoci e dalla malattie sessualmente trasmissibili. Come? Predicando l’astinenza prima del matrimonio.
L’anello della purezza (o purity ring) è una piccola fede d’argento che simboleggia la promessa fatta a nostro signore Gesucristo, di rimanere vergini fino al giorno in cui si convolerà a nozze.
Un cavillo per la verginità: sesso anale per le figlie di Maria!
Alcune scuole confessionali americane, tipo quelle che non insegnano l’evoluzione darwiniana a favore della teoria creazionista, in passato hanno promosso ed esercitato molta pressione (sponsorizzati dal Governo Bush) sulle allieve affinché indossassero l’anello.
Eppure, è provato scientificamente che l’anello della purezza non serva ad un emerito cazzo, perché la gente che lo indossa è stupida.
Come si può leggere in un interessante, nonché smerdatorio, articolo sul Washington Post del 2005, che riporta l’esito di uno studio durato 18 anni e che ha visto la partecipazione di 20.000 volontari, con l’anello della purezza al dito.
Ne è emerso che il 75% ha violato la promessa e ha fatto sesso prima del matrimonio, ma ne è emerso anche che sebbene l’astensione possa aver evitato in minima parte gravidanze precoci (favorendo nello stesso momento matrimoni precoci e divorzi precocissimi), ha però creato una generazione di ignoranti, privi della benché minima nozione in merito all’educazione sessuale e alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili.
É provato infatti che, essendo stupidi e pensando che per astensione s’intenda solo ed esclusivamente il sesso vaginale (che provoca al rottura dell’imene e possibili gravidanze), le giovani ragazze evangeliste con l’anello della purezza al dito, non perdano tempo a far parecchi pompini e parecchio sesso anale non protetto, ergo, mucose piene di micro-lesioni come se fossero strisce di zebre e batteri fecali come se piovesse.
La Disney non si è mai fatta questi problemi, anzi… punta molto sull’immagine pulita-acqua&sapone delle sue baby-star e non c’è singola intervista in cui non salti fuori l’anello della purezza e la promessa di castità. La summa è che ogni volta che una baby-star Disney apre bocca, parla di sesso ed è un po’ come dire ad una persona che soffre di vertigini, che s’improvvisa funambolo, di non guardare sotto.
Dì ad un adolescente in pieno sconvolgimento ormonale o ad un uomo arrapato, la parola “vergine” e lui penserà subito a mutandine bianche ed una vagina da deflorare. É matematico.
Da questo punto in poi, da quando cioè le baby-star della Disney, non sono più “baby” e hanno fatto la loro promessa, la cosa un po’ si complica. La prima ragione è che oramai sono diventati adulti, si sono emancipati e hanno intrapreso (motivati e punzonati dai genitori manager) una carriera fuori dalla Disney, ma comunque dentro la Chiesa Evangelica, perché ahimè, da qui in poi si farà sempre più fatica a capire se ci sia poi una reale differenza tra la Walt Disney Company e la Chiesa Evangelica, ed è per questo che ho deciso simpaticamente di chiamare The Disney Channel, la DC. Anche se c’è da dire che, rispetto agli Evangelisti americani, la nostra Democrazia Cristiana sembrava composta da dei black blocks spacca madonne.
Il secondo elemento che va a complicare la faccenda è che, vada per la castità e la purezza, ma questi giovani uomini e donne straordinari, dovranno pur avere una vita apparentemente normale. Dai… il fidanzatino ce l’hanno proprio tutte! Pure le scronde e le figlie di Maria!
Ed ecco che la Disney, come il chirurgo pazzoide di Human Centipede, come il Dottor Frankestein e anche un po’ come Mengele cosa fa?Gioca con i corpi e le vite dei propri prodotti, perché non gliene frega un cazzo se Britney Spears ha firmato per una multinazionale e vende milioni di copie. Britney Spears è un prodotto Disney, è cresciuta nella Disney ed è stata educata secondo i dogmi della Chiesa Evangelica. Britney Spears è figlia di Topolino e da brava figliuola, fa quello che le dice il topo e guarda caso, si mette assieme ad un altro prodotto della Disney, che accidentalmente proprio in quel momento è in vetta alle classifiche con la sua boy band.
La fidanzatina d’America che s’innamora del fidanzatino d’America ed insieme aspettano il matrimonio, illibati e innamorati di Gesucristo.
