1Q84 | Haruki Murakami

1Q84 | Haruki Murakami

[Articolo originale qui]

Un giorno di novembre del 1968 ha visto la luce il White Album dei Beatles, che si rivelerà il disco più venduto – e forse il migliore – della band di Liverpool. La copertina, dopo lo sfarzo caleidoscopico di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, è completamente bianca, se non fosse per il nome in rilievo visibile solo in controluce.

1Q84 di Murakami Haruki, per tanti e diversi motivi, può essere considerato il suo White Album. Quell’opera insomma, che sia un film per un regista, un album per una band o un libro per uno scrittore, capace di esprimere in tutta la sua complessità l’essenza stessa dell’artista. Qualcosa che può e dovrebbe essere fruito e conosciuto, senza paragoni o confronti con quello che c’è stato prima e che potrebbe venire dopo. Si potrebbe dunque parlare di 1Q84 senza doverlo confrontare con le produzioni passate dell’autore, aprendo però una piccola parentesi.
Molti lettori hanno conosciuto Murkami con Norwegian Wood / Tokyo Blues(titolo cangiante a seconda delle edizioni) e ne sono rimasti delusi. Sebbene sia uno dei suoi libri più conosciuti e letti, come scrive lo stesso Murakami, nell’introduzione dell’edizione italiana del 2006, edita da Einaudi e tradotta da Giorgio Amitrano, si tratta di un esperimento, una distrazione e un gioco (nonostante la gravosità del dramma esistenziale narrato) ricercato come forma di divagazione e/o smarrimento volontario dal suo romanzo-tipo. Una sorta di vacanza da se stesso, insomma, per cui sarebbe errato giudicare la sua intera produzione.
1Q84, del White Album, oltre all’importanza, dovrebbe condividerne anche la copertina: tutta bianca che riporta solo il nome dell’autore e il titolo dell’opera e niente più. Senza sinossi, riassunti o spiegazioni perché ogni informazione condivisa in modo così diretto ed esplicito, ci impedisce di scoprirla e di conquistarla, goccia dopo goccia, sapientemente distillata dallo stile a tratti ipnotico dello scrittore.

Leggere 1Q84 vuol dire farsi accompagnare da Murakami nel disvelamento di alcune (non tutte) delle numerose, intricate e a tratti spaventose questioni, che compongono questo mastodontico testo di oltre mille pagine nella sua interezza. Bisogna chiudere gli occhi, abbandonare ogni freno dettato dal raziocinio e tuffarsi in quel 1Q84, anno distopico, in cui tutto può accadere. Può succedere per esempio che sei piccoli omini che parlano in coro e cantano «hoo-hooo», nati dal cadavere di una capra in stato di decomposizione, costruiscano una crisalide d’aria per generare l’erede del leader spirituale di una misteriosa e potente setta di ex intellettuali, che si sono dati all’agricoltura biologica. Come è possibile concepire figli senza rapporti sessuali e che un esattore in pensione della NHK, l’emittente di Stato, continui il suo giro di riscossione del canone nonostante sia in coma. Un mondo, un universo parallelo, in cui in cielo brillano due lune e le civette danno saggi consigli.
Questi sono alcuni degli elementi satellitari di quella che è la storia principale. O meglio, le storie, perché la trama è scissa e procede come binari paralleli che sembrano destinati a non incontrarsi mai. I personaggi principali sono due: un uomo ed una donna di circa trent’anni. Il primo è Tengo, insegnante di matematica, aspirante scrittore, che accetta di riscrivere un romanzo di fantascienza scritto da un’enigmatica diciassettenne dislessica. E poi c’è Aomame.
Si parlava del White Album e del fatto che anche 1Q84 meriterebbe una copertina bianca e silenziosa, ma così non è stato. L’edizione italiana per i tipi di Einaudi, che consta di due libri, al contrario dei tre previsti nell’edizione giapponese (nella versione italiana i primi due sono raccolti in un unico volume), nella quarta di copertina riporta alcune semplici righe che ci dicono qualcosa. Ci dicono, per esempio, che Aomame è “spietata e fragile. È un killer che in minigonna e tacchi a spillo, con una tecnica micidiale ed impalpabile, vendica tutte le donne che subiscono violenza”. Informazioni che il lettore invece dovrebbe scoprire poco alla volta, scrutando nella stessa anima e nella storia personale della donna, dopo un’introduzione a tratti Lynchiana del personaggio.

Murakami infatti ci presenta Aomame lentamente e, senza fretta o impazienza, ne descrive le azioni apparentemente convenzionali, come prendere un taxi, rimanere imbottigliata nel traffico, aver paura di fare tardi e prendere una decisione avventata, fino a quando, con la stessa pacatezza, c’informa che custodisce un’arma letale nella borsetta. Tutto questo senza che il ritmo subisca scossoni o slanci tipici di chi vuole creare senzientemente un senso di suspance e mistero. Nessuno di quegli artifici insomma, atti a catturare l’attenzione del lettore. No, Murakami non smette mai, neanche nei momenti di massima tensione, anche a costo di innervosire il lettore con le sue descrizioni ultra-dettagliate e ripetute all’ossesso (il piccolo seno di Aomame, la testa deforme dell’investigatore privato Ushikawa, il sesso di Tengo, le piccole orecchie della giovane Fukaeri, la loro routine quotidiana…), di descrivere tutto con lentezza e parsimonia. Lento e ripetitivo come un pendolino che fa tutte le fermate senza frenate brusche o accelerazioni improvvise. A tratti meccanico, come le giornate dei due protagonisti, Tengo e Aomame, che conducono le loro vite come se stessero galleggiando nel liquido amniotico. Soli, senza amare o essere amati. Uccidono, fanno sesso e poi mangiano, lavorano, frequentano persone, senza mai vivere a pieno la loro esistenza.

Il contesto.

