LA COLLINA DEI CONIGLI

LA COLLINA DEI CONIGLI

 Everyone, everyone in these eyes I will witness the fall of Efafra I will witness, witness the fall 

(Last but not least, Owsla, Fall of Efafra)

[Articolo originale qui] Il primo ricordo che accomuna tutti i bambini ormai adulti che hanno visto La Collina dei Conigli, film di animazione di Martin Rosen del 1978, è il ricordo del sangue.Tratto dall’omonima opera letteraria – raro caso in cui il titolo italiano è forse migliore di quello originale (Watership Down) – di Richard Adams, del 1972, La Collina dei Conigli racconta la storia di un “branco di conigli protagonisti di una meravigliosa epopea della libertà”, come recita la copertina dell’edizione italiana (Rizzoli-Bur) del 1975. Sangue… Sangue che invade la conigliera da cui tutto parte, in una visione di Quintilio, coniglio preveggente e fratello del giovane Moscardo. Quintilio e Moscardo sono conigli “periferici”, in quanto plebei e minori di un anno di età che, per questa ragione per esempio, se trovano una primula durante la silflaia (il pascolo) devono cederla ai conigli dell’Ausla.
L’Ausla di una conigliera è costituita dagli esemplari che eccellono in determinati ambiti e che dettano legge sul resto del branco. Vi sono Capi Coniglio che preferiscono circondarsi di un’orda di guerrieri, altri che favoriscono gli impavidi esploratori e, altri ancora, che premiano gli astuti razziatori. Ma Quintilio è troppo giovane e poco influente per far sì che il Coniglio Capo gli dia ascolto e così, la sua orribile visione (la luce rossa del tramonto che diventa un lago di sangue sulla loro conigliera), rimane inascoltata. Solo il fratello e pochi altri conigli decideranno di seguire Quintilio nella sua fuga verso l’ignoto.

For Man came knocking at our doors, sank teeth within our home. In those quiet hours,where the elil ruled, the sky, the ground, our thoughts. We prayed for pity, but received none. We gasped for breath, But no breath came. Forgive us El-Ahrairah! Prophet of two faces. (For El-Ahraihrah To Cry, Elil)

Il loro viaggio, irto di pericoli, viