“EXPANSION OF THE MOMENT” di Narjes Ghorbani. Testi a cura di Valeria Brignani e Amin Zarif.

“EXPANSION OF THE MOMENT” di Narjes Ghorbani. Testi a cura di Valeria Brignani e Amin Zarif.

NARJES GHORBANI

Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amatoPittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.

Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.


LA BREVE VITA

Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.

SOGNI INFRANTI

Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.

ACCOGLIERE L’IMPERFEZIONE DI UNA MELA BACATA

Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.

LA RIVALSA DEI COLORI

Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.

NARJES GHORBANI

Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.

Dove c’è arte c’è speranza, ho pensato.

#apriamolestanzedibarbablù

#apriamolestanzedibarbablù

Non sono un’attrice, però leggere i post associati a #apriamolestanzedibarbablù un pochettino mi ha fatto riflettere su certi episodi che racconto ridendo e schernendo quegli sfigati morti di figa come:

Il tizio dell’associazione culturale che mi ritiene cosa sua per avermi “scoperto” come scrittrice e le sue piazzate perché ho scelto un editore romano che “non mi merita”. Mi chiamava tutti i giorni, più volte al giorno fino a quando ho smesso di rispondere al suo numero e ho smesso di frequentare quella cerchia.

L’intellettuale filantropo che mi porta in quello stesso bar in cui la protagonista del mio primo romanzo fa un pompino, offrendomi non so quanti giri di campari col bianco – ignaro della mia predisposizione agli eccessi – lodandomi su quanto fossi stata brava a scrivere quella scena così autentica. Badate bene che il mio primo romanzo, sebbene scritto in prima persona, non si tratta di un’autobiografia – cosa difficile da far comprendere se una donna scrive scene di sesso* nel suo libro, ma è facilissima da accettare se un uomo scrive di uccidere e stuprare, non cambiare mai la carta igienica quando finisce, rubare l’elemosina in chiesa e tirare i calci ai cani, per esempio. Ricordo che dopo non so quanti giri ho visto un amico che passava e mi sono defilata andandogli incontro e mollando lì, il ricco filantropo, il pisello barzotto e il conto da pagare.

Il tizio che “lavorava nel cinema” e mi ha dato appuntamento direttamente in albergo.

Quello che mi aveva invitato per un weekend a casa sua, per parlare del mio romanzo che aveva divorato.

E fino a qui non avevo ancora compiuto 24 anni.

Poi c’è stato il “se pubblicherai questo romanzo tutti quelli che lo leggeranno vorranno scoparti” [testuali parole], che un po’ di ansia te la fa venire perché pensi che lo possano leggere anche i tuoi cugini e tuo suocero e, dai, che schifo. O quello che mi ha dato appuntamento a casa sua e non aveva manco letto il mio manoscritto in cerca di editore.

E questo solo in ambito sessuale, perché c’è un’infinità di modi per essere abusanti – mi piace come scrivi, ma scrivi ciò che dico io – nel momento in cui hai un briciolo di potere e hai davanti una babba come me col suo libricino in mano e gli occhioni da cagna in cerca di approvazione.

Ed io ogni volta sguscio via, ci rido su, dico che schifo, che morti di figa, sfigati… Per fortuna che esiste il punk e chiudo una porta. Un po’ come il trono di Pollon in cui metteva una monetina ogni volta che faceva qualcosa di buono in attesa che il trono fosse abbastanza grande da diventare dea, ma al contrario. Ogni volta che mi avvicino al mondo dell’editoria perdo un pezzettino di quel sogno di fare la scrittora e mi dico per fortuna che c’è il punk.

Per fortuna che c’è il punk. Lunga vita al diy.

*nei miei libri (e non credo di essere molto originale in questo, eh) la gente mangia, si droga, fa sesso, cammina, respira, lavora, fa la spesa, va in treno, lava casa, va al pub, cucina… vive (e muore, a volte). Eppure in questo meraviglioso, ampissimo e variegato spettro di azioni e hobbys che costituiscono la vita stessa, il fatto che i personaggi abbiano una sessualità e che questa sessualità faccia parte del loro “viaggio” vi crea moltissimo imbarazzo se a scriverlo è una femmina, nevvero?

NIGLI

NIGLI

Piace tanto, oggigiorno, l’espressione “narrazione tossica” che si usa, spesso e volentieri, per mettere in discussione gli stereotipi legati ai ruoli di genere. Che sia quell’innato istinto alla maternità (o alla responsabilità genitoriale), che sia qualsiasi argomentazione che gravita attorno alle vittime di stupro, che sia la violenza maschile di giganti buoni che salutavano sempre fino a quando non hanno sterminato la famiglia a martellate per poi suicidarsi… Si parla di narrazione tossica, anche, quando si parla di disabilità, razzismo, culto dell’iper-lavoro e del sacrificio necessario per meritare un cicinin di dignità sul posto di lavoro, dopo aver completato il giro di boa degli stage, tirocini, contratti di apprendistato ecc. ecc. 