Tengo è il figlio di un esattore della NHK vedovo e Aomame appartiene ad una famiglia di religiosi fondamentalisti. I due, bambini, sono obbligati dai genitori a peregrinare di casa in casa per compiere la loro missione. Riscuotere il canone il primo, fare proselitismo la seconda. Entrambi si vergognano e hanno difficoltà ad integrarsi a scuola. Un giorno, dopo l’ennesima umiliazione subita dalla piccola Aomame, Tengo la difende e decide di proteggerla dalla ferocia e dalla crudeltà degli altri bambini. Da quel momento, tra i due, si stabilisce un legame eterno ed inviolabile che li accompagnerà per tutta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta, nonostante vengano separati dalle vicende della vita. Come due binari – è stato scritto – come due binari che sembrano destinati a non incontrarsi mai, fino a quando, in modo differente, i due entreranno senza accorgersene nel 1Q84, un 1984 alternativo, la cui Q rappresenta la Q di “question” (il 9 in giapponese si pronuncia “kyu”, come la Q in inglese) che è il nome attribuito dalla stessa Aomame, alla sua “condizione” nel momento in cui capisce di non essere più nel mondo che aveva sempre conosciuto. Tengo si ritroverà in quell’universo parallelo con due lune in cielo, nel momento in cui decide di riscrivere La crisalide d’aria, un romanzo scritto dalla giovane Fukaeri che si scoprirà essere la figlia del leader del Sakigake, una setta nata negli della contestazione giovanile e carica di segreti. Nel romanzo di Fukaeri si raccontano fatti apparentemente privi di senso, come la nascita dei misteriosi ed inquietanti Little People, dalla bocca di una capra in stato di decomposizione o della presenza di due lune in cielo: una grande e bianca simile a quella di sempre ed un’altra più piccola e verde che brilla di fianco alla prima. Ciò che Tengo scrive nel romanzo, poco alla volta, tende a sostituirsi con la realtà portando il lettore stesso, a perder il senso di ciò che è finzione e ciò che è finzione nella finzione. Nello stesso momento in cui Tengo riscrive La crisalide d’aria, Aomame viene attirata come da un magnete e catapultata nel 1Q84, e finirà per avere una parte fondamentale nella storia, quando le verrà chiesto di uccidere il Leader del Sakigake che si è macchiato dell’orribile crimine di violentare le figlie dei seguaci della setta.

1Q84 riesce ad essere un thriller, un libro di fantascienza, una storia d’amore ed un meta-romanzo senza però subire nessuna delle convenzioni dei differenti generi. D’altronde Murakami lo farà dire ad uno dei suoi personaggi, Tamaru, il “gorilla” omosessuale alle dipendenza dell’anziana signora che commissiona gli omicidi di Aomame, che Checov sbagliava nel dire che «se in un romanzo c’è una pistola, quella pistola deve sparare».
Rifiuto delle regole dunque, ed infatti tanti enigmi non verranno svelati e anche quando il lettore crede d’intuire un senso, questo verrà messo a dura prova, smontato e destrutturato dagli eventi stessi, lasciando tanti “perché” sospesi come pistole che non sparano e proiettili inesplosi. Prima di essere un libro, 1Q84 è una serie di universi. Ogni singolo personaggio meriterebbe un romanzo a sé. Grazie anche al suo stile ipnotico, riesce a far entrare a piedi pari in quel mondo tanto magico quanto inquietante. Al punto tale che, una volta terminata la lettura, ci si ritrovi con gli occhi verso il cielo a controllare che in alto non splendano effettivamente due lune.

LA COLLINA DEI CONIGLI

LA COLLINA DEI CONIGLI

 Everyone, everyone in these eyes I will witness the fall of Efafra I will witness, witness the fall 

(Last but not least, Owsla, Fall of Efafra)

[Articolo originale qui] Il primo ricordo che accomuna tutti i bambini ormai adulti che hanno visto La Collina dei Conigli, film di animazione di Martin Rosen del 1978, è il ricordo del sangue.Tratto dall’omonima opera letteraria – raro caso in cui il titolo italiano è forse migliore di quello originale (Watership Down) – di Richard Adams, del 1972, La Collina dei Conigli racconta la storia di un “branco di conigli protagonisti di una meravigliosa epopea della libertà”, come recita la copertina dell’edizione italiana (Rizzoli-Bur) del 1975. Sangue… Sangue che invade la conigliera da cui tutto parte, in una visione di Quintilio, coniglio preveggente e fratello del giovane Moscardo. Quintilio e Moscardo sono conigli “periferici”, in quanto plebei e minori di un anno di età che, per questa ragione per esempio, se trovano una primula durante la silflaia (il pascolo) devono cederla ai conigli dell’Ausla.
L’Ausla di una conigliera è costituita dagli esemplari che eccellono in determinati ambiti e che dettano legge sul resto del branco. Vi sono Capi Coniglio che preferiscono circondarsi di un’orda di guerrieri, altri che favoriscono gli impavidi esploratori e, altri ancora, che premiano gli astuti razziatori. Ma Quintilio è troppo giovane e poco influente per far sì che il Coniglio Capo gli dia ascolto e così, la sua orribile visione (la luce rossa del tramonto che diventa un lago di sangue sulla loro conigliera), rimane inascoltata. Solo il fratello e pochi altri conigli decideranno di seguire Quintilio nella sua fuga verso l’ignoto.

For Man came knocking at our doors, sank teeth within our home. In those quiet hours,where the elil ruled, the sky, the ground, our thoughts. We prayed for pity, but received none. We gasped for breath, But no breath came. Forgive us El-Ahrairah! Prophet of two faces. (For El-Ahraihrah To Cry, Elil)

Il loro viaggio, irto di pericoli, viene allietato dalle novelle di Dente di Leone grazie alle quali scopriamo la storia, il credo e le norme sociali di una conigliera. Scopriamo per esempio che Fritz, il dio di ogni cosa, aveva creato un mondo in cui gli animali erano tutti uguali tra loro e vivevano in pace ed armonia grazie all’abbondanza di cibo; ma fu proprio a causa dell’avidità, dell’arroganza e della prolificità della conigliera di El-Ahrairà (il primo coniglio) che Fritz decise di punirli rendendoli codardi e prede degli altri animali. «Ascolta El-Ahrairà . Il tuo popolo non potrà dominare il mondo intero, perché io non lo permetto. Tutto il mondo sarà vostro nemico. E chi ti catturerà, ti ammazzerà, Principe dai Mille Nemici.» 