Britney Spears si fidanza con Justin Timberlake, che per non farsi dare dello sfigato, a domanda «É vero che Britney è vergine?», lui risponde «Non posso rispondere a questa domanda, so solo che la sua bocca non lo è...». Grazie Justin, grazie davvero! Grazie per essere stato così carino nei confronti di quella ragazza che ami e rispetti così tanto, da non voler macchiare il vostro sentimento, con dello squallido sesso vaginale. Leggi: Britney Spears bocchinara.
E come Britney, c’è stata Jessica Simpson con Nick Lachey, o uno dei Jonas Brothers (dalla serie della DC omonima) con Selena Gomez (da I MAGHI DI WAVERLEY), Zac Efron con Vanessa Hudgens (entrambi di HIGH SCHOOL MUSICAL, lungometraggio della Disney), ecc. ecc.
Le loro storie, che ricordano tanto quelle unioni tra nobili imparentati, nate fin dai primi anni dell’infanzia intanto che ballavano e cantavano al Mickey Mouse Club, vengono seguite, sezionate, coreografate e scenografate davanti ai media di tutto il mondo ed esse stesse diventano spettacolo, alimentato dalla morbosità e della curiosità legata alla sessualità (orale et anale) della coppia.
Fino al giorno del matrimonio… in cui finalmente il pene può entrare nella vagina ed è subito reality.
La favola volge alla fine, Barbie e Ken si sono sposati e i due novelli sposi vivono felici e contenti. Le bambine hanno visto la cerimonia nuziale, l’abito bianco e il bacio in chiesa. Hanno visto la luna di miele in qualche paradiso tropicale. Hanno visto infine, le loro beniamine struccate, appena sveglie nel letto di un albergo di lusso. Persone normali, che vivono vite normali e si sposano come le persone normali.
E adesso? Dopo il matrimonio? Cessato il clamore derivante dalla loro verginità? Come possono Britney Spears e Jessica Simpson proseguire una carriera, che fino ad allora era costruita intorno alla loro sessualità?
Dopotutto nessuna bambina voleva la sfigatissima Barbie “Famiglia del Cuore”!
Un chirurgo pazzoide in pensione, che s’è fatto la villa a furia di dividere gemelli siamesi, decide di portare avanti un folle progetto e cioè quello di creare un centipede umano. Asportando le rotule ai malcapitati ed obbligandoli così a carponi, cuce la bocca all’ano di chi sta davanti nella sequenza, creando così un lungo tubo fatto di bocca-culo-bocca-culo-bocca-culo. La sua idea è quella che, in assenza di risorse, nutrendo solo il primo, gli altri possano sopravvivere alimentandosi dei suoi escrementi e così via… Schifo? Sì, ma è solo la trama di un brutto film (The Human Centipede), ciò che sto per raccontarvi invece è la pura realtà.
Questa è la la storia del progetto più lucido, criminale e riuscito dei nostri tempi, tanto evidente, chiassoso e colorato da diventare invisibile. Sto parlando di THE DISNEY CHANNEL (da ora la DC) e della sua fame insaziabile di esseri umani. La DC, moderno Dottor Frankestein, che taglia, cuce e gioca al demiurgo, con i corpi e i genitali delle sue cavie con l’unico e meschino obiettivo di far soldi, attraverso la paura e i dogmi cristiani.
Ma iniziamo dal principio…
C’era una volta la Walt Disney Company che investì circa 30 milioni di $ per avere una tivì tutta sua, la DC per l’appunto, che iniziò le sue trasmissioni nell’Aprile del 1983, con il MICKEY MOUSE CLUB (che era una specie di “Non è la Rai”, ma coi bambinetti che cantano e ballano), una manciata di vecchi film classici ed una serie ad hoc dal titolo KIDS INCORPORATED, che racconta la storia di un gruppo di teen-idol, che devono destreggiarsi tra l’incredibile fama e la loro voglia di vivere una vita semplice.
Dopo pochi anni rivoluzionano il MICKEY MOUSE CLUB, che diventa THE ALL-NEW MICKEY MOUSE CLUB, ma rimane una specie di “Non è la Rai” coi bambinetti che cantano, ballano e che diventerà famoso, per aver assunto e sfruttato (arricchendo i loro genitori) tizi del calibro di Christina Aguilera, Justin Timberlake e Britney Spears.
Nel 2004 circa, la DC cambia target, pedinando il suoi primi fans (ormai adolescenti), diventa un canale di talent scouting che manda in loop trasmissioni e roba promozionale, per lanciare i propri prodotti.
Prendiamo una serie televisive come RAVEN del 2005. Vedremo che la DC tende a chiamare i protagonisti con lo stesso nome di battesimo degli attori (e non è un caso). La protagonista di RAVEN, giustappunto si chiama Raven-Qualcosa e per intenderci è Olivia, la bimba dei Robinson, cresciuta e decisamente formosa.
RAVEN, nella serie, è una ragazzetta che prevede il futuro e deve destreggiarsi tra il suo incredibile potere segreto e la sua voglia di vivere una vita semplice.
Breve nota biografica. Raven-Qualcosa LAVORA nello spettacolo dall’età di due anni. Nata nel 1985, ha già girato 13 film, 4 serie (per un totale di almeno 200 episodi), è apparsa in altre 7 serie, sa recitare, cantare, ballare ed è pure coreografa, perché la DC vuole artisti a tutto tondo!
Ama la musica di Hannah Montana e London Tipton, entrambe personaggi di altre serie originali della DC, ovvero HANNA MONTANA, ZACK & CODY AL GRAND HOTEL e dello spin-off ZACK & CODY SUL PONTE DI COMANDO.
Raven comparirà come guest star in alcuni episodi crossover.
Altro crossover (e questa volta triplo!) in una puntata di ZACK & CODY SUL PONTE DI COMANDO, in cui compaiono sia Hannah Montana, che i protagonisti di un’altra serie della DC, ovvero I MAGHI DI WAVERLYche racconta la storia di una famiglia di maghi, che devono destreggiarsi tra i loro poteri segreti e l’incredibile voglia di vivere una vita semplice.
Altra serie di successo: HANNAH MONTANA in cui Miley Cyrus interpreta Miley Stuart (stesso nome di battesimo), una ragazzetta normale, che di notte fa la pop star, indossando una parrucca bionda e che deve destreggiarsi tra le mille difficoltà derivate dalla sua falsa identità (Hannah Montana, appunto), in contrapposizione alla sua voglia di vivere una vita semplice.
Nella serie c’è anche suo padre (che è anche il manager di Hannah Montana e per non farsi beccare indossa dei baffi finti!) e pure la sorellina piccola in qualche episodio. In tutto questo la madre (reale) è manager sia di Miley che del padre.
Facendo un resumé…
Alla base delle serie della DC, c’è un’unica idea, ovvero la storia di pre-adolescenti (o gruppi di adolescenti) che hanno qualcosa che li rende unici, ma mentono alla plebe per vivere una vita normale.
Le serie della DC vengono interpretate da baby-star che non hanno mai avuto una vita normale e che da quando sono in grado di tenere dritta la testa sul collo, recitano, ballano, cantano e studiano per farlo, come piccoli atleti che manco vanno a scuola, perché hanno un tutor che li segue in tournée.
I protagonisti delle serie della DC hanno lo stesso nome delle baby-star che l’interpretano e compaiono da una serie all’altra, in un complesso gioco di citazioni, crossover, cammei e scatole cinesi che portano TE, innocente creatura che guardi la TV, a credere che quel mondo esista davvero.
Ad ogni serie della DC corrispondono un paio di album (cantati dai personaggi della stessa), merchandising, videogiochi, linee di abbigliamento, profumi ecc…
Interessante è il caso di Miley Cyrus che è andata in tour come Hannah Montana (ovvero con la parrucca bionda), è stata seguita passo-passo dalle telecamere e ciò che ne è emerso è stato il film di Hannah Montana, in cui un personaggio di fantasia si esibisce davanti ad un pubblico reale e quantomai confuso, composto da bambine urlanti, peluches, lacrime e tiepidi ormoni pre-puberali.
Breve nota biografica: MILEY CYRUS, figlia di un cantante country e della sua manager, non ancora sedicenne, conta 10 lungometraggi, 10 serie, 3 tour mondiali e 4 album.
Abbiamo visto che nel 2004 circa, la DC si è evoluta e si è adeguata ai suoi fans che crescevano e diventavano adolescenti, ma dopo la pubertà? Cosa ne è degli ex enfant prodige e del loro pubblico? Come si comporta la DC coi ragazzi e le ragazze a cui è cresciuto il pelo pubico?