Si parla, insomma, di narrazione tossica ogni volta che vogliamo far sembrare bello, giusto e sacrosanto qualcosa che non lo è. Come per esempio i conigli. 

Secoli di disegnini pucciosi che ritraggono coniglietti morbidosi dalle lunghe orecchie e la coda a batuffolo. Candidi, teneri e buffi animaletti che saltellano elargendo gioia e sofficità ma la verità è decisamente diversa. I conigli sono cattivissimi! Territoriali. Violenti. Supponenti. Tracotanti ed arroganti. Non mi viene difficile immaginare perché Fritz abbiamo punito El-Ahrairà – il primo coniglio – rendendolo preda e principe dai mille nemici. Perché guardate questi due, per esempio… Mara Venier e Andrea Roncato al primo loro incontro. Teneri vero?

Mara Venier e Andrea Roncato al loro primo incontro

Eppure sono separati da una rete provvisoria (la plastica non basterebbe altrimenti, perché ci va l’acciaio per resistere a quei denti). Sono separati perché Andrea non è sterilizzato e cercherebbe di montare Mara Venier fino a farle male. Oppure Mara Venier potrebbe reagire piuttosto male e cercare a sua volta di montare simbolicamente Andrea Roncato, per sottometterlo, fino ad aprirgli la faccia o staccargli le orecchie con quelle unghie nate per scavare tunnel nella terra. 

E poi ci siamo noi. Non io e Satana nello specifico, che sicuramente abbiamo i nostri torti, intendo quel “noi” che comprende ognuno di noi nella vastità del tempo e dello spazio. Gli umani.

Mara Venier

Mara Venier arriva da uno stabulario ed era destinata ad essere una cavia per i nostri esperimenti e Andrea Roncato, invece, è nato ed è stato allevato in gabbia per finire in padella. E lo so che hanno un carattere di merda, sono animali difficili da gestire e dal concetto di salute opinabile… ma davvero non posso fare a meno di pensare a dove sarebbero loro altrimenti. A quello che hanno subito i loro fratelli e le loro sorelle. A quello che patiscono da infinite generazioni. 

E poi Andrea Roncato sembra quasi affettuoso. Ed è bellissimo. E, oddio, a guardarli in foto sono proprio teneri, nevvero?  

Andrea Roncato

NXVIM: una vagina per domarle, una vagina per trovarle, una vagina per ghermirle e nel buio incatenarle

NXVIM: una vagina per domarle, una vagina per trovarle, una vagina per ghermirle e nel buio incatenarle

Ho appena visto Seduced il documentario che racconta la storia della setta NXVIM con a capo il sedicente uomo più intelligente del mondo tant’è che è arrivato a marchiare delle donne con le sue inziali e a indottrinare lo sdoganamento di stupro e abusi su minori, addossando la colpa a chi “si sente” vittima. Se tu ti senti abusato è un tuo problema, non mio. Sei tu a non essere abbastanza forte per non viverti tutto questo da vittima. È la tua fragilità a creare l’abuso nella tua mente, non il mio esercizio di violenza, diceva, durante il suo Executive Success Program di auto-aiuto e crescita personale davanti ad un pubblico strapagante e adorante.

Prima riflessione

Che sia con la scusa dello Yoga Illuminante che arriva dall’India (vedi WILD WILD COUNTRY) o dello Yoga Sudaticcio Hollywoodiano (vedi BIKRAM: YOGI, GURU, PREDATOR) o che sia in nome di Cristo (vedi KEEP SWEET: PRAY AND OBEY) e tanti altri casi che non mi vengono in mente ora (vedi anche, in un certo senso, anche SANPA)… che diamine di problemi hanno i sociopatici, megalomani, mitomani con le donne? Sembra che queste persone abbiano costruito un impero di sopraffazione e violenza solo per scopare.

Scherzi a parte… a vedere certe cose è lampante come la sessualità delle donne perseveri ad essere una leva fortissima per ottenere il potere e mantenere il controllo. In queste dinamiche autoritarie e coercitive alle donne viene chiesto di scegliere tra sottomettersi o, sottomettendosi, essere allo stesso tempo le carnefici di altre donne. Anzi… si può dire che l’ingrato compito della violenza, spesso, venga appunto assegnato ad altre donne che lo perpetrano “nel nome del padre” da cui hanno ricevuto un osso. Come un’eco del potere maschile che acquisisce brutalità ogni volta che viene reiterato. Cosa che, ahimé, ho visto in ambienti che credevo sicuri, ma che “safe” non lo sono mai stati all’infuori degli slogan sui volantini.

