DISSAPORE.COM – Pizza, low-cost… in Giappone!

DISSAPORE.COM – Pizza, low-cost… in Giappone!

Giovane, predisposta al martirio, si avventura nella pizza low cost giapponese

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Nella mia umile e limitata esperienza di fondatrice e curatrice di un blog in cui si recensiscono prodotti del discount, ho scoperto una cosa. Chiamatela folgorazione, illuminazione, rivelazione… ciò che conta è che nel momento dell’epifania, io mi sono sentita come Santa Teresa nel pieno di quell’estasi mistico-erotica sapientemente scolpita dal Bernini.

Questa piccola rubrichetta si chiama “Io sto con Murray” e per saperne la ragione – se non l’avete ancora fatto – vi tocca rileggere il primo post con cui ho esordito, qui, su Dissapore.

Quale sarebbe questa verità? Vi chiederete voi ed io ora lo spiego: la sublime arte di legittimare e dare dignità agli ultimi (prodotti del discount, tarocchi, industriali e bruttini per esempio), può essere applicata a qualsiasi ambito della nostra vita. Quando dico “Io sto con Murray”, riferendomi al personaggio di Don DeLillo in “Rumore Bianco”, io sto gridando a gran voce: «Io sto con gli ultimi. Io sto dalla parte dei pariah, dei negletti, degli innominabili…»

Ecco allora, che la mia missione (e la mia predisposizione al martirio) mi porta ora a cercare di raccontarvi, nel modo più dignitoso possibile e con il massimo rispetto del caso, qualcosa che farà rabbrividire i più e cioè…

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LA PIZZA. LOW-COST… IN GIAPPONE!
[articolo originale qui]

La pizza in Giappone ha un nome e un cognome. Quel nome è Salvatore e quel cognome è Cuomo; Salvatore Cuomo: pioniere della pizza nella terra del Sol Levante, ha ormai costruito un impero di ristoranti e bar sparsi qua e là tra Tokyo e Osaka.

La vera pizza napoletana con i migliori ingredienti, in un ambiente famigliare e confortevole, che però io non ho mai sperimentato. Perché? Perché per una margherita “da Salvatore” bisogna preventivare di lasciarci giù circa quindici euro per una pizza grande come un 45 giri di vinile. E poi lo ammetto, sarebbe stato tutto troppo facile cominciare dal migliore.

Invece io, masochista della forchetta in terra straniera, ho deciso di stare dalla parte degli appestati e degli ultimi. Come quella volta in quell’izkaya coreano (un pub in cui si fanno le ordinazioni attraverso futuribili touch-screen installati sui tavoli)… ancora rammento quell’oscena cosa – impossibile definirla pizza – che popola tuttora i miei incubi: Pasta fillo (giuro), una sgommatina di pomodoro, una sforforata di simil-parmigiano e pesto. Sì, pesto! A voler sopperire alla mancanza di basilico fresco. Il tutto rigorosamente carbonizzato. Costo: 3-4 € / Voto: zero assoluto.

O la piccola e kawaii Cheese Pizza, acquistata per meno di 1,50 € in un “combini” (convenience store aperti 24 h su 24). Tenera nella sua rotondità e con quel vezzo, come lentiggini, di cubetti di pomodoro fresco al centro. Meglio addirittura, della più o meno italica Speedy Pizza – ve lo garantisco – con cui abbiamo rovinato orde di tosta-pane nella nostra giovinezza.

Ma tornando a ciò che può essere definito “pizza” in Giappone, l’annosa questione delle dimensioni (della pizza, dei letti e delle stanze d’albergo) è qualcosa che ha caratterizzato buon parte dei miei viaggi nipponici.

Con lo stomaco che brontola ed un atavico bisogno di carboidrati-pomodoro-mozzarella, il mio compagno di viaggio ed io, abbiamo sostato minuti interminabili davanti alle vetrine luminose dei ristoranti che ospitano le repliche dei piatti serviti. Si chiamano replica food, sono fatti di cera e servono, per l’appunto, per dare una dimostrazione dell’offerta culinaria.