C’è chi grida allo scandalo, proprio come quelle madri che coprono gli occhi alle figlie durante l’esibizione delle Mignonnes, perché nessuno vuole vedere delle undicenni così sfacciate, maliziose, allusive o seduttive. Eppure a queste bambine cresciute nei quartieri popolari di Parigi gli si chiede di essere già donne quando devono occuparsi della casa, del bucato o dei fratelli più piccoli. Perché le madri lavorano o stanno allattando il terzo o quarto figlio di quegli uomini di casa che pretendono. Pretendono vestiti puliti, pranzi serviti e pretendono che la madre di Amy accolga (nella stanza migliore) la nuova giovane moglie dell’uomo di casa che sta tornando dal Senegal. Pretendono di scegliere come la moglie e le figlie si debbano vestire in occasione di quel secondo matrimonio imposto, con quell’altra donna mai vista prima, ma che diventerà parte della famiglia. La favorita nella stanza più grande e luminosa. La stanza di una principessa in cui non è possibile accedere dall’esterno. E a queste bambine, che non hanno tempo di giocare, viene anche insegnato che il peccato risiede nel proprio corpo.
E a queste bambine, che non hanno tempo di giocare, viene anche insegnato che il peccato risiede nel proprio corpo.
Quel corpo che inizia a sanguinare e definisce biologicamente e socialmente il loro essere donne in grado di fare figli e quindi pronte per essere date in moglie, avvolte in un candido vestito che cela il loro volto. Ma non è solo questo essere donna. Non è solo sanguinare ed essere fertile. Se c’è un’alternativa a questo dogma culturale, affettivo e biologico di essere donna (peccatrice, sottomessa e con una data di scadenza) bisogna allora assolutamente scoprirne i trucchi, i segreti e i passi giusti da fare per uscire da questo schema che condanna. E dove cercare? Come imparare ad essere una donna cercando dei modelli fuori dalle mura domestiche? Forse su quel cellulare rubato al cugino emissario del padre?
Maïmouna Doucouré, regista di Mignonnes (film francese del 2020 disponibile su Netflix), non ha bisogno di mostrarci come la piccola Amy abbia imparato a ballare twerkando, simulando seghe o succhiandosi allusivamente le dita, perché non ce n’è bisogno. Sappiamo tutti molto bene come veniamo raccontate e rappresentate e come noi stesse sappiamo raccontarci e venderci secondo la legge del mercato, dello spettacolo e del potere.
In Italia Mignonnes è stato ribattezzato “Donne ai primi passi” per quello schifo di vizio che abbiamo di dover tradurre, stravolgere e fare giochi di parole scemi su tutto, nel tentativo di rendere simpatico o comico ciò che comico non è. Perché Mignonnes non è una commedia. Ma proprio per niente. Seppure Amy e le altre risultino ridicole, grottesche o addirittura tenere nei loro tentativi di emulazione e interpretazione dell’essere adulte, così come è ridicolo, goffo e pericoloso cercare di stirarsi i capelli con il ferro da stiro.
Mignonnes è un film pericoloso o malizioso? Non credo. È un bel film come non mi capitava di vederne da molto.
Sumida è il nome del fiume che attraversa Tokyo. Navigandolo è possibile vedere lungo i suoi argini, centinai di piccoli rifugi costruiti con materiale di recupero, cassette di legno, rottami e gli inconfondibili teli blu impermeabili che proteggono dalle piogge le abitazioni di fortuna dei senzatetto della città.
Sumida è anche il nome di un quattordicenne che abita con la madre alcolista in un piccolo capanno in cui si noleggiano imbarcazioni, protagonista di “Himizu”, manga di Furuya Minoru del 2000 e poi film diretto da Sion Sono nel 2011. Anno dell’inenarrabile catastrofe del 11 marzo che ha piegato le gambe al Paese. Eppure Sion Sono prova a narrarcela, attraverso la storia di Sumida e del suo piccolo capanno in cui si svolge buona parte della storia. Tra il fiume e l’umile abitazione ci sono solo pochi metri di fango e sassi e più in là, verso l’orizzonte, un altro capanno sommerso per metà dall’acqua. Sumida ed i suoi vicini di casa, alcuni senzatetto a cui lui permette di usare il proprio bagno, spesso indugiano e contemplano il rudere sommerso.