Ecco così, che il peccato originale viene castigato ed ai conigli, che sanno contare fino a quattro dopodiché c’è un generico Hrair (molti ovvero mille), non spetta altro che ingegnarsi e difendersi dai Mille Nemici (Elil), quali volpi, gatti, rapaci, faine e soprattutto l’uomo. Interessante la descrizione delle “cose degli uomini” da parte dei conigli che, ignorando l’aspetto utilitaristico di strade, ponti e automobili li riconoscono per la loro difformità rispetto al contesto naturale (forme geometriche regolari, angoli retti e odori sintetici) e li descrivono per il loro impatto violento con l’ambiente in cui si collocano. Ecco dunque che l’automobile si chiamahrududù per via del rumore assordante che produce e la strada invece…

Sbucati dall’altra parte della fratta, Moscardo guardò stupito la strada asfaltata. Lì per lì gli fece l’effetto di un fiume: nera, liscia, dritta fra i suoi argini. Poi notò che era fatta di ghiaia e bitume, e vide un ragno che vi zampettava sopra. “Ma non è una cosa naturale” disse, annusando i forti e strani odori, di catrame, di benzina. “Che cos’é? Come c’è venuta qui?”. “È roba d’uomo” disse Parruccone. “La fanno apposta, e ci corrono sopra i hurddudù… più veloci di noi. E chi altri sennò potrebbero correre più svelti di noi?”  

Moscardo e gli altri, in cerca di una casa, incontreranno altri conigli. Ogni coniglio, in un certo senso, diventa manifesto di una precisa società e del posto (o ruolo) che decidiamo di assumere nella vita in quanto cittadini, lavoratori, schiavi, padroni, vittime o predatori, ma soprattutto qual è il costo, in termini di libertà, che siamo disposti a pagare in cambio di un apparente benessere e di una fantomatica sicurezza. 

A bastard son of a bastard god Stolen saviors of ancient tome Misshapen idols in manmade temples A bloodied hand across our mouths. And so we stand, ever waiting the end, eyes skyward, ever waiting the end (Beyond the veil, Elil) 

Nella conigliera di Primula Gialla, per esempio, non ci sono capi e tutti sono ben nutriti e in salute. Una società che rinnega gli antichi dèi (non credono in Fritz e nelle parabole di El-Ahrairà), composta da conigli uguali tra loro e liberi, che vivono in pace e hanno dimenticato – e rinnegato – l’arte dell’astuzia lapina e del combattimento. Una conigliera però, in cui non c’è memoria e non c’è “informazione”. Moscardo e gli altri scopriranno ben presto, che non è ammesso far domande, così come è sconsigliato chiedersi perché, l’uomo della fattoria vicina, si premuri di lasciare grandi quantità di cibo incustodito nei pressi delle tane. Primula Gialla e gli altri conigli convivono con l’uomo, ma qual è il prezzo da pagare per aver venduto la propria “anima”? Gli agi, il benessere, l’abbondanza di cibo esigono il loro sacrificio in sangue e quindi, poco importa se l’area della conigliera è crivellata di trappole per conigli che vengono ritualmente catturati per essere uccisi, scuoiati e mangiati. Ecco che così, nella società perfetta di Primula Gialla senza capi, conflitti e miseria, i conigli “spariscono”, ma nessuno si chiede dove essi siano. Una società ricca e apparentemente sicura, di conigli depressi e incapaci di autodeterminare la propria esistenza, in cui i deboli vengono sacrificati in nome del bene comune. Situazione analoga a quella dei conigli “domestici” imprigionati nella casa del fattore, che però non vengono macellati, in quanto adottati dalla giovane figlia dell’uomo. L’accettare di vivere in una gabbia dunque, di essere portati nel prato qualche ora al giorno (quando la bambina ha voglia di giocare con loro) e il non conoscere nulla all’infuori della propria prigionia, in cambio di cibo e protezione. Una dolce cattività, prima di tutto psicologica, che ricorda le gabbie emotive e relazionali di una società conformista in cui, troppo spesso, si vive il proprio ruolo all’interno della famiglia – fatta di affetti e imposizioni – come l’unica via possibile per approcciarsi al prossimo. Con annessa anche una piccola e forse un po’ scontata, riflessione sull’ipocrisia (o “dilemma” come direbbe qualcuno) che sta alla base della distinzione binaria tra animale domestico/animale da macellare, peluche/cibo dell’onnivoro. 

What animal separates this ape from that? The human animal; ignored and loathed by louse and lion. Reveal in our glory, in every brother is quarry. Butcher every life, until our land is stained and dead. From our towers we cry: «Every man shall bear a soul, a right that no other beast shall bear». And in the shadows the dogs shook their heads «shame upon those apes, pride comes before a fall» (A soul to bare, Owsla) 

Will you join my owsla?” (Simulacrum, Inlé)  

Ma è in Efrafa, la conigliera del Generale Vulneraria, che Richarda Adams descrive la peggiore società immaginabile. Una dittatura spietata e contro-natura in cui i conigli della plebe vengono marchiati e la cui vita – quando fare silflaia, quando fare hraka (defecare), con chi figliare – è vincolata dall’appartenenza a quella o quell’altra “marca”. La miseria della propria esistenza è accettata e giustificata dalla speranza dell’ascesa sociale.«Buona parte di loro non riescono a far altro che quello che gli dicono di fare. Non si sono mai allontanati da Efrafa, non hanno mai fiutato un nemico. L’unica aspirazione che hanno, è d’entrare nell’Ausla, per goderne i privilegi.»

We splinter the timber, stand over the general. The jabbering magnate, dethrowned and devoured. Dismember! Scour this mantle! We lingered far too long. Smelt the chains! Leave nothing unturned! We suffered far too long. (Woundwort, Inlé)

Una società in cui tutto ciò che è forestiero ed esterno rappresenta una minaccia, in cui gli hlessil (conigli selvaggi che non appartengono a nessuna conigliera) vengono catturati ed obbligati a vivere secondo le regole del Generale Vulneraria.