Vuoi il potere e il controllo assoluto? Inibisci la sessualità femminile e metti le donne una contro l’altra inventandoti, magari, un’atavica attitudine e predisposizione tutta femminile all’invidia e alla competizione che, se non sbaglio, in realtà rappresenta un’esclusiva e un’eccezione nel regno animale in cui di solito sono i maschi a dover competere con piume colorate, balletti e ferocia.

Seconda riflessione

Sono ossessionata dalle sette perché so benissimo di avere la resistenza mentale di un lombrico e l’autodisciplina di una limaccia. Riesco ad essere dipendente anche dei giochini scemi sullo smartphone… So che, se dovessi avvicinarmi a qualcosa del genere, ci finirei dentro con tutte le zampe. E allora guardo – in modo ossessivo – tutto quello che ha a che fare con le sette e con le dinamiche che ti fottono il cervello, come per capire i trucchi e farmi gli anticorpi e, finalmente dopo anni e anni, ho capito che no, non mi potrà mai succedere perché… SONO POVERA.

Ortopunx

Ortopunx

Quella manifestazione di Natura semi-addomesticata formerly known as orto è prima di tutto un esercizio al desiderio. Passi un anno a desiderare cose sbagliate e super sexy come le fragole a dicembre nei supermercati ma ti astieni aspettando che arrivino le tue di fragole. Poi arrivano le fragole, tantissime, buonissime, tutte insieme, troppe. Da non sapere più che farsene. E non ti rimane che condividere e donare quest’abbondanza a chi hai intorno. Eppure quelle fragole (cetrioli, ciliegie, zucchini, pomodori…) sono sempre più di quante se ne possano mangiare in una stagione. Ma non riesci a farle andare a male perché ti ricordi di quel desiderio a cui ti sei astenuta per tutto il resto dell’anno.

Allora cerchi il modo di conservare quell’abbondanza e preservare quel piacere con confetture, sott’oli e barattolame vario – scongiurando il botulino – in attesa di quei tempi di assenza.

E niente, volevo dire che ho fatto questa marmellata con le nostre fragole e ci ho messo una banana dentro, perché era mezza marcia – sebbene quella che per noi è una banana marcia per altri è una banana matura e quella che per noi è una banana matura, per il resto di buona parte del mondo è una banana acerba – ed è buona in modo commovente perché, per sapore e consistenza, è come se stessi mangiando pane, burro e marmellata… ma senza burro! Giurin giuretta.

#ortopunx

Valeria Tummolo Brignani

Valeria Tummolo Brignani

Alla fine per comprendere cosa sia il privilegio di genere – a parità di classe sociale e colore della pelle – basta immaginarsi due persone che dormono insieme in un letto. Uno (o una) dei due russa prepotentemente, ma non lo sa. L’altro (o l’altra) deve decidere se far finta di niente e subire, usare dei tappi per le orecchie e ignorare il problema, oppure combattere a furia di calcetti sugli stinchi, via via sempre più aggressivi, emettendo buffi versi dal fine educativo – ma dal suono bizzarro – simile a ciò che m’immagino quando leggo a mente le parole con la desinenza alterata in x, u, schwa o asterischi.

Saranno piccole cose, certo, che tanti potranno reputare ridicole; i calci e i versi non sono il rimedio definitivo contro il russare. Non guariscono l’altro (o l’altra) da quel disturbo ma se si vuole dormire nello stesso letto, bisogna trovare il modo di non subire l’altrui russare anche combattendo, calcetto e versetto dopo calcetto e versetto, minuto per minuto…

Allo stesso tempo, però, è necessario comprendere che non bisogna sempre reagire con stizza, perché non c’è dolo in quel curioso fenomeno che generalmente colpisce gli uomini, ma da cui le donne non sono escluse, perché chi russa non sempre è consapevole di farlo. Ed è altresì doveroso capire e far capire che il sonno di una persona che russa, tra apnee, reflussi, gorgoglii e respiri cacofonici, non è un sonno riposante e sono essi stessi (o esse stesse) vittime del proprio russare.

Perché in ogni caso, se qualcuno russa, tutti dormono di merda.

Chiara Bautista
Buon viaggio Gallina Trinity

Buon viaggio Gallina Trinity

Vivere a stretto contatto con gli animali “da cortile” e recuperati da situazioni in cui la norma è crescerli per poi ucciderli per le loro carni, vuol dire vivere fianco a fianco con la merda, la malattia e la morte.

Animali fragili poiché non hanno mai dovuto trasmettere geni forti di generazione in generazione e, nel migliorare la propria specie, acquisire la capacità di sopravvivere a un banale raffreddore, per esempio.

A nessuno serve che questi animali siano resistenti e longevi. Neanche a loro stessi, dopotutto, serve far selezione naturale perché hanno difficilmente la sfortuna di invecchiare, come succede per cani e gatti per cui esiste un mercato della cura, invece.

