The savage mutilation of the human race is set on course
It is up to us to change that
Protest and survive
«DeeDee, vieni qui,
beviamo insieme e ascoltami: ora ti racconto una barzelletta»
«Una barzelletta?»Mi
chiedi con quegli occhi bestiali che come spilli inchiodano la tua faccia da
bambina al muro di cemento alle tue spalle.
«Sì, una barzelletta. La barzelletta dello sciamano e della stirpe dei
boschi» Ti rispondo io, in questo dialogo che non è mai avvenuto perché ci sono
alcune cose che non sono mai riuscita a dirti.
In un paese lontano-lontano vi era una profondissima gola che era stata
scavata da un piccolo torrente. Quel torrente doveva essere stato un fiume
rigoglioso di pesci e libellule un tempo. Persino i cervi, le volpi e i corvi
andavano a bere quelle sue acque insorgenti, ma poi erano arrivati i Primi
Uomini e lì si erano insediati perché il fiume e i boschi davano loro di che
mangiare e scaldarsi in inverno. Ad Est e Ovest del fiume c’erano due colline:
i Primi Uomini decisero di insediarsi su quella occidentale e di mantenere
selvaggia l’altra, per avere sempre legna da ardere e bestie da ammazzare per
le loro carni e le loro pelli. Ma è inutile che ti racconti dell’avidità
dell’uomo e della violenza dello sviluppo senza progresso. Superfluo che ti
racconti che quel fiume sia diventato un torrente e che ne’ alci, lupi o linci
popolavano più quei boschi all’epoca di questa barzelletta, perché in quel
tempo sulla collina d’Occidente giaceva ossuta e vacua la carcassa di quella
che un tempo era la città dei Primi Uomini. Dall’altra parte, invece, un bosco
che a fatica cercava di riconquistare il suo regno.
In verità la città non era disabitata, sebbene lo sembrasse, poiché sulla
cima si diceva abitasse un vecchio saggio di mille e passa anni. Ne aveva visti
di uomini e donne arrivare sulla collina Est, tagliare gli alberi per erigere
delle capanne e sognare il risorgimento di una nuova umanità nella valle.
Eppure pescavano dal fiume ormai radioattivo solo alghe e mitili deformi, il
freddo li faceva ammalare e far diventare di cattivo umore. Chi sopravviveva
all’inverno non osava sfidarne ancora la misericordia e abbandonava quelle
terre. La collina Ovest e la derelitta città dei Primi Uomini? Troppo ostile e
spettrale per pensare di stabilirvici. Le facciate delle case mostravano come
in un ringhio le putrelle arrugginite del cemento armato. Tutto ciò che poteva
essere bruciato era stato arso e continuava a crepitare in un grande braciere
al centro del rifugio dell’antico saggio: una vecchia cisterna sotterranea di
quello che doveva essere stato il centro di stoccaggio di combustibili fossili
della città. Dal suo tetto tormentato ne usciva un fumo denso e nero che faceva
lacrimare e tossire ad avvicinarsi troppo.
Un giorno come tanti arrivò l’ennesima stirpe di disperati, l’ultima di una
lunghissima sequenza di gente scappata dalla metropoli sotto assedio, che non
aveva nulla da perdere o che aveva perso tutto. Sapevano di quanto potesse
essere spietato lì l’inverno; così decisero di fare una bella scorta di legno.
L’avrebbero fatta ardere nel grosso focolare al centro del capanno di Eternit e
vecchi cartelloni pubblicitari, che avevano raccolto dal letto del fiume ormai
quasi prosciugato.
Quel fuoco non passò inosservato.
Iniziarono gli uomini in buona salute, i più forti. Colpo di accetta dopo
colpo di accetta ne accatastarono così tanta che non potevano più impilare un
tronco sull’altro senza farli rotolare rovinosamente a terra. Ma temevano che
non sarebbe stata abbastanza. Bisognava prepararsi al peggio e così decisero di
consultare lo sciamano dall’altra parte della valle. Lui è un saggio e ha
superato mille inverni, pensavano. Potrà e vorrà di certo aiutarci.