Peace is lost to us now, A fettered ideal. They are the warmongers And they will make our laws A paw will fall upon the weak They will mark the day (The fall of Efrafa, Owlsa)

Una società militare e sovraffollata in cui sono le femmine a pagare il prezzo più caro, schiave e vittime dei soprusi dei conigli dell’Ausla, che possono “farle proprie” a loro piacimento, per aumentare così la popolazione e il prestigio personale e di Efrafa tutta. “Un animale selvatico che senta di non aver più alcun motivo di vivere, arriva infine a un punto in cui le sue energie residue possono effettivamente orientarsi verso la morte. […] Ecco, adesso sentiva che la disperazione non era lontane da quelle coniglie.[…] Sapeva che gli effetti del sovraffollamento e relative tensioni si manifestano prima nelle femmine. Esse divengono sterili e aggressive. Ma siccome l’aggressività non approda a nulla, spesso quelle cominciano a scivolare verso l’unica via d’uscita.” Le coniglie di Efrafa, che “riassorbono i propri cuccioli prima di darli alla luce” – negando il proprio futuro e auto-sabotando la possibilità di sopravvivenza della specie- sono le prime a ribellarsi e a tentare una fuga che verrà repressa nel sangue. Moscardo e gli altri, venuti a conoscenza della condizione dei conigli di Efrafa, decideranno di combattere il Generale Vulneraria e di mettere fine alla sua dittatura, anche a costo di pagare con la propria vita.

Our hands are raised in unison. Brandished tools, branded skin. Cut away, like so much meat, we forged new scars against ill repute, we hold on tight to one another. I am legion for we are many. (Warren Of Snares, Inlé) 

La storia di Moscardo e della sua guerra contro la dittatura di Efrafa, ha senza dubbio ancora tanto da raccontare su noi stessi, prima di tutto. Un’epopea, una favola, un’opera di fantasia che fa riflettere e meditare sul fatto che non può esserci libertà né pace, per chi è privo di empatia e, vivendo nel conformismo e nell’indifferenza, non combatta e non faccia sua la lotta degli ultimi di questo pianeta.I Fall Of Efrafa, band dell’East Sussex, (come avrete capito!) ha dedicato a questa storia la trilogia “Warren Of Snares”, composta dagli album Owsla (Alerta Antifascista/Behind the Scenes/Fight For Your Mind – 2006), Elil (Alerta Antifascista/Behind the Scenes/Fight For Your Mind/Halo of Lies – 2007) e Inle (Halo of Lies/Denovali Records – 2009). Ah! Qui è possibile scaricare il capitolo del romanzo in cui Pungitopo, fuggito da Efrafa, descrive l’incubo della dittatura…

NON CHIEDERAI SCUSA

NON CHIEDERAI SCUSA

Da Lungidame #01

DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE

Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.

Foto di Silvia Polmonari

Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.

Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.  

Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.

L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.

“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir

Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?

E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!

“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.

Lei, Antichrist, Lars Von Trier

Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.  

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.

The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot

Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?

Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.

“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.

“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.

“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.

“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.

Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…

Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.

Ti chiameranno: furiosa.

PATRICIA AMA IL COBRA A SETTE TESTE!

PATRICIA AMA IL COBRA A SETTE TESTE!

Patty Hearst, John Waters e l’Esercito di Liberazione Simbionese…

[Articolo originale qui]

«Tutte le persone in stato d’arresto sembrano più belle. Il più brutto dei criminali sessuali e il più sgangherato dei tossici assumono un fascino particolare quando vengono ammanettati e trascinati al cospetto del pubblico americano affamato di crimine. Un nuovo criminale è l’evento più clamoroso di tutte le star dei media; è l’unico tipo di celebrità che può arrivare dalla mattina alla sera».


John Waters e Patty Hearst nel 1988.

[Valeria] Chi scrive è John Waters, il regista di Baltimora che da una manciata di decadi sfida la morale ed il presunto buon gusto dell’americano medio con i suoi film. La citazione è stata tratta da «Shock. L’autobiografia trasgressiva e irriverente del re del trash»; il libro che è uscito per la Lindau nel 2000, a quasi quindici anni di distanza dalla pubblicazione negli Usa per l’americana Delta.
«Shock» può essere definito come il diario personale di John Waters che, dagli anni Settanta, sembra aver sposato la causa dello scandalo a tutti i costi. Spesso riconosciuto con l’appellativo «the Pope of trash» (il Papa del trash), basta vedere i suoi primi film, per confermare e legittimare quest’insolita investitura.
Scritto in prima persona, ci si aspetterebbe – come in ogni autobiografia che si rispetti – che parta dall’infanzia, e invece no, perché John Waters decide di raccontare la sua vita a partire dalla realizzazione di Pink Flamingos, primo film di successo che lo ha consacrato come massimo esperto del cattivo gusto. Il film (uscito nel 1972), reca il sottotitolo «An exercise in bad taste» e passerà alla storia per alcune scene che è difficile descrivere senza scadere nella volgarità e nell’oscenità. Dalle contrazioni a tempo di “Surfing Bird” di uno sfintere ripreso in primo piano, fino all’orripilante scena cult di coprofagia di Divine, la protagonista, nonché musa del regista: una drag queen biondo platino di circa 150 chili che, nel film, lotta contro gli orribili coniugi Marble per aggiudicarsi il titolo di «persona più disgustosa del mondo».



Patricia Hearst durante la rapina alla Hiberna National Bank (1974).

Tra la narrazione della fase di produzione dei film (Pink Flamingos, Female Trouble, Desperate Living e Polyester), John Waters racconta i suoi ricordi e le sue ossessioni, in modo spontaneo e senza seguire una precisa cronologia. Racconta per esempio della sua passione morbosa per il crimine e i criminali, in un capitolo esilarante in cui descrive la fauna degli appassionati di cronaca nera che non si perdono un processo, tematica che tornerà sia in Female Trouble che nel blockbuster La Signora Ammazzatutti con Kathleen Turner (del 1994, presentato al 47° festival di Cannes).

Ed è qui che leggiamo per la prima volta un nome che non ci è nuovo: Patty Hearst, quella Patricia che ama il cobra a sette teste (simbolo dello SLA – l’Esercito di Liberazione Simbionese), anti-eroe tragico cantato in un pezzo contenuto in “Music is a gun loaded with future” dei Kalashnikov Collective.

Che l’odore dei morti e il dolore dei vivi
Li faccian vomitare
Patricia ama il cobra a sette teste!