Le galline devono fare le uova. Tante. Appena cala la loro produzione vengono uccise. Se si ammalano vengono uccise – imprecando – perché la carne non è più edibile e persino nella morte si sono rivelate inutili.

Il risultato è che non esiste una reale cultura del benessere di questi tirannosauri in miniatura, dallo sguardo vacuo, ma dalla forte personalità e dall’incredibile propensione alla distruzione. Beh, forse vorrei pure io attorno a me il caos e tiferei terrorismo, se fossi nata gallina ovaiola e non femmina dell’animale Uomo.

No, riformulo la frase. Partendo dal presupposto che persino io anelo al caos e alla distruzione, non oso immaginare quanta cieca furia possa esserci tra quelle zampacce unghiate di gallina ovaiola, per la vita di merda che fa.

Gallina Trinity è morta.

Mi sono svegliata una mattina ed era tutta arruffata nel suo nido da cui non voleva uscire. Dopo poche ore l’ho trovata morta con le zampe all’aria e il corpo rigido in una posa innaturale. Da un po’ di tempo non faceva più uova e ho passato le giornate a studiare le sue feci come fondi di tè, per capire se il suo corpo era abitato da pulci, vermi, acari o altri parassiti. Trovando pochissime informazioni in rete. Per non parlare dei forum di allevatori che credo abbiano una tastiera particolare con un tasto con su scritto “Facci il brodo”. Avrei dovuta portarla da uno dei pochi veterinari che ha a cuore la salute di questi palloni da football con le piume ma non ho fatto in tempo.

Ed io a Gallina Trinity le volevo bene, perché faceva il verso di un modem 56k, perché era tutta nera e si faceva tenere in braccio.

Buon viaggio Gallina Trinity. 🖤

Storia e fastidio: il G8 di Genova come la vodka al Melone.

Storia e fastidio: il G8 di Genova come la vodka al Melone.

Disegnino rubato da Google di Zerocalcare

Credo sia importante – lo è per me – rispettare questo rituale legato alla testimonianza. Perché mio padre me lo ricorda ogni anno. Oggi come allora è il suo compleanno e nel 2001 aveva chiesto ad una piccola Disagio di diciotto anni incazzata coi potenti della Terra, di non andare a Genova. Di farglielo come regalo. Ovviamente non lo ascoltai e il resto è storia.

Storia e fastidio nel vedere che a distanza di vent’anni persino i tiggì delle reti più paracule parlino con indignazione delle violenze delle Forze Armate, col musetto triste e che vergogna, buuuu, per le finte molotov piazzate per giustificare un massacro. Che schifo, signora mia! Che non accada mai più, mi raccomando!

Un fastidio paragonabile a quello dei lacrimogeni che abbiamo respirato e che mi hanno lasciato in dono un eritema che ricompare ogni volta che prendo il sole. Eppure sono stata così fortunata e non smetto mai di ripeterlo, sono stata fortunata, perché in quella scuola non ci abbiamo dormito.

Ma parlavo dell’eritema… di quell’eritema che da vent’anni mi viene se prendo il sole, ma sono fortunata – molto fortunata – perché è una fortuna che io odi il caldo, l’estate, la sabbia e la salsedine. le infradito e l’odore delle creme solari e odio il mare e odio Genova.

Le sue strade di asfalto che mi hanno massacrato i micropiedi, stretti – ovviamente – nei miei anfibi vecchia scuola numero 36 (con la punta di acciaio e il carrarmato rigido) durante quelle ore, ore e ore, di fuga interminabile sotto quel sole di Luglio. Ma siamo state fortunate, continuo a ripeterlo, siamo state davvero fortunate. Quella fortuna tipica degli ingenui che credevano davvero di poter cambiare le cose prima che fosse troppo tardi.

Fresche di maturità e allo sbaraglio tra le strade di Genova coi nostri zainetti senza limoni, maschere o DPI improvvisati, perché credevano in determinate robe: alcune di quelle cose in cui credevamo si sono dimostrate reali e altre, invece, delle giga-stronzate.

Tra quelle vere ci metto quella timida idea che, se le cose non fossero cambiate subito, per la nostra civiltà si sarebbe messa maluccio su tematiche dell’ordine di – come lo direbbero quei Tiggì di cui sopra col musetto allarmato, però – EMERGENZA TERRORISMO, EMERGENZA CLIMATICA, EMERGENZA MIGRANTI, EMERGENZA ECONOMICO-SANITARIA, EMERGENZA INTERSTELLARE, EMERGENZA ALIMENTARE, EMERGENZA CARTA IGIENICA, EMERGENZA WI-FI, EMERGENZA NON SI TROVANO PIÙ CAMERIERI, EMERGENZA CALDO, EMERGENZA LAVORO, EMERGENZA FREDDO, EMERGENZA TOMBINI, EMERGENZA SPAZZATURA, EMERGENZA RAZZISMO, EMERGENZA MORTI TRA I POMODORI, EMERGENZA MILLENIAL, EMERGENZA DELLA PICCOLA IMPRENDITORIA, EMERGENZA DELLA LOGISTICA… che noi, ecco, molto umilmente additavamo come conseguenze di una globalizzazione portata avanti secondo le logiche (sebbene ci sia ben poco di logico) del capitalismo.