E così quello che veniva definito da tutti il capo (per anzianità, forza
e solidità dei suoi legami) percorse il colle fino al torrente, lo guadò e ne
uscì ricoperto da una grigia melma maleodorante. Si arrampicò fino alla città e
proseguì verso l’origine di quel fumo nero e tossico. Scoprì che lo sciamano,
il vecchio saggio, non era solo. Altri uomini e donne sedevano attorno ad un
fuoco. L’uomo venne accolto con una certa diffidenza. Sebbene il loro tempio
cadesse a pezzi, sembravano tutti impegnati e concentrati in qualcosa di severo
e importante che a quanto pare, doveva essere più urgente di aggiustare ciò che
era rotto… come quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le
colonne portanti. Quegli uomini e quelle donne non alzavano la testa dalle viti,
dai bulloni, dagli stracci e i chiodi arrugginiti con cui stavano costruendo
armi e scudi per difendersi da nemici i cui sguardi nessun occhio aveva mai
incrociato.
Il vecchio saggio acconsentì a conceder loro udienza, offrendogli un
bicchiere di liquore distillato dalla cenere e l’inchiostro.
Sono qui, vecchio saggio che abiti la valle da oltre mille anni, per sapere
se sopravviverò a questo inverno. Gli chiese con grande timore l’uomo del bosco.
L’inverno sarà rigido e lungo, forestiero. E i nostri nemici sono alle
porte. Rispose e lo congedò
senza permettergli di controbattere o fare altre domande. L’assemblea dei
saggi ha parlato, vai ora… ruggì.
L’uomo del bosco tornò sui suoi passi e crollò esausto nella sua branda col
terrore di perire per il freddo che di certo sarebbe arrivato. Forse quella
sarebbe stata la sua ultima notte nel regno dei viventi. Il freddo o la
violenza dei bruti avrebbe messo fine alla sua esistenza? Chi erano questi
nemici? Se per i discendenti dei Primi Uomini era più importante assemblare
armi anziché coltivare la terra o aggiustare il tempio, dovevano essere
temibilissimi. Pensò ai suoi simili, alla sua famiglia che lo aveva seguito e
che si fidava ciecamente di lui, si chiese come confessargli che forse non
avrebbero superato l’inverno, ma fu ancora la luce dell’autunno a svegliarlo il
giorno dopo. Un autunno caldo a dir la verità, come non se ne ricordava da
molto tempo… ma lo sciamano, lo sciamano aveva detto che…
E così convocò tutta la sua stirpe attorno al focolare. Parlò del freddo e
dei nemici. Più dei bruti che del freddo, poiché l’ostilità della Natura e la
collera della Dea era qualcosa che faceva tremare fino al midollo spinale,
mentre questi nemici… i nemici… possono essere respinti costruendo muri e
fabbricando armi, per esempio, e così ordinò loro di abbattere ancora più
alberi e di costruire delle barricate. E nessuno obiettò perché se persino i
più forti e impavidi della stirpe temevano questi invasori… beh, sì, dovevano
essere davvero davvero terribili. I forti dopotutto avevano parlato e chi erano
loro per poter mettere in dubbio ciò che proferivano?
Passarono giorni e giorni in cui tutta la stirpe, con abnegazione ed
obbedienza, abbandonò ogni attività che non fosse necessaria alla difesa di
quel nulla che avevano e chiamavano vita. Nessuno arava i campi o faceva
conserve con quei frutti che cadevano marci sulla terra. Nessuno pregava o
intonava canzoni per le persone amate. Tutti erano impegnati nella costruzione
delle barricate e nell’abbattimento degli alberi.
No, non vogliamo morire qui in questa valle. E forse tutto questo non
basta… Torneremo dal saggio. Dobbiamo sapere se vivremo abbastanza da rivedere
la primavera. Dicevano.
E così affrontarono quel viaggio che già era stato percorso solo poco tempo
prima. Arrivarono nel tempio dei saggi della collina ad Occidente e presto si
accorsero che la diffidenza era diventata ostilità, ciononostante ancora una
volta il vecchio li invitò a sedersi attorno al fuoco. Questo volta però, senza
offrir loro il liquore di cenere e inchiostro. Pareva stremato da notti
insonni, dai succhi gastrici e le ulcere che lo affamavano e lo pungolavano.
Siamo qui per la medesima ragione che ci ha spinto a disturbarvi in
passato. Vogliamo sapere se sopravviveremo a questo inverno, nonostante il
freddo e i nemici. Chiese il figlio del capo stirpe, intanto che gli altri della delegazione,
ad occhi bassi, tremavano al pensiero della risposta del vegliardo.