«Riuscire ad avere un posto a sedere a un famoso processo è come intrufolarsi alla premiazione degli Oscar: richiede gran pazienza e organizzazione. Al processo di Patty Hearst centinaia di persone aspettarono per giorni nei sacchi a pelo fuori dall’aula di tribunale per poi scoprire che c’erano solo sei o sette posti disponibili per il pubblico.[…] I fan di Patty erano adirati e si rifiutarono di spostarsi, creando così una sorta di Woodstock del crimine. Cantarono “Buon compleanno” a Patty e mangiarono rumorosamnete una torta di compleanno che aveva preparato una groupie di Patty…»


John Waters racconta di aver avuto l’onore di ascoltare la testimonianza di Patricia Hearst e scrive:

«Dopo settimane di studio di foto ingannevoli dell’accusato sui giornali è sempre un’eccitazione vedere coi propri occhi il criminale in carne e ossa. Alcuni fan svengono come groupie impazziti di rockstar. […] Patty Hearst, comunque, fu sempre una delusione, con il suo aspetto così anonimo con le sue scarpe per bene e il suo vestiario da scuola privata: “Questa è Patty Hearst?” continuavo a pensare»


Ma chi è Patricia Campbell-Hearst? In un’America che oggigiorno dedica la copertina di Rolling Stone all’attentatore di Boston e a lettere capitali, scrive “THE BOMBER” e sottotitola “come un popolare e promettente studente, sia stato rovinato dalla sua famiglia e sia finito nell’islam radicale, diventando un mostro”, in un Paese con la più numerosa popolazione carceraria nel mondo (poco meno di ottocento persone in prigione per ogni centomila abitanti circa), in cui è sancito per costituzione il diritto ad essere armati… come si colloca la vicenda assurda, violenta e ipocrita di Patricia Hearst?
Patricia è una ricca ereditiera di diciannove anni, che porta il cognome di una delle più importanti famiglie a capo di un gruppo editoriale. Nel 1974 viene rapita dallo SLA – L’esercito di Liberazione Simbionese e viene tenuta prigioniera in una cabina armadio per diverse settimane, bendata e costretta a rapporti sessuali coi cuoi carcerieri che, dopo poco meno di tre mesi, dichiara: «Mi è stata data la scelta di essere rilasciata in una zona sicura o di unirmi alle forze dell’Esercito di Liberazione Simbionese per la mia libertà e la libertà di tutti i popoli oppressi. Ho scelto di restare e di lottare». Da allora inizia il suo percorso armato al fianco dello SLA, fatto di addestramenti durissimi, rapine in banca, furti d’auto, rapimenti, fughe e clandestinità.
La sua prigionia durò 591 giorni, al termine della quale venne processata, insieme ai tre superstiti dello SLA (sei ne vennero uccisi nel maggio del ’74) e condannati a 35 anni di reclusione. Patty venne difesa dallo stesso avvocato che diventerà poi famoso, per aver fatto assolvere il presunto uxoricidia O.J. Simpson.


L’Esercito di Liberazione Simbionese… in una foto promozionale del film “Patty – la vera storia di Patricia Hearst” (1988).

La tesi della difesa fu quella che Patricia, nonostante i video e le foto di lei con un fucile automatico al collo che rapinava l’Hibernia National Bank, fosse vittima di un lavaggio del cervello e soffrisse di un disordine da stress post-traumatico a causa del rapimento. Si parlò inoltre di sindrome di Stoccolma, dal momento in cui la Hearst s’innamorò di uno dei suoi rapitori e stupratori. L’avvocato, invocando una sfilza di periti illuminati, riuscì a provare persino che il QI di Patricia fosse passato da 130 a 109, facendo così ridurre la sua pena a 7 anni, che poi diventarono 22 mesi, per poi essere graziata dal presidente Jimmy Carter e ottenere definitivamente l’indulto da Ronald Reagan e Bill Clinton.


Patricia Hearst durante il processo.

Di quei 591 giorni in cui Patricia fu ostaggio e complice dello SLA, sono stati girati film, documentari e sono stati scritti numerosi libri, uno tra questi è Pastorale Rivoluzionaria di Christopher Sorrentino, uscito nel 2005 negli Stati Uniti col titolo “Trance”. Non siamo di certo di fronte ad un capolavoro della letteratura, ma è interessante ed utile per comprendere quale sia stato il percorso che ha portato la ricca e viziata Patricia Hearst (che per questioni legali diventa Alice Galton) a diventare quella donna in divisa, in posa davanti al serpente a sette teste con un fucile in mano, che è diventata un’icona al limite del pop, col nome di battaglia di Tania.
Innumerevoli sono i riferimenti di Sorrentino alla parte, al ruolo che, in un certo senso, Patty Hearst decise di interpretare in quella vicenda violenta e sconclusionata, dietro la cui macchina da presa c’erano uomini e donne fanatici e confusi. Il gergo è quello del mondo del cinema e dello spettacolo.

Lei ride, come da copione, e si toglie gli occhiali da sole. Né i rozzi travestimenti, né i pasti frugali, né la dura disciplina dell’addestramento hanno alterato un viso che ormai tutti conoscono. Scandendo le parole, dice: «Sono Tania Galton»
Lei sta per salire in macchina quando Yolanda le ricorda il copione…
Sembra la scena di un film muto…
Lei sente il brivido della fama.


Come le reginette di bellezza avide e ninfette del recente Spring Breakers di Harmony Korine, che intraprendono la via del crimine e della violenza, continuando a ripetersi “è come in un film, è come un videogioco“, ecco che anche la storia di Patricia Hearst nel romanzo di Sorrentino assume delle tinte ludiche e spettacolari, come se la rivoluzione dello SLA fosse prima di tutto, un copione scritto male. Un film assurdo e grottesco in cui la ricca ereditiera dà dei “luridi insetti fascisti” ai propri genitori, in cui rapina banche che appartengono ad amici di famiglia per poi essere graziata dal Presidente che l’ha vista crescere. Una storia che ha di per sé tutti gli elementi per essere spettacolarizzata. Ed è nelle parole di Guy, un cronista che si avvicina allo SLA per raccontare la storia di Tania (e rimediarci un contratto editoriale a sei zeri) che comprendiamo a pieno la fascinazione dell’americano medio per Tania / Patricia Hearst.