«Mi ricorda quello che è successo» urla uno di loro. «Lo faremo sparire. Lo toglieremo da lì» lo rassicura il più anziano, un imprenditore che ha perso tutto a causa dello tsunami. Eppure da lì, nessuno lo muove e lì rimane fino alla fine.
Per evidenti ragioni cronologiche il fumetto di Furuya Minoru, pubblicato su Young Magazine tra il 2000 e il 2001, non affronta la questione della catastrofe, ma focalizza la sua attenzione sulla vicenda personale di Sumida e dei suoi amici, cristallizzando le loro vite nell’attimo preciso in cui si stanno preparando al passaggio dall’adolescenza all’età adulta, in un mondo in cui però non esiste saggezza. Gli “adulti”, quelli che dovrebbero guidare e aprire la strada ai più giovani, sono madri alcoliste e assenti, padri disonesti e violenti, ladri amorali e pederasta bugiardi. Gli amici di Sumida (nel manga) sono Akada con il suo grande sogno di diventare mangaka seguendo le orme del fratello maggiore, ma che ha fretta, troppa fretta. C’è Yoruno, il cui unico sogno è quello di fare soldi ad ogni costo e Keiko Chazawa, ragazza enigmatica e cupa, innamorata di Sumida che invece, di sogni non ne ha e non vuole averne.
L’assenza di saggezza degli adulti, nella trasposizione cinematografica del manga, assume una doppia valenza: quella emotiva e quella sociale. Che mondo stiamo lasciando ai nostri figli? Le notizie delle evacuazioni, delle contaminazioni nucleari e del disastro dello tsunami, gracchiate dai notiziari accompagnano come un mantra il percorso emotivo e psicologico di Sumida.
La devastazione ambientale, l’assenza di morale, la celebrazione di falsi miti sono come un cappio che i genitori stessi stringono attorno al collo dei propri figli. Come la madre, viziata e psicolabile di Chazawa, che sta costruendo una forca nella sala da pranzo su cui si dovrà impiccare Chazawa.
«Lei è la rovina della nostra felicità» piagnucola la madre intanto che con il padre, vernicia e decora la forca destinata alla figlia. «Senza di te, andava tutto bene» dice invece il padre di Sumida, biasimandolo per non essere morto da piccolo nel fiume. «Avrei riscosso l’assicurazione se non ti fossi salvato» gli confessa ogni volta che è ubriaco.
L’egoismo dei padri rende insostenibile il confronto con i figli e la loro stessa coesistenza, come se questi ultimi fossero la prova concreta e fatta carne del loro fallimento. E quando lo scontro tra Sumida e suo padre raggiunge l’apice, vediamo i due uomini stesi uno accanto all’altro. Sumida si rannicchia in posizione fetale nella fossa che ha scavato per il padre. Piange ed urla disperato. È immerso nel fango, come neonato ricoperto di placenta che viene dato alla luce dalla terra, pronto ad iniziare la sua nuova vita. Quale? Quella di una personale normale. Un adulto “decente” e onesto, come spesso afferma.
«Non so distinguere il bene dal male» confessa il ragazzo a Chazawa, quando decide di dedicare la sua vita a “ripulire” la città dalle persone cattive, per rendersi utile alla società. Persone cattive e perdenti, come quel ragazzo sull’autobus che, rimproverato da una donna anziana per non aver lasciato il posto ad una donna incinta, reagisce accoltellandola. «Che fine ha fatto la buona educazione?» lo incalza, prima di venir trafitta dal coltello.
Ed è sullo scontro generazionale, sulle colpe degli adulti che ricadono sui più giovani, che Sion Sono decide di raccontare il disastro ambientale (e sociale) dell’11 marzo. Un mea culpa, una confessione di una generazione cresciuta col mito dello sviluppo e della ricchezza, senza se e senza ma, che sta lasciando le rovine di un mondo arido e devastato alle generazioni future.
«Lasciami perdere. Che cosa vuoi? Quello che faccio è una mia scelta» gli dice una donna in biancheria intima, ricoperta di lividi che va a buttare la spazzatura con una catena attaccata alla caviglia. Sul suo corpo nudo c’è scritto “puttana”. Come una società malata, incapace di fare i conti con se stessa, che si crede consapevole e padrona del proprio misero destino. «Non bisogna arrendersi» urlano Sumida e Chazawa correndo, con le immagini della devastazione del Sendai come sfondo.
Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.
Foto di Silvia Polmonari
Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.
Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non
può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole
non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi.
Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la
parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello
dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna
degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo
appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i
vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti
accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura
nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che
ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei
minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la
tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere
male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci
vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni
samaritani.
Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e
conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure
non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo.
Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in
quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide
pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad
un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non
confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a
discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni
definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le
posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di
calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando
un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.
L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.
“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”
“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir
Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?
E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!
“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.
Lei, Antichrist, Lars Von Trier
Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.
Aprile è il più crudele dei mesi, genera Lillà da terra morta, confondendo Memoria e desiderio, risvegliando Le radici sopite con la pioggia della primavera. L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse Con immemore neve la terra, nutrì Con secchi tuberi una vita misera.
“The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot
Non è la putrefazione stessa una
forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura
che reca in sé la vita e la morte?
Era estate e Lei era seduta sul
prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante
di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli
artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo
ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.
“Il caos regna” sillaba una volpe
che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione
di Lui.
“La natura è la chiesa di Satana”
sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è
malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale,
inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il
successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina
– la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di
abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei
donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro.
Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.
“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,
“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.
“Le donne sono malvage perché è
la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è
malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non
ha più pazienza di ascoltarla.
Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…
Tu sei donna. Una femmina. In te
abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a
quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che
non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno
come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva
fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza
del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai
tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai
scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi
in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo
insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro
di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre,
mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere
con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati,
il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.
«Tutte le persone in stato d’arresto sembrano più belle. Il più brutto dei criminali sessuali e il più sgangherato dei tossici assumono un fascino particolare quando vengono ammanettati e trascinati al cospetto del pubblico americano affamato di crimine. Un nuovo criminale è l’evento più clamoroso di tutte le star dei media; è l’unico tipo di celebrità che può arrivare dalla mattina alla sera».
John Waters e Patty Hearst nel 1988.
[Valeria] Chi scrive è John Waters, il regista di Baltimora che da una manciata di decadi sfida la morale ed il presunto buon gusto dell’americano medio con i suoi film. La citazione è stata tratta da «Shock. L’autobiografia trasgressiva e irriverente del re del trash»; il libro che è uscito per la Lindau nel 2000, a quasi quindici anni di distanza dalla pubblicazione negli Usa per l’americana Delta. «Shock» può essere definito come il diario personale di John Waters che, dagli anni Settanta, sembra aver sposato la causa dello scandalo a tutti i costi. Spesso riconosciuto con l’appellativo «the Pope of trash» (il Papa del trash), basta vedere i suoi primi film, per confermare e legittimare quest’insolita investitura. Scritto in prima persona, ci si aspetterebbe – come in ogni autobiografia che si rispetti – che parta dall’infanzia, e invece no, perché John Waters decide di raccontare la sua vita a partire dalla realizzazione di Pink Flamingos, primo film di successo che lo ha consacrato come massimo esperto del cattivo gusto. Il film (uscito nel 1972), reca il sottotitolo «An exercise in bad taste» e passerà alla storia per alcune scene che è difficile descrivere senza scadere nella volgarità e nell’oscenità. Dalle contrazioni a tempo di “Surfing Bird” di uno sfintere ripreso in primo piano, fino all’orripilante scena cult di coprofagia di Divine, la protagonista, nonché musa del regista: una drag queen biondo platino di circa 150 chili che, nel film, lotta contro gli orribili coniugi Marble per aggiudicarsi il titolo di «persona più disgustosa del mondo».
Patricia Hearst durante la rapina alla Hiberna National Bank (1974).
Tra la narrazione della fase di produzione dei film (Pink Flamingos, Female Trouble, Desperate Living e Polyester), John Waters racconta i suoi ricordi e le sue ossessioni, in modo spontaneo e senza seguire una precisa cronologia. Racconta per esempio della sua passione morbosa per il crimine e i criminali, in un capitolo esilarante in cui descrive la fauna degli appassionati di cronaca nera che non si perdono un processo, tematica che tornerà sia in Female Trouble che nel blockbuster La Signora Ammazzatutti con Kathleen Turner (del 1994, presentato al 47° festival di Cannes).