C’è stato un momento, quel momento, in cui davvero si poteva evitare che qualsiasi merda di fenomeno diventasse un’EMERGENZA che richiede misure rigide, tempestive e spesso sbagliate e un cicinin liberticide. Chi mi restituisce la libertà di pulirmi le orecchie coi Cotton Fiok e bere un cocktail con una cannuccia, per esempio? Chi?!? Però in compenso possa mangiami un avocado intanto che un caporale ammazza di lavoro un migrante che raccoglie pomodori a qualche centinaio di chilometri da me. Vuoi mettere?

Tra le giga-stronzate a cui credevamo ci metto… c’è bisogno di dirlo? Mannaggia, mannaggia, mannaggia! Andavamo in giro facendo il mantello con la bandiera della pace, merda! Avevamo diciotto anni… Una non si ripiglia più da una così oscena e volgare manifestazione del potere. Come quando ti pigli in giovane età una sbronza di vodka al melone e non puoi più sentirne manco l’odore per il resto della tua vita. Ecco, a me il G8 di Genova e la fine del Movimento No Global mi ha lasciato quella nausea tipica delle brutte sbronze e, da allora, mi basta davvero poco per aver voglia di vomitare. Lo sento subito il puzzo che emana il potere e le sue dinamiche schifose e corrotte anche lì, dove meno te lo aspetti che il potere possa farsi abusante. E per questa cosa non c’è cura. Non è che basta non bere più vodka al Melone del discount e vivere come se nulla fosse, perché a me il G8 di Genova mi ha fatto diventare come gli astemi che dicono “non mi piace il sapore dell’alcol” perché quel sapore lo sentono ormai OVUNQUE.

Ed io questa cosa me la porto dentro da vent’anni. E credo davvero che la mia vita sarebbe stata un pochetto più semplice se esistesse una cura per questo brutto fastidio. Questa mia impossibilità di credere che ci sia un potere “buono”. Il male fisico che provo davanti alla perdita dell’empatia giustificata dall’appartenere o meno ad un ordine di cui si detiene il controllo… o lo si brama. Anche a costo di mentire davanti alle evidenza e inventare una realtà parallela e sci-fi (“Si stato tu, con il tuo sasso” dicevano. “Il proiettile è rimbalzato su un sasso lanciato da un manifestante” dicevano).

Beh, questa mia insana voglia di libertà, giustizia ed equità è incurabile davvero e, ora lo so, il contagio è avvenuto in quei giorni di Luglio del 2001 a Genova.

A Carlo Giuliani e a chi lo piange, come sempre. Come ogni anno, da vent’anni.

Non dite a mia mamma che io sono Wolverine, Aprile 2017

Non dite a mia mamma che io sono Wolverine, Aprile 2017

Don’t tell my mom è uno story show ideato da Matteo Caccia che, prima della pandemia, veniva ospitato dal Pinch sui Navigli a Milano, il primo lunedì di ogni mese. Le regole sono semplici: bisogna raccontare qualcosa di vero che non vorresti far sapere a tua madre, deve durare 5 minuti e non vale leggere.

Questo è il mio intervento di un lunedì sera di Aprile del 2016.

Non dite a mia madre che sono una pessima madre….

È dieci giorni che manca la mia adorata gattina di nome Ombra. Ed ogni volta che sento un rumore penso sia lei che è tornata e mi viene un infartino. Abito al piano terra e può entrare ed uscire quando vuole, perché ho deciso che fosse giusto favorire la sua autodeterminazione. La gattaiola simbolo della sua capacità di scegliere con chi e dove vuole vivere. Il fatto che sparisca spesso e volentieri per giorni e giorni, mi fa pensare di non essere la madre migliore del mondo. Sono quel tipo di madre troppo libertaria e troppo poco autorevole forse. E infatti, se non fosse sterilizzata, sarei contenta di sapere che va in giro a copulare e a fare strage di cuori… perché è bellissima. Ma non è così, lei va in giro perché le ho permesso di essere indomita e selvatica. 


Fatto sta che ho capito – ogni volta che sento un rumore e penso che sia lei – quel meccanismo delle madri che prendono a schiaffi i figli che attraversano a cazzo la strada. Ora comprendo gli occhi di rancore e giubilo di mia madre, che mi accoglieva sveglia in salotto quando tornavo da adolescente a notte fonda barcollando o vomitando perché avevo preso freddo. 

È che io ci credo proprio a questa cosa dell’autodeterminazione. E così come non voglio che la paura mi imponga di imbrigliare la mia indomita gattina, così non voglio che la paura mi impedisca di uscire da sola, far tardi e prendere i mezzi pubblici di notte.

Da sola.

Ubriaca la maggior parte delle volte.

Il problema principale del prendere i mezzi pubblici di notte, da sola e ubriaca per tornare in quel di Tradate in provincia di Varese, da Milano.. è che a causa dell’industria automobilistica e dei poteri forti legati all’industria petrolifera, i mezzi pubblici fanno letteralmente cagare – e non uso questa espressione a caso –  e l’ultimo treno è intorno alle 22 che mi porta però fino a Saronno e da lì prendere il bus sostitutivo che fa tutta la provinciale e tutte le fermate della linea ferroviaria. Dopo mezzanotte non ne parliamo… Perché non c’è neanche più il treno fino a Saronno e il bus parte direttamente da Milano Cadorna, per due ore di terrore o noia suprema a seconda di chi sono i miei compagni di viaggio

Una breve parentesi. Mi chiamo Valeria Disagio perché quando lavoravo nel sociale a contatto con parecchi casi umani, dovevo “censirli”, ma sebbene nei moduli che dovevo compilare ci fosse spazio per il nome e il cognome, per questione di privacy non potevo mettere il cognome e così pensando che i miei superiori non avessero gradito se io avessi scritto… che ne so… Matteo il tossico, Federico l’ubriacone o Paola la ritardata… ho optato per un generico e giornalistico “disagio”. Quindi c’era Matteo Disagio, Federico Disagio e Paola Disagio. La cosa fece molto ridere i miei capi che da allora mi chiamarono così, anche per altro motivazioni che non sto qui a spiegarvi… Ma tutti possono essere Disagio.  Un ragionamento analogo l’ho fatto per i miei compagni di viaggio del bus sostitutivo notturno.

Perché non è la nazionalità o il livello di istruzione che fanno l’emarginato. Non importa se proviene da un Paese più o meno maschilista o più o meno alcolista o più o meno devastato dalla guerra… ciò che ti rende un emarginato è il sacchetto.

Fate attenzione. Avete presente quei sacchetti enormi fatti di concentrato di petrolio purissimo, bianchi o azzurri, senza logo? Non li producono dall’86 probabilmente e non ho davvero idea di dove li recuperino. Fatto sta che se vedete uno con un sacchetto gigante, di notte, su un bus sostitutivo notturno, compatitelo o temetelo. Ed è di una gang di sacchettini, sacchettesi, sacchettari…. Non so come definirli… che vi voglio raccontare.

Perché una bella notte in cui tranquilla sedevo sul mio bus sostitutivo, mi sono imbattuta in un gruppo di 5 sacchettesi giovani e alle prime sbronze. Elemento che incrementa in modo esponenziale il fattore coglionaggine. Dico che sono giovani e alle loro prime sbronze perché bevevano Keglevich alla fragola. E chiunque abbia uno stomaco sa benissimo che non è possibile sbronzarsi per più di una volta per generazione con la Keglevich alla fragola.

Ad un certo punto però, i nostri sacchettari al gusto fragola e vomito, mi notano e cominciano ad avvicinarsi. Ed io dentro di me maledico quella mia stronzissima fissazione per l’autodeterminazione che mi ha portato da sola, di notte, su un bus sostitutivo notturno e ripasso come un mantra le tre tesi dell’autodifesa femminista.

Artist: Jenn Woodall

Sì, perché ho una bottiglia di birra in mano e penso che potrei difendermi spaccandola e puntandola alla giugulare, ma no…

Le tue stesse armi possono essere usate contro te stessa

Il manuale di autodifesa femminista sconsiglia l’uso di armi, perché è più facile essere disarmate prima di riuscire ad usarle. Non è proprio da tutti spaccare una bottiglia e puntarla alla gola di qualcuno. Metto via la bottiglia nella borsa sperando che non l’abbiano notata e vedo una cosa che mi ricorda la seconda tesi del manuale di autodifesa femminista.

Tu sei l’arma

Per questo s’intende che un “NO” risoluto o una determinata postura possono essere sufficienti a volte per scoraggiare un’aggressione. Io però non sono troppo lucida e penso che il mio corpo sia per davvero un’arma e comincio a ripetere “sono un’arma, sono un’arma… le mie mani sono un’arma… le mie mani hanno gli artigli… si io sono un mutante… sì, cazzo… io sono Wolverine” e infatti prendo le mie chiavi di casa, infilo ogni chiave tra le dita e così divento Wolverine. O almeno credo. Ma le chiavi strette così in mano fanno un male boia e no, non credo di riuscire ad artigliare qualcuno che le chiavi della cassetta della posta. Allora penso alla terza tesi, la più estrema: è statisticamente provato che delle donne si siano salvate da un’aggressione rendendosi sgradevoli e non appetibili – passatemi il termine sebbene il concetto in sé faccia davvero schifo – dal punto di vista sessuale.