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Nei posti filo-italiani che vendono la “vera” pizza napoletana per esempio, sotto la replica viene sempre riportato il diametro della pizza che raramente supera i 25 centimetri. Una rara eccezione: ad Osaka, nel quartiere Umeda, nel ristorante semi-italiano “La Boheme”, abbiamo trovato una margherita di ampiezza dignitosa, ma di spessore criticabile. Costo: 8-9 € (acqua e coperto inclusi) / Voto: 7 + un plauso per il sottofondo musicale di beat italiano degli anni Settanta.

Abbiamo parlato della più grossa ed ora parliamo della più piccola. Siamo sempre ad Osaka nella centralissima Namba. Tra un pachinko rumorosissimo, un negozio di gashapon ed un internet café ecco un locale che vanta pizza e italian soda nel menu. La pizzetta (è il caso di dirlo) è più piccola della mia mano e costa intorno ai tre-quattro euro. Non è male. E la rotella con cui mi è stata servita fa quasi tenerezza.

In Giappone ogni pizza, anche la più piccola, viene servita con tanto di rotella taglia-pizza sortendo, alle volte, un effetto involontariamente comico. Costo: 3-4 € / Voto: 5 (non raggiunge la sufficienza a causa della modestissima dimensione).

Oltre alla rotelle e alle piccole dimensioni, ho scoperto che le pizze giapponesi sono spesso accompagnate da una generosa manciata di mais. Come è possibile vedere in quasi ogni pizzetta confezionata in rivendita nei combini e, addirittura, nell’abominio generato e non creato dal dio della cucina fusion: un buozi (paninetto cotto al vapore cinese) con ripieno di pizza (italiana) e mais!

Altra catena, altra pizza. Con la carta di credito bloccata, gli ultimi giorni del mio secondo viaggio in Giappone sono stati caratterizzati da un’ossessiva oculatezza nella spesa ed una religiosa austerità nei consumi. Decidiamo però di destinare ben tredici euro per assaggiare una pizza (suggerita dagli internauti) ad Asakusa, piccolo e tradizionale quartiere di Tokyo, famoso per il grosso tempio Senso-Ji e per la presenza di membri della Yakuza che ho scoperto adorano terrorizzare gli stolti gaijin (stranieri) come me e il mio moroso, schernendoli per i loro tatuaggi.

Ignorati gli sberleffi degli Yakuza, ci rintaniamo nel ristorante-pizzeria “Miami Garden” e prendiamo una margherita. Microscopica – non aveva ancora imparato al leggere i centimetri effettivi – con quattro grosse foglie di basilico arpionate su quella che dovrebbe essere mozzarella e sugo. Sugo con tanto di soffritto! Costo: circa 13 € / Voto: 4 (a causa del costo eccessivo, della dimensione ridotta e dell’arroganza del sugo sulla pizza).

Terzo viaggio in Giappone. Rinunciamo a questo folle gioco al massacro di trovare una pizza buona ed economica. Vaghiamo per Osaka in cerca di cibo e, come Isacco un momento prima di essere sacrificati, ecco che la mano del padre si ferma e ci grazia… scopriamo Saizeryia! Catena filo-italiana presente in quasi ogni quartiere di Tokyo ed Osaka. Prezzi contenutissimi per piatti decenti e bevande gratis.

Assaggiamo la pizza (ma dai?) ed è buona! Piccola, ma molto molto saporita. Anche questa servita con tanto di rotella in differenti versioni: margherita, acciughe, funghi e calamari. Ed è pure aperto 20 h su 24. Costo: 2,5 – 4 € / Voto: 7 + un plauso per i Ricchi & Poveri, Mario Merola e Domenico Modugno mandati in loop persino al cesso.

Ma è a Koenji che ritrovo la fede in definitiva.

Ad una manciata di fermate della metro dalla centralissima Shinjuku ecco, che nel posto più umile e modesto (come una mangiatoia a Betlemme), mangio la miglior pizza low-cost di tutto il Giappone.

DISSAPORE.COM – La coprofagia da P.P.Pasolini a Bruce Willis…

DISSAPORE.COM – La coprofagia da P.P.Pasolini a Bruce Willis…

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La verità è dura da digerire: ma tutti dobbiamo mangiare la nostra dose di…

Cosa hanno in comune Pier Paolo Pasolini e Bruce Willis? Tralasciando l’evidenza dell’essere appartenenti alla medesima specie e al medesimo genere (uomo – maschio), sono stati entrambi apostoli di una verità alquanto indigesta e cioè che noi tutti mangiamo merda. In senso lato e in senso figurativo.