Ed è qui che leggiamo per la prima volta un nome che non ci è nuovo: Patty Hearst, quella Patricia che ama il cobra a sette teste (simbolo dello SLA – l’Esercito di Liberazione Simbionese), anti-eroe tragico cantato in un pezzo contenuto in “Music is a gun loaded with future” dei Kalashnikov Collective.
Che l’odore dei morti e il dolore dei vivi Li faccian vomitare Patricia ama il cobra a sette teste!
«Riuscire ad avere un posto a sedere a un famoso processo è come intrufolarsi alla premiazione degli Oscar: richiede gran pazienza e organizzazione. Al processo di Patty Hearst centinaia di persone aspettarono per giorni nei sacchi a pelo fuori dall’aula di tribunale per poi scoprire che c’erano solo sei o sette posti disponibili per il pubblico.[…] I fan di Patty erano adirati e si rifiutarono di spostarsi, creando così una sorta di Woodstock del crimine. Cantarono “Buon compleanno” a Patty e mangiarono rumorosamnete una torta di compleanno che aveva preparato una groupie di Patty…»
John Waters racconta di aver avuto l’onore di ascoltare la testimonianza di Patricia Hearst e scrive:
«Dopo settimane di studio di foto ingannevoli dell’accusato sui giornali è sempre un’eccitazione vedere coi propri occhi il criminale in carne e ossa. Alcuni fan svengono come groupie impazziti di rockstar. […] Patty Hearst, comunque, fu sempre una delusione, con il suo aspetto così anonimo con le sue scarpe per bene e il suo vestiario da scuola privata: “Questa è Patty Hearst?” continuavo a pensare»
Ma chi è Patricia Campbell-Hearst? In un’America che oggigiorno dedica la copertina di Rolling Stone all’attentatore di Boston e a lettere capitali, scrive “THE BOMBER” e sottotitola “come un popolare e promettente studente, sia stato rovinato dalla sua famiglia e sia finito nell’islam radicale, diventando un mostro”, in un Paese con la più numerosa popolazione carceraria nel mondo (poco meno di ottocento persone in prigione per ogni centomila abitanti circa), in cui è sancito per costituzione il diritto ad essere armati… come si colloca la vicenda assurda, violenta e ipocrita di Patricia Hearst? Patricia è una ricca ereditiera di diciannove anni, che porta il cognome di una delle più importanti famiglie a capo di un gruppo editoriale. Nel 1974 viene rapita dallo SLA – L’esercito di Liberazione Simbionese e viene tenuta prigioniera in una cabina armadio per diverse settimane, bendata e costretta a rapporti sessuali coi cuoi carcerieri che, dopo poco meno di tre mesi, dichiara: «Mi è stata data la scelta di essere rilasciata in una zona sicura o di unirmi alle forze dell’Esercito di Liberazione Simbionese per la mia libertà e la libertà di tutti i popoli oppressi. Ho scelto di restare e di lottare». Da allora inizia il suo percorso armato al fianco dello SLA, fatto di addestramenti durissimi, rapine in banca, furti d’auto, rapimenti, fughe e clandestinità. La sua prigionia durò 591 giorni, al termine della quale venne processata, insieme ai tre superstiti dello SLA (sei ne vennero uccisi nel maggio del ’74) e condannati a 35 anni di reclusione. Patty venne difesa dallo stesso avvocato che diventerà poi famoso, per aver fatto assolvere il presunto uxoricidia O.J. Simpson.
L’Esercito di Liberazione Simbionese… in una foto promozionale del film “Patty – la vera storia di Patricia Hearst” (1988).
La tesi della difesa fu quella che Patricia, nonostante i video e le foto di lei con un fucile automatico al collo che rapinava l’Hibernia National Bank, fosse vittima di un lavaggio del cervello e soffrisse di un disordine da stress post-traumatico a causa del rapimento. Si parlò inoltre di sindrome di Stoccolma, dal momento in cui la Hearst s’innamorò di uno dei suoi rapitori e stupratori. L’avvocato, invocando una sfilza di periti illuminati, riuscì a provare persino che il QI di Patricia fosse passato da 130 a 109, facendo così ridurre la sua pena a 7 anni, che poi diventarono 22 mesi, per poi essere graziata dal presidente Jimmy Carter e ottenere definitivamente l’indulto da Ronald Reagan e Bill Clinton.