«Randi, avresti dovuto vederla durante il viaggio in macchina, quando abbiamo attraversato il Paese. Tutte le volte che vedeva un addetto dell’autostrada o un casellante lei diceva che bisognava farlo fuori perché era un servo del sistema. Se ne stava lì seduta a tracciare delle X sulle foto dei manager della finanza che comparivano suelle pagine di economia del giornale. Quella ragazza brava seduta accanto a me, con il suo accento impeccabile, non faceva che elencare le malefatte dei ricchi fascisti. Se è successo a lei può succedere a chiunque: ecco cosa ci vuole dire lo SLA. E puoi star certa che questo è un pezzo di storia. I posteri la ricorderanno se la principessa terrorista morirà qui, fra queste verdi colline. Ma sarà tutta un’altra musica se lei si arrenderà, se dirà “non facevo sul serio”, se collaborerà con la giustizia e si riprenderà il suo nome, i suoi milioni e il suo fidanzato coi baffetti. Se nel giro di venticinque anni si trasformerà in una madre di famiglia di Hillsborough che va al talk show di Dick Cavett a raccontare i suoi folli trascorsi di rivoluzionaria, allora quella sarà la storia degli annia Sessanta. L’unica vera storia.» 


Non a caso la stessa Patricia Hearst, dopo essersi sposata con la sua guardia del corpo e aver dato alla luce due figlie, intraprenderà una carriera da attrice lanciata proprio da John Waters. E il cerchio si chiude. Più o meno.

[Da un periodico dell’epoca: “Chi c’era dietro l’Esercito di Liberazione Simbionese? Lo SLA era stato forse creato e sviluppato con l’intento di collegare i gruppi di sinistra al terrorismo e alla violenza?”]
To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

[Articolo originale qui]

«Mio caro giovane amico» disse Mustafà Mond «la civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà o eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata come la nostra nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed eroico. Bisogna che le condizioni diventino profondamente instabili prima che l’occasione possa presentarsi. Dove ci sono guerre, dove ci sono giuramenti di fedeltà condivisi, dove ci sono tentazioni a cui resistere, oggetti d’amore per i quali combattere o da difendere, là certo la nobiltà e l’eroismo hanno un peso…» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

La verità ha il suono di uno schiaffo e si presenta come pelle verde e squamosa, sotto un travestimento ben riuscito. Il ricordo comune è quello di un segreto difficile da mandar giù, come ratti ingoiati ancora vivi e scalpitanti, dalla bella e spietata Diana e il suo make-up da top model. Un ricordo indelebile: quel volto sfregiato che svela un orribile rettile, con gli occhi rossi e le pupille a fessura. Per chi è stato bambino nei primi anni Ottanta, quello dei Visitors, è un incubo pop difficile da dimenticare. Ma è stato proprio il desiderio di esorcizzare quella paura infantile e/o la ricerca di una manciata di ore di puro intrattenimento trash e nostalgico, che hanno creato un’occasione di riflessione inaspettata. Tutto inizia con un reporter d’assalto che racconta una guerra. Una battaglia combattuta con armi convenzionali a cui siamo abituati: bombe, fucili, proiettili ed elicotteri militari. Ci sono vittime e ci sono carnefici. I due schieramenti sono ben evidenti. Ed è proprio lì, in tutto il suo mistico orrore, che si presenta per la prima volta l’immensa navicella spaziale dei visitatori. La prima di tante che andranno a proiettare un’ombra minacciosa sulle principali città del mondo. Eppure i Visitatori sono venuti in pace. La loro voce è fredda e metallica, ma parlano la nostra lingua. Parlano a noi. Uno per uno. In ogni angolo della Terra risuona il conto alla rovescia, verso l’alba di una nuova era o verso l’ultima alba che vedremo, pigola spaventata la tipica teenager americana che “non vuole morire senza averlo mai fatto”.Gli alieni hanno scelto nomi “terrestri” perché i loro sono troppo complicati da comprendere e memorizzare. Solo nomi di battesimo, semplici e comuni, senza cognome e senza titolo. Sono John, Peter e Diana. Come il nostro vicino di casa o il collega con cui ci si fuma una sigaretta prima di un turno in fabbrica. I Visitatori sono venuti da noi a causa del sovraffollamento del loro pianeta di origine.

Come può l’umanità far fronte al problema del rapido incremento demografico? Non molto bene. I fatti dimostrano che in quasi tutti i paesi sottosviluppati la sorte dell’individuo medio è considerevolmente peggiorata nell’ultimo mezzo secolo. La gente si nutre peggio. È diminuita la quantità di beni pro capite. E in pratica ogni tentativo di migliorare la situazione è andato a vuoto, per la pressione continua dell’incremento demografico. Ogni qual volta si fa precaria la vita economica d’una nazione, il governo centrale è costretto ad assumersi nuove responsabilità, per il benessere generale. Deve elaborare nuovi programmi per far fronte alla situazione critica; deve imporre nuove restrizioni alle attività dei soggetti; e se, come probabile, dal peggioramento delle condizioni economiche consegue agitazione politica, o ribellione aperta, il governo centrale deve intervenire, a tutela dell’ordine pubblico e della propria autorità. Ritorno Al Nuovo Mondo (Brave New World Revisited) Aldous Huxley, 1958

Le risorse del loro pianeta si stanno esaurendo, al contrario della Terra che ne è ricca. Scopriremo ben presto che quelle “risorse” non sono altro che acqua e carne. Siamo nel 1984 e risulta piuttosto inquietante – una sorta di oscuro presagio – il fatto che a distanza di trent’anni esatti, nella realtà, carne ed acqua siano effettivamente diventate delle emergenze ambientali e sociali. I Visitatori vogliono prosciugare le risorse idriche della Terra ed “importare” il bestiame, cioè l’uomo, per nutrirsene. Esaurite le risorse della Terra, invaderanno un altro pianeta. E così via… perché nonostante abbiano la consapevolezza che il loro tenore di vita sia ingestibile, distruttivo e parassitario, preferiscono aggredire, schiacciare e sfruttare l’”altro” piuttosto che rimettere in discussione loro stessi. 