Sarà un inverno estremamente duro. Sarà un inverno tanto lungo quanto
gelido. E i nemici… gli invasori sono pronti a sferrare il loro terribile
attacco ad istanti. Rispose lo sciamano agli uomini che si chiusero nelle spalle come le dure e
spinose foglie di un cardo selvatico attorno al suo frutto. Durante il viaggio
di ritorno non parlarono neppure, ma appena arrivati nelle loro case fatte di
legna e relitti trovati nel letto del fiume, decisero di scrivere anche ai
villaggi vicini per avvisarli del pericolo imminente. Ma che l’inverno fosse
alle porte era scontato, pensarono, non c’è bisogno di dire agli uomini e
alle donne che ogni autunno è seguito dall’inverno, quando ci sono dei nemici
pronti a portarci via tutto ciò in cui crediamo! Il grosso problema erano
gli invasori… questi bruti da cui era necessario difendersi ad ogni costo. Da
soli non avrebbero mai potuto farcela. Era urgente allertare tutte le valli e
tutti i villaggi e forse persino chi era rimasto nella metropoli. E poi
abbattere ancora alberi e alzare altre barricate. E così alcuni degli uomini –
gli eletti – armati di motosega, buttarono giù tanti alberi quante dita avevano
complessivamente nelle mani e nei piedi. Cinquantanove, fra pioppi e conifere,
vennero abbattuti. Cinquantanove e non sessanta, poiché quello più giovane e
mingherlino della stirpe aveva perso l’indice l’autunno precedente tra la sua
motosega e il tronco di una quercia.
La sera, con il vasto terreno borchiato dai moncherini degli alberi e le
barricate costruite ammassando così tanta spazzatura da oscurare la luna, si
sentivano già più sereni e decisero di ubriacarsi e brindare alla loro unione…
quegli uomini forti, coraggiosi, in mezzo al dominio della selvatichezza e
delle bestie, che insieme erano pronti a dominare la Dea e a vivere fino alla
primavera. Eroi che avevano in mano la vita e la sopravvivenza di donne, vecchi
e infermi! Eroi pronti a combattere contro nemici tanto terribili che neanche
la fantasia sarebbe stata in grado di partorire. Si ubriacarono e
festeggiarono, ma tutti gli strumenti musicali erano stati distrutti e le
poesie dimenticate, perché nessuno le recitava da troppo tempo. E senza musica
e senza poesia, si arrangiarono come potevano: picchiarono i loro bastoni
contro le lamiere e urlavano cori semplici e ripetitivi. Sbam sbam sbam… e il
più anziano partiva con una filastrocca inquieta a deridere i nemici e il
freddo inverno con volgarità e violenza. Sbam sbam sbam… e i più giovani e meno
coraggiosi che lo seguivano e così le donne e i bambini che trovavano buffa la
rima baciata! Sbam sbam sbam…. E quel rumore senza poesia esplose nell’eco
della gola, giungendo persino alle orecchie dei vecchi nella città ad Ovest del
torrente inquinato.
Ma poi arrivò la notte e le temperature si abbassarono e il buio faceva
paura.
Dobbiamo tornare da loro. Dissero, ma dovettero constatare che era rischioso partire e lasciare le
donne sole con gli invasori, che senza dubbio, si nascondevano dietro alle
vette più prossime al loro villaggio. E come fare?
Andremo noi, dissero le più giovani della stirpe, annoiate da quei cori ed escluse dalle
decisioni. Prima dello stato di emergenza perenne erano impegnate a coltivare
la terra, nella cura della comunità e nei rituali propiziatori. Svolgevano le
loro mansioni come investite di una missione e lo facevano cantando versi e
poesie tramandate da millenni, ma contaminate dal loro essere, dal loro vivere,
dal loro sentire… Nulla a che vedere con quei rozzi cori oggettivi e privi di
personalità che da ore e ore ammorbavano la valle. I versi delle donne erano i
canti delle lupe e delle bestie della foresta. I canti di tutte le donne che
avevano vissuto quei boschi e quelle terre. Erano i medesimi canti… eppure allo
stesso tempo diversi, perché non potevano più piangere come le mondine del
secolo passato. I fiumi erano inquinati e nessuno più affondava le gambe nel
fango per coltivare il riso. Quello non era più il loro mondo, ma della stessa
natura erano le ingiustizie e la voglia di essere felici e quindi, quelle
poesie, andavano fatte proprie. Perché i versi del passato, se non vengono
incastonati dalle emozioni del presente, restano vane formule vomitate da preti
e soldati. Tristi figuri che trovano piacere nel sentire la propria voce
amplificata in una gelida eco, del cui senso solo pochi eletti sono davvero a
conoscenza. Sbam sbam sbam….