Come dimenticare il cameo di Bruce Willis in “Fast Food Nation” in cui, incalzato dal direttore del Marketing di una grossa catena di fast food sulla presenza di batteri fecali negli hamburger, dice:

«Sai… penso che ci potrebbe essere un po’ di merda anche in questa carne. Soltanto una piccola quantità microscopica. […] C’è sempre stata merda nella carne. E probabilmente tu la mangi da una vita. Non sta succedendo niente di illegale, ricordati che la carne viene cotta e le griglie sono stata calibrate accuratamente per essere sicuri di uccidere ogni piccola parte di quella robaccia. […] basta cuocerla! È tutto quello che devi fare. […] La verità è dura da digerire: ma tutti noi dobbiamo mangiare la nostra dose di merda».

DISSAPORE.COM – Dalla parte di Murray

DISSAPORE.COM – Dalla parte di Murray

Il packaging da DDR dei prodotti a marchio e Don DeLillo.

birra1Al supermercato ci imbattemmo in Murray Jay Siskind. Nel suo cestino c’erano alimenti e bevande generici, tutti prodotti non di marca, avvolti in involucri comuni, bianchi, dalle etichette semplici. C’era una lattina bianca con la scritta PESCHE IN SCATOLA. C’era una busta bianca di prosciutto affumicato senza la finestrella in plastica per la vista di una fetta campione. Un barattolo di noccioline abbrustolite con un’etichetta sui cui si leggevano le parole NOCCIOLINE IRREGOLARI. Mentre li presentavo, Murray continuava ad annuire alla volta di Babette.

«È la nuova austerità, – disse. – Imballo insipido. Mi attrae. Mi sembra non soltanto di risparmiare i soldi, ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale. È come la Terza guerra mondiale. È tutto bianco. Ci porteranno via i colori per usarli nello sforzo bellico».

Fissava Babette negli occhi, estraendo alcuni articoli dal nostro carrello e annusandoli.

«Queste noccioline le ho già comprate. Sono rotonde, cubiche, butterate, grinzose. Noccioline rotte. Un sacco di polvere in fondo al barattolo. Però sono buone. Ma soprattutto mi piacciono gli imballi in sé. Avevi ragione, Jack. È l’ultima avanguardia. Coraggiose forme nuove. Capaci di scuoterti». DaRumore Biancodi Don DeLillo, 1985.

Il protagonista ed io narrante di Rumore Bianco, romanzo di Don DeLillo, è il fondatore del dipartimento di studi hitleriani in una piccola università nel Midwest degli Stati Uniti. Ha una moglie (la terza o la quarta) obesa ed un collega, Murray Jay Siskind, che si sta battendo per introdurre Elvis Presley come materia di studi del dipartimento di Cultura Popolare Americana.

Tutto è pop, in Rumore Bianco, persino la paura della morte che in un’epoca di consumismo sfrenato (erano i fulgidi anni Ottanta, baby…) può essere sconfitta acquistando ed ingerendo un pionieristico farmaco. Tant’è che buona parte del romanzo è ambientata in un supermercato.

Autoproduzione 2.0 – L’Unità 07/01/2013

Autoproduzione 2.0 – L’Unità 07/01/2013

Kickstarter non è l’unico. Come lui c’è Indigogo, Fundable, Crowdfunder o GreenUnite, per i progetti legati all’ecologia, oppure Appsfunder, per le applicazioni per smartphone e tablet. In Italia abbiamo Musicraiser, piattaforma specifica per band, etichette, organizzatori di eventi e per tutte quelle figure che ruotano attorno alla scena delle cinque note. Che nella musica, spesso, si ricorra all’autoproduzione non è una novità. La cultura del D.I.Y. (Do It Yourself) ha visto i suoi natali nella scena anarco-punk inglese grazie ai Crass, importata nel Belpaese da gruppi come i Kina, perpetuata e rivendicata fino ad oggi da Kalashnikov Collective e molti altri, è sempre stato un grido di battaglia ed una presa di posizione contro le major. Possiamo forse considerare queste piattaforme una forma evoluta del D.I.Y.? Siamo di fronte all’autoproduzione 2.0?

Autoproduzione: È febbre sul web. L’Unità – 7 Gennaio2013

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