CERCA DI FAR SCHIFO AL C***O

E allora eccomi lì, un minuto prima ero Wolverine e il minuto dopo sono pronta ad alzare le braccia al cielo e urlare “Ho la candida e prude da morire” o nel caso più estremo farmi la cacca addosso. Ma per fortuna i sacchettesi sono scesi alla fermata prima della mia. Io sono tornata a casa ho controllato che la mia gatta fosse dentro e ho chiuso la gattaiola. Perché il mondo è quel posto orribile in cui una donna deve essere disposata a farsi la pipì addosso per poter girare da sola.

E niente… non dite a mia mamma che io sono Wolverine. 

EDIT: ho smesso di prendere il bus sostitutivo notturno da anni, ma in compenso sono stata scippata da una gang di teenagerz, in pieno giorno, in treno.

EDIT 2: Ombra, la mia gattina, ha deciso di non tornare più. Mi piace credere che abbia trovato una coinquilina più attenta e premurosa di me. A lei avevo dedicato questo.

ANTEBELLUM: che genere di potere?

ANTEBELLUM: che genere di potere?

Sarà come camminare su travi scricchiolanti senza far rumore – come fa la protagonista grazie alle sue lezioni private di Yoga – poter scrivere di questo horror socio-psicologico senza svelare uno dei pochi colpi di scena che sia riuscito a sorprendermi, da un bel po’ di tempo a questa parte, in ambito cinematografico. (p.s. NON guardate il trailer)

Il film in questione è Antebellum e, per quanto assurdo possa suonarvi, per parlare di questo devo prima parlare del remake in chiave femminile di Ghostbusters.

No, We cannot…porcocazzo

No, perché la mia è proprio una vita di merda. Era un normalissimo venerdì sera in pieno lockdown e avevo voglia di vedere un film leggero con quel cicinin di nostalgia dei tempi che furono, ma mi sono ritrovata ad incazzarmi come una jena con le mestruazioni perché, se l’empowerment delle donne in versione hollywoodiana, deve essere il racconto di donne potenti che fanno battute rozze e uomini etero macchietta, belli e stupidi, di mero contorno e allora no, porca merda, qua non andiamo da nessuna parte. Perché non si tratta di prendere il loro posto ma di “una vita radicalmente diversa. Braaah. Braaaah” (cit.)

“Si tratta di capire che la vita, che il capitalismo troppo spesso ci porta a maledire, può essere bella … e che il programma della lotta che abbiamo intrapreso non è per una vita migliore, ma per una vita radicalmente diversa”.

Quel potere, come lucidamente raccontato nel romanzo “Ragazze elettriche” (titolo originale “The power”, putacaso) di Naomi Alderman ed edito dalla nottetempo, fa schifo a prescindere. E io volevo solo passare qualche ora di spensieratezza, diocristo. Ma tornando ad Antebellum e all’idea di una vita radicalmente diversa di Contrasto HC-memoria, è vero che ci siamo riempiti il giubbotto di spille, ci siamo riempiti la bocca di slogan, abbiamo imparato a dire Senatora o a usare l’asterisco, la “u” o la ə per un linguaggio più inclusivo. La settimana vegana controvoglia e lo spazzolino di bamboo fabbricato nella medesima azienda che divide la sua linea di produzione con il brand sensibilone per consumatori sensibili (e abbienti) e il brand che salva il profitto e distrugge il pianeta, per il restante 99% della popolazione. Siamo dotte, siamo politicamente impegnate, siamo sexy ma fedeli e attente a tenere sempre viva la fiamma della passione (che è comunque quel focolare, ma in versione socialmente accettabile). Facciamo yoga per scacciare i cattivi pensieri e imparare a stare in equilibrio sui sensi di colpa del tempo che togliamo ai nostri figli, alla carriera, a noi stesse e piangiamo da sole per nascondere una fragilità che non è più accettabile. Ci scusiamo con le amiche se abbiamo una giornata “no”. Siamo sempre pronte a sdrammatizzare tutto (il dolore, il senso di fallimento, il lento stillicidio quotidiano di micro-lotte per l’affermazione di noi stesse e dei torti abitudinari, il decadimento dei corpi, l’appassire dei sogni e le ambizioni) come la sapiente arte di friggere tutto per nobilitare anche la più insulsa delle verdurine anemiche. Eppure, eccoti, raggiante su un palco a dire che NOI siamo il futuro, davanti a uomini e donne che non possono far altro che applaudire e incoraggiarti perché tu sei una donna nera negli Stati Uniti d’America nell’epoca di Trump, perché il patriarcato è morto e lo sappiamo perché su Netflix in ogni serie ogni minoranza è sapientemente rappresentata e narrata senza – ovviamente – accennare lievemente il fatto che no, non è così semplice e spontaneo essere un teenager gay di colore in un paesino di provincia, non lo è nemmeno essere una madre lesbica di colore nella medesima cittadina di provincia – come ci vogliono raccontare in Sex Education in cui l’unica vera discriminata, guarda caso, è la povera (ma figa) che vive nella roulotte – ed io per te, donna afroamericana, a mo’ di parziale (seppur iniquo) risarcimento di quello che hai subito e subisci, dico che sia giusto cancellare Via Col Vento dal palinsesto perché è razzista e persino quella puntata di Mad Men in cui il protagonista si dipinge la faccia di nero perché è offensivo. Tutto questo perché il razzismo è una cosa brutta, no? Lo sanno tutti. Il razzismo appartiene alla storia. Il patriarcato è morto. Così come è morta quella docilità che ha reso schiave e schiavi fino a…