A parlare fu una ragazza di nome Dorothy Gale e le sue parole vennero
accolte da un silenzio sbigottito. Quel silenzio si trasformò in una volgare
risata che coprì i brontolii degli stomaci svuotati dall’assenza di cibo.
Eppure i frutti marcivano sulla terra e le piante nei campi soffocavano tra le
erbacce.
Non avete molta scelta: o lasciate la difesa del villaggio e
l’approvvigionamento della legna per l’inverno a noi o ci lasciate andare a
parlare coi saggi della collina Ovest. Rilanciò la ragazza con la voce tremante di collera e orgoglio. Ed aveva
ragione… con un rapido gioco di sguardi i più forti del clan si accordarono:
no, non potevano di certo lasciare il futuro in mano a quelle braccia deboli,
quelle teste sognanti e quei cuori acerbi – erano così emotive quelle ragazze…
così maledettamente emotive e sensibili!
E così partirono. Il viaggio fu più difficoltoso delle volte precedenti. Il
vento tagliava la faccia e le rocce erano scivolose e l’acqua del torrente
sembrava volerle pugnalare come bambole woodoo, ma non volevano fermarsi. Non
si sarebbero fermate. Arrivarono al tempio e trovarono la porta sbarrata.
Bussarono con tutta la loro forza, ma nessuno era disposto a farle entrare.
Solo dopo che si inginocchiarono tutte quante ad implorare piangendo per essere
ricevute, si affacciò il vecchio saggio. Su quel volto che loro non conoscevano
riconobbero però, come incisi nei muscoli, i segni del più cieco terrore.
Andate via. Disse. Andate via. Urlò. Sta arrivando. Sta arrivando l’inverno
più tragico della storia della nostra umanità, sbraitò sputando un dente e
parecchia saliva. I nemici… i nemici sono tra noi e distruggono le barricate
nella notte e sabotano le nostre armi e ci succhiano il sangue quando dormiamo!
E forse anche voi… forse siete voi i selvaggi! Urlò con una voce tanto
stridula, da far vibrare i vetri rotti attaccati come denti marci alle finestre
del tempio.
Il cuore delle donne della collina orientale si ghiacciò all’istante. Non
più sangue pulsante, non più calore. Quella benzina che incendia le emozioni era
svanita, lasciando il posto soltanto alla paura, al sospetto e al più feroce
spirito di sopravvivenza. Si voltarono di scatto come colpite da una scossa
elettrica, mosse da un’unica urgenza: salvare la propria pelle a qualunque
costo. Cominciarono a guardarsi l’un l’altra con timore e accusa. Dietro a
quegli occhi, come con uno scanner di ultima generazione innestato nel cranio,
scorrevano tutte le informazioni inerenti all’operato del soggetto in
osservazione. Un registro virtuale che scandagliava i meandri più intimi e
oscuri. Ogni buco, ogni ombra nel loro essere ed agire poteva essere una prova
del loro tradimento dopotutto.
Gli occhi di Dorothy Gale rimbalzavano come una pallina di un flipper da
una all’altra di quelle che, fino a poco tempo prima, erano le sue amiche più
care. No, non poteva accettare che una di loro potesse essere una minaccia per
la sopravvivenza sua e della stirpe della collina orientale. Eppure il saggio
aveva detto… eppure i forti del clan avevano detto… eppure…
Una cornacchia malconcia, noncurante degli oscuri pensieri di Dorothy Gale
e delle sue amiche che la profezia voleva nemiche, tagliò in due il cielo e
gracchiando magnetizzò il suo sguardo verso l’orizzonte e poi sul tempio:
faceva paura. No, non era paura… era schifo e pena. Perché lo avevano
lasciato cadere a pezzi? Perché non avevano fatto nulla per aggiustare quelle
quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti? Così dava
l’impressione di poter essere buttato giù senza sforzo alcuno… anche da…
anche da una scorreggia!
Le scappò inaspettatamente da ridere. Erano così tanti giorni che non
rideva, quasi fosse una colpa sorridere coi nemici alle porte e la minaccia
dell’inverno che pendeva sulle loro nuche.