Patricia Hearst durante il processo.
Di quei 591 giorni in cui Patricia fu ostaggio e complice dello SLA, sono stati girati film, documentari e sono stati scritti numerosi libri, uno tra questi è Pastorale Rivoluzionaria di Christopher Sorrentino, uscito nel 2005 negli Stati Uniti col titolo “Trance”. Non siamo di certo di fronte ad un capolavoro della letteratura, ma è interessante ed utile per comprendere quale sia stato il percorso che ha portato la ricca e viziata Patricia Hearst (che per questioni legali diventa Alice Galton) a diventare quella donna in divisa, in posa davanti al serpente a sette teste con un fucile in mano, che è diventata un’icona al limite del pop, col nome di battaglia di Tania. Innumerevoli sono i riferimenti di Sorrentino alla parte, al ruolo che, in un certo senso, Patty Hearst decise di interpretare in quella vicenda violenta e sconclusionata, dietro la cui macchina da presa c’erano uomini e donne fanatici e confusi. Il gergo è quello del mondo del cinema e dello spettacolo.
“Lei ride, come da copione, e si toglie gli occhiali da sole. Né i rozzi travestimenti, né i pasti frugali, né la dura disciplina dell’addestramento hanno alterato un viso che ormai tutti conoscono. Scandendo le parole, dice: «Sono Tania Galton»“ “Lei sta per salire in macchina quando Yolanda le ricorda il copione…“ “Sembra la scena di un film muto…“ “Lei sente il brivido della fama.“
Come le reginette di bellezza avide e ninfette del recente Spring Breakers di Harmony Korine, che intraprendono la via del crimine e della violenza, continuando a ripetersi “è come in un film, è come un videogioco“, ecco che anche la storia di Patricia Hearst nel romanzo di Sorrentino assume delle tinte ludiche e spettacolari, come se la rivoluzione dello SLA fosse prima di tutto, un copione scritto male. Un film assurdo e grottesco in cui la ricca ereditiera dà dei “luridi insetti fascisti” ai propri genitori, in cui rapina banche che appartengono ad amici di famiglia per poi essere graziata dal Presidente che l’ha vista crescere. Una storia che ha di per sé tutti gli elementi per essere spettacolarizzata. Ed è nelle parole di Guy, un cronista che si avvicina allo SLA per raccontare la storia di Tania (e rimediarci un contratto editoriale a sei zeri) che comprendiamo a pieno la fascinazione dell’americano medio per Tania / Patricia Hearst.
«Randi, avresti dovuto vederla durante il viaggio in macchina, quando abbiamo attraversato il Paese. Tutte le volte che vedeva un addetto dell’autostrada o un casellante lei diceva che bisognava farlo fuori perché era un servo del sistema. Se ne stava lì seduta a tracciare delle X sulle foto dei manager della finanza che comparivano suelle pagine di economia del giornale. Quella ragazza brava seduta accanto a me, con il suo accento impeccabile, non faceva che elencare le malefatte dei ricchi fascisti. Se è successo a lei può succedere a chiunque: ecco cosa ci vuole dire lo SLA. E puoi star certa che questo è un pezzo di storia. I posteri la ricorderanno se la principessa terrorista morirà qui, fra queste verdi colline. Ma sarà tutta un’altra musica se lei si arrenderà, se dirà “non facevo sul serio”, se collaborerà con la giustizia e si riprenderà il suo nome, i suoi milioni e il suo fidanzato coi baffetti. Se nel giro di venticinque anni si trasformerà in una madre di famiglia di Hillsborough che va al talk show di Dick Cavett a raccontare i suoi folli trascorsi di rivoluzionaria, allora quella sarà la storia degli annia Sessanta. L’unica vera storia.»
Non a caso la stessa Patricia Hearst, dopo essersi sposata con la sua guardia del corpo e aver dato alla luce due figlie, intraprenderà una carriera da attrice lanciata proprio da John Waters. E il cerchio si chiude. Più o meno.
[Da un periodico dell’epoca: “Chi c’era dietro l’Esercito di Liberazione Simbionese? Lo SLA era stato forse creato e sviluppato con l’intento di collegare i gruppi di sinistra al terrorismo e alla violenza?”]