 La Storia ha però insegnato – a questi grossi rettili antropomorfi – che nell’epoca moderna una guerra manifesta non è quasi mai la scelta migliore. Le guerre sono lunghe, costose e fiaccano gli animi dei cittadini già inquiete per la crisi. Il modo migliore per ottenere ciò che vogliono, è fare in modo che siano gli stessi uomini – l’anello debole del sistema Universo – a fabbricare le catene della propria schiavitù. Abbiamo detto che i Visitatori parlano la stessa lingua dei terrestri ed infatti promettono loro soldi, lavoro ed una cura per il cancro. In cambio prendono in gestione le fabbriche della Terra, scelgono una schiera di giornalisti come portavoce ed istituiscono il club de “Gli amici dei Visitatori”, una falange paramilitare a metà strada tra i Boy-Scout e la Gioventù Hitleriana. 

Hanno quattro dita e un pollice, condividiamo lo stesso percorso evolutivo, dice l’antropologo che comincia a farsi troppe domande sui Visitatori. L’uomo ha notato che hanno la pelle fredda, non mangiano cibo cotto, non vengono punti dalle zanzare e al loro passaggio fanno innervosire gli animali.Sembrano come noi, ma sono diversi. La loro è soltanto una maschera rassicurante,denuncia la biologa che raccoglie un campione della loro pelle “umana”… Spariranno nel nulla. Dall’oggi al domani. Prima nelle università, poi nei laboratori di ricerca ed infine persino i medici negli ospedali. Li prendono uno ad uno. Loro e la loro sconveniente predisposizione a farsi domande. Ma devono farlo  senza destare dissensi, perché il popolo deve continuare ad amarli. I Visitatori hanno bisogno di essere legittimati anche in ambito affettivo. E non c’è nulla come mostrare la propria debolezza per giustificare una presa di posizione autoritaria o un’aggressione violenta. Perché se ci sono delle vittime, ci sono dei cattivi. I giornalisti di regime urlano ai quattro venti che una fantomatica congiura degli scienziati minaccia la stabilità e la pace. Gli scienziati fanno diventare tristi i nostri amici Visitatori! I Visitatori sono buoni! Portano lavoro e portano progresso!Ingrati! Ecco così che gli uomini di scienza diventano detestabili e sconvenienti dal punto di vista sociale. Sono terroristi. Vanno segnalati e tenuti sotto controllo. Non vanno invitati alle feste. Vanno allontanati e disprezzati persino i parenti più stretti o i vicini di casa.

«Ogni cambiamento è una minaccia alla stabilità. Questa è un’altra ragione per cui siamo poco disposti a utilizzare nuove invenzioni. Ogni scoperta nel campo della scienza pura è sovversiva in potenza; anche la scienza deve essere trattata come un possibile nemico. Sì, anche la scienza.» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

È come nel ’38 a Berlino, dice il sopravvissuto all’Olocausto che ospita una famiglia di scienziati fuggiaschi. Li nasconde agli occhi di quel nipote buono a nulla, membro de “Gli amici dei visitatori”. Il ragazzo ha aderito in cambio di armi, una divisa e quel poco di potere, che usa per cercare di far sua la figlia vergine dello scienziato. Al rifiuto di lei segue la vendetta: la famiglia viene denunciata e deportata. Le guardie però, troveranno soltanto il vecchio con la kippah sul capo che intona un canto sacro. 

Insieme alla repressione, arriva la propaganda. Grandi manifesti che tappezzano le strade e che ritraggono i Visitatorisorridenti nelle loro divise ed una grossa scritta “OUR FRIENDS”. Faccio solo il mio lavoro, si difende la giornalista che fa da eco al volere degli invasori. Ho sentito questa frase decine e decine di volte durante il processo di Norimberga, la accusa un collega.E poi c’è la resistenza. Disorganizzata, raffazzonata e per nulla incisiva, ma c’è… e ha il volto di una vecchia che scaglia una molotov nella navicella del nemico. Ha il volto di una giovane leader pasionaria che deve decidere, minuto per minuto, quali saranno le sue azioni. Nessuno le ha spiegato come si fa… eppure lei prende il comando e guida la rivolta. Ed è in questa – qualcuno direbbe – epica ed eroica battaglia che scopriamo però quanta paura, quanta vigliaccheria e quante morti inutili può portare con sé la lotta all’oppressore. Persino in un telefilm degli anni Ottanta! Nessuno dei membri della resistenza è convinto di fare la cosa giusta. Nessuno si sente un eroe o parte di qualcosa di epico. La paura è tale da spingere uomini forti ed intelligenti ad atti vili e codardi. Nessuno ha la certezza che le proprie azioni, il proprio sacrificio o il correre dei rischi, avranno poi un’effettiva ripercussione positiva per la lotta… eppure vanno avanti, spinti da qualcosa che è difficile spiegare…

Viene per esempio, spontaneo chiedersi quanto “eroica” possa sentirsi quella giovane e bella ragazza, nel momento in cui sacrifica il proprio corpo e la propria sessualità, per estorcere informazioni sensibili al nemico reso vulnerabile a affabile durante il post-coitum. O quanta nobiltà ci sia nella crudele – ma utile – morte dell’anziana signora che viene uccisa come un cane in uno scantinato, durante un’azione di sabotaggio. Come c’è ben poco di poetico nel “terrorista di professione” che porta disciplina e tecnica, a quella che era una manciata di uomini e donne disperati. Eppure ogni singolo atto, nella sua confusione o nella sua miseria apparente, porterà gli uomini alla vittoria e alla libertà. Così, come tanti puntini collegati tra loro che conducono ad un disegno più ampio. Un disegno che il singolo individuo forse, non può comprendere nella sua interezza.E c’è quella frase… all’inizio di ogni puntata: 

All’eroismo dei combattenti della resistenza – passata, presente e futura – dedichiamo con rispetto questo lavoro. 

E quella V, rossa, dipinta con la vernice spray. La “V” della vittoria degli uomini liberi.

Morte ai lucertoloni!