Il suo sguardo si soffermò sulla porta crollata del tempio. Al suo posto
c’era un vecchio cartellone pubblicitario di un film antico… risaliva ad oltre
cent’anni prima. Quel film era Il Mago di Oz con Judy Garland e lo aveva
visto quando ancora abitava nella metropoli e l’ultimo cinema aperto, lo aveva
proiettato in occasione del centenario dalla sua uscita. Uno dei rari momenti
di cultura e socialità nonostante l’assedio dell’esercito di difesa. Se lo
ricordava. Lo aveva visto due volte di fila, perché la protagonista si chiamava
proprio come lei e poiché, ahinòi, di film nuovi non ne uscivano da diverse
decadi. Si ricordò all’improvviso la scena in cui Totò, il cagnolino della sua
omonima, smaschera la messinscena del temibile Mago di Oz! Truffatore e
bugiardo il cui potere si sorreggeva soltanto su trucchi, illusioni e paura.
Senza pensarci troppo urlò verso la finestra da cui era spuntato il saggio.
Come fa? Come fa a sapere queste cose? Urlò con una tale forza che non credeva di avere.
Il saggio si scoprì sorpreso nel constatare che, per la prima volta dopo
secoli, qualcuno – una ragazzetta per giunta – osava mettere in dubbio le sue
verità. Decise di affacciarsi e le rispose.
Abito questa valle da molto tempo prima che i tuoi nonni nascessero
ragazzina e so come gira il mondo. Dall’alto della torre del tempio, posso
scorgere le vette di tutte le colline e vedo tutti i villaggi che popolano
questa gola. Vedo quello che fanno, vedo quanti alberi tagliano e quanto sono
alte le loro barricate e capisco quanta paura hanno per l’intonazione dei loro
canti. Io ho osservato tutti loro e comprendo l’entità della minaccia che pende
sulle nostre teste.
Disse.
«Ma è finita?»
Mi chiedi e giustamente protesti: «ma a me non sembra una barzelletta e non
mi fa neanche ridere porcodio»
No, DeeDee, non fa ridere però ti giuro che era una barzelletta. Me la
raccontava sempre mio padre e dovrebbe far ridere, come fa ridere un calzino
bucato ai piedi di un imperatore o vedere un vescovo ricoperto di porpora e oro
inciampare nella sua sottana. Perché dovrebbe far ridere lo smascherare e
ridicolizzare il potere di quel saggio che poi, tanto saggio non era. Una
pernacchia piena di sputi alla faccia di chi vuole imporre la propria verità,
sacrificando la realtà se questa risulta incomprensibile, sgradevole o
faticosa. Una barzelletta rivoluzionaria DeeDee, che mi è venuta in mente
spesso da quando mi hai raccontato cosa ti hanno fatto. Dopo lo schifo, il
dolore, la rabbia e l’odio… mi è tornata in mente la barzelletta dello sciamano
e della stirpe del bosco!
Ma da quando mi hai raccontato la tua storia, DeeDee, non riuscivo a gioire
per lo smascheramento del falso profeta o l’irrisione del potere, perché vedevo
solo la cieca obbedienza e la superstizione del boscaiolo e della sua stirpe. E
stavo male perché come nella barzelletta attorno a me vedevo così tanta paura e
l’assenza assoluta di umanità e coraggio. Vedevo che l’odio e il terrore
atavico verso l’altro, da troppo tempo, erano diventati collante sociale
anche da questa parte della barricata… un collante chimico e infiammabile,
creato e adoperato per infuocare il braciere di chi detiene il potere. Eppure
“noi” avremmo dovuto essere diversi da “loro”…
Non migliori o peggiori, perché questo tipo di valutazione
implicherebbe una norma a cui adeguarsi o un dogma a cui obbedire… uno standard
che divide i buoni dai cattivi, i santi dai peccatori. E “noi” invece siamo
quello che siamo – o almeno credevo – perché ci fanno ridere le barzellette in
cui gli dei cadono e i re muoiono. Eppure pare che in quest’epoca cruda e stolta,
siamo riusciti a replicare le stesse logiche di quel potere infiammato da paure
mitologiche, ignoranza colpevole e bisogno di eroismo. Leggi di accettabilità
sociale da cui credevamo di esserci liberati, rintanandoci in queste cattedrali
industriali cadenti e in queste strade con le vetrine spaccate. Bestie
inferocite e folli di timore e paranoia, che non sanno sopravvivere senza la
normalizzazione di un branco.