Antebellum si apre con una frase di Faulkner che dice: «Il passato non muore mai. Non è neanche passato» ed una delle primissime battute della protagonista recita: “Le cose non sono come quelle che sembrano“.

Non sarà la verità edulcorata e raggiante del politicamente corretto à la Netflix, non sarà il nostro successo legittimato da una audience compiacente venuta lì perché crede in quello che diciamo, perché vuole sentirsi dire quello che raccontiamo, non sarà il chiuderci in cerchi sempre più concentrici e autoreferenziali in cui tutti pensano, agiscono e vivono allo stesso modo, non sarà il rifugiarci in un universo parallelo in cui noi – grazie alla ricchezza e alla nostra posizione sociale – possiamo permetterci di agire come chi ci ha oppresso e rivendicare che noi beviamo solo champagne e la vodka al mirtillo è da miserabili, molestare l’autista di Uber perché è un gran bel figo scopabilissimo, trattare male la cameriera perché ci mette in un tavolo di merda troppo vicino al cesso del migliore ristorante della metropoli, a proteggerci o salvare noi stesse e il mondo intero dagli abusi di potere e i meccanismi malati delle gerarchie, perché ci sarà sempre una receptionist che ti tratterà di merda perché sei nera. Così come ci sarà una donna nera ricca che tratterà di merda un cameriere bianco. E ci sarà quel cameriere bianco che tratterà di merda un disoccupato. E quel disoccupato che odierà così tenacemente tutto questo che egli stesso cercherà di creare la sua isola felice dove i neri sono negri e schiavi, le donne o sono mogli o puttane – ma comunque inferiori – e lui bianco, maschio, eterosessuale non è secondo a nessuno.

Se cito Israele, il sionismo e la questione palestinese, piscio fuori? Chiedo per un amico. 

Ma tu che razza di donna sei?” urla la protagonista, alla sua carnefice, in quel campo di cotone in cui è schiava. Che razza di donna sei, se permetti agli uomini di violentare, picchiare e uccidere altre donne. Tu, che per loro sei comunque inferiore eppure gregaria e complice della gerarchia e del potere, in tutto il tuo “donnismo” alla Alpha Woman?

Niente è come sembra in Antebellum. Esiste la narrazione della realtà ed esiste un piano alternativo e parallelo in cui il bianco e nero è ben distinto e non ci sono arcobaleni che celebrano l’uguaglianza e l’inclusività di chicchessia. La lotta è sempre e solo una. Quella contro il potere, indipendentemente dalla casacca che l’oppressore decide di indossare.

No, non indossare la giubba dell’oppressore, amica. Manco se fa freschino, MAI.

Mi viene in mente quel buffo MEME che inizia con “Bill fa questo e Bill non fa necessariamente questo. Sii intelligente. Sii come Bill”. Dopo la visione di Antebellum mi viene da dire “Non essere come Veronica e le sue amiche. Non indossare quella giubba.” Il potere fa schifo SEMPRE. Ah, anche il capitalismo… quello fa cagarissimo perché libera dall’oppressione rendendo oppressori. E fin tanto che non sovvertiremo questo potere e le sue dinamiche, tutto ci potrà essere portato via in qualsiasi momento. O un pochino per volta come il lavoro, i soldi sul con conto in banca, la propria identità (come in Handmaid’s Tale di Margaret Atwood), anche nel più lucido dei sogni “pay per view” in cui crediamo di essere liberi. Veronica, senza i suoi soldi e la sua posizione sociale, non è nulla di più che una schiava, esattamente come lo erano i suoi avi.