L’anima dark di Renzo e Lucia

L’anima dark di Renzo e Lucia

Il giovane varesino Andrea Tomassini illustra il romanzo manzoniano per l’editore Curcio. «Ho puntato molto sul tratto per cercare di ricordare al lettore la tradizione della silografia»

«Ho conosciuto I Promessi Sposi per gioco» racconta Andrea Tommassini, giovane illustratore varesino, che ha prestato il suo tratto per una nuova edizione del romanzo più famoso di Alessandro Manzoni, per i tipi di Armando Curcio Editore. «Ero alle elementari e in televisione mandavano uno sceneggiato Rai con Alberto Sordi nei panni di Don Abbondio. Il giorno dopo la messa in onda, a scuola, la maestra ci leggeva i brani del romanzo e da subito, per me, quella storia, i suoi personaggi e i luoghi descritti, hanno avuto una forte connotazione visiva».

Era il 1989 e, solo un anno più tardi, il trio comico Marchesini, Lopez e Solenghi mise in scena un’esilarante parodia della travagliata vicenda di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. La storia la conosciamo tutti: studiata (e a volte mal tollerata) da generazioni e generazioni di studenti della scuola dell’obbligo. «Al liceo, si può dire che abbia subìto I Promessi Sposi, come tutti – confessa Andrea, laureato al Dams di Bologna e diplomato al Joe Kubert’s World of Cartooning – ma è stato all’Università che ho imparato a conoscere Alessandro Manzoni e ad apprezzarne il lato umano, soprattutto.

Da “L’anima dark di Renzo e Lucia”. Il Varesino 12/05/12

“Il tappeto rosso” Rolling Stone – Gennaio 2007

Rolling Stone Gennaio 2007

Lavanya Sankaran

IL TAPPETO ROSSO

Marcos y Marcos

Priyamavda vive negli Stai Uniti, i suoi genitori sono ricchi e integrati. Se non fosse per il colore della loro pelle, giureresti che sono americani. Priyamavda cerca le sue radici a Bangalore. Le trova in un dodicenne che accetta di diventare Bramino in cambio di un lettore cd. Ramu dopo una giovinezza all’insegna della promiscuità, si affida alla madre per cercare una buona moglie vergine. Il D’Costa sbircia i suoi vicini, una giovane coppia di professionisti. Lavorano entrambi nel campo dell’informatica. Loro sono moderni. Come moderna è la signora Chouhary: Raju è il suo autista e non tollera che la sera si faccia accompagnare al bar a bere con le sue amiche. Otto racconti indiani. Tre generazioni.

Valeria Brignani

“Bungee Jumping” Rolling Stone – Novembre 2006

Rolling Stone Novembre 2006

Gero Girglio

Bungee Jumping

Marsilio

Ci sono amori adolescenziali teneri e struggenti che ti si appiccicano addosso. Quante lacrime versate per Donnie Darko e la sua Gretchen. Quanta poesia nei due giovani amanti di American Beauty. La mani che si sfiorano e due infelici sempre fuori luogo s’incontrano per sentirsi a casa. Perché l’adolescenza è quel periodo stronzo, in cui ci si sente come “nell’attimo dell’esplosione di un kamikaze”. Sole vive giorni incolore in una città senza nome, fatta di “tane di animali della stessa specie”, popolata da persone senza originalità. Tutti uguali. Tranne uno. Tommy. Tommaso ne ha di merda da mandar giù. Tanta rabbia da riversare nelle sue rime. Rap-catarsi un po’ ridicola. Come si fa a vivere “con il nero che ti cresce dentro”? Tommy e Sole, con le caviglie bloccate a un elastico, si buttano giù, che è un po’ come morire. Si forano la pelle “perché bucarsi fa dormire il peccato”. Diventano traceur. Lo scopo del parkour è percorrere 5km in linea retta. Non importa cosa troverai davanti. Ogni ostacolo deve essere superato. Chi arriva primo vince, il secondo non esiste.

Valeria Brignani

“Indecision” Rolling Stone – Settembre 2006

Rolling Stone Settembre 2006

Benjamin Kunkel

INDECISION

Rizzoli

Dicono che la malattia del secolo sia l’insicurezza, che può portare all’abulia. Se ci metti ore a scegliere cosa ordinare al ristorante, se al supermercato ti paralizzi di fronte ai mille tipi di carta igienica, se usi una moneta per prendere decisioni importanti… Ecco. E’ probabile che tu soffra di abulia. Come Dwight, che ha 28 anni e una laurea in filosofia, che vive strascicando i piedi, sbadigliando e grattandosi i genitali. Scarabocchia su un blocchetto tutto ciò che vuol fare (e non fa). Le cose del mondo scivolano sul suo corpo peloso. Non-vive. Fino a quando in Ecuador, nella giungla, non decide di cogliere il frutto e abbandonare l’Eden. Quale frutto? Quello della consapevolezza del sé. Frutto amaro. Non ci sono scuse. Bisogna scegliere prima di tutto la vita.

Valeria Brignani

“Palazzo Yacoubian” Rolling Stone – Giugno 2006

 

Rolling Stone Giugno 2006

‘Ala Al-Aswani

PALAZZO YACOUBIAN

Feltrinelli

Palazzo Yacoubian è stato costruito negli anni Trenta da un architetto italiano. Si trova al Cairo, ma “Yacoubian” è scritto in eleganti caratteri occidentali. Dove venivano parcheggiate Buick e Rolls-Royce, oggi si allevano polli e conigli. Zaki al-Dusuqi è un vecchio sporcaccione che racconte barzellette sconce, ma un tempo era capace di far impazzire una donna con il tocco delle dita. Taha è figlio del portinaio, è devoto ad Allah, bravo a scuola e vuole fare lo sbirro, ma siamo in Egitto durante la prima guerra del golfo, i politici recitano la fatihà dopo aver accettato una tangente, e nelle università il gruppo degli studenti islamici chiama a sé i poveri e gli arrabbiati. Nel nome di allah si condanna l’amore tra Hatim, giornalista omosessuale, e Abdu, giovane soldato del sud. La Vergine Maria veglia sui loschi traffici di Malak, finto-sarto convertito al cristianesimo. ‘Ala Al Aswani entra in punta di piedi nelle stanze del palazzo. Origlia. Sbircia. Racconta con ironia una storia di decadenza, di debolezze e di cattiveria. Cinico, parla di quel dio che si manifesta “come la gente lo vede, cattivo con i cattivi e buono coni buoni”. Di chi crede in lui. Di chi lo teme. Di chi lo ignora. Di chi lo offende. Ma per fortuna c’è anche posto per l’amore. Inch’Allah…

Valeria Brignani