Quello che ti hanno fatto, DeeDee, ci ha lacerato testa, cuore, pancia e
figa… quattro crepe forse irreparabili. Ci ha tolto il sonno, la voglia di
sorridere e la gioia dello scopare. Come è stato possibile tutto ciò? Al di là
del male e della miseria dell’anima, la verità è che nessuno di noi aveva delle
risposte. E non ce le abbiamo nemmeno ora…
Nessuno custodisce il senso e la ragione che spieghino il vuoto marcescente
che fingiamo di non vedere. Nessuno di noi può schiudere le labbra per
pronunciare quelle parole che rivelano il passato e guidano verso il futuro.
Un’assoluzione, DeeDee… quello che cerchiamo è un’assoluzione per tutti i
nostri errori e le nostre mancanze.
Alcuni di noi sono rimasti paralizzati, altri si sono fidati delle parole
di pigri sciamani che hanno reso nobile e moralmente degno il voltarsi
dall’altra parte e far finta di niente. E poi c’è chi ha deciso che in assenza
del perdono, nell’impossibilità di poter far i conti con loro stessi, forse era
meglio bruciare la vecchia. Ti hanno fatto diventare una nemica da
annientare, per liberarsi dal peso di trovare quelle risposte. E così stanno
facendo con noi, che abbiamo osato urlare quelle domande con l’urgenza dei
nostri cuori di cagne.
Ma lo sai bene quello che ti hanno fatto e non ha senso ora continuare a
ricordartelo, perché ci sono cose che non ti ho mai detto. Non ti ho mai detto,
per esempio, di quanto tu ci stia facendo sentire forti. Di quanto tu ci stia
facendo sentire parte di un unico e complesso corpo composto da organi vivi e
essenziali. Di quanto tu ci abbia ricordato chi siamo e tutto ciò che non
vogliamo essere. Tu, DeeDee, purtroppo non puoi vedere il bello che ti circonda
e che è sbocciato dove hai versato le lacrime e posato i tuoi piedi. Sono
sicura che un giorno i tuoi occhi incontreranno la bellezza e la poesia. Te lo
prometto. Nel frattempo però, ti chiedo di portare ancora un po’ di pazienza,
perché ti devo raccontare come è andata a finire quella storia strampalata: la
barzelletta della valle del torrente inquinato.
Quegli alberi che abbattiamo, cadono per le tue parole. E quelle che vedi
dalla tua torre, sono le barricate che abbiamo alzato per le tue profezie. Le
armi che abbiamo in pugno, vengono fabbricate dalla perenne minaccia che ci
racconti. E la nostra fame, maledetto vecchio – digrignò Dorothy Gale – è il frutto corrotto dei
campi che non coltiviamo, così come l’aridità dei nostri cuori è figlia delle
poesie che abbiamo dimenticato, per combattere una guerra che tu ti sei
inventato! Che tu sia maledetto, tu… che sei vecchio senza cuore ne’ saggezza!
E dicendo questo, prese per mano le sue amiche e insieme fecero ritorno al
villaggio della stirpe.
Guardarono con occhi nuovi, i resti del tempio e della città abbandonata,
lasciata alla mercé della minaccia perenne. Stronzi, pensarono. Non
c’è spazio per la bellezza in una società dominata dalla paura – si dissero
senza bisogno di parlare – e non c’è azione, ma solo la difesa di uno status
quo, messo in discussione dall’evidenza delle nostre cadute. C’è soltanto
l’immobilità dei morti.
Siamo cadute e siamo precipitati, Deedee, senza avere il coraggio di rialzarci.
Perché non sappiamo essere liberi. Non ci hanno mai abituato ad esserlo. E la
leggi, i dogmi e le norme che abbiamo riprodotto nel nostro piccolo, hanno lo
stesso tono di voce dei preti che ci facevano catechismo, dei genitori che
volevano un futuro fatto di certezze e di autorità spaventate dalla nostra
voglia di sognare.
Dorothy Gale camminava insieme alle sue amiche e si accorse che tra la neve
sporca di fango, sbucava un piccolo fiore che sembrava un fantasma. I vecchi
della stirpe lo chiamavano il cadavere delle nevi. Ed era il fiore che
nasceva prima di tutti gli altri, coi primi soli tiepidi della primavera.
L’inverno dunque era già passato? La primavera avrebbe presto destato speranze
e germogli, eppure la sua stirpe ancora abbatteva alberi per prepararsi
all’inevitabile sfida del gelo. Ancora viveva con il terrore di non
sopravvivere! Lo colse e pensò che lo avrebbe portato agli uomini del
villaggio. Guardate – avrebbe detto con gli occhi lucidi di amore e
gioia violenta – guardate: l’inverno è alle spalle e noi siamo vivi.
E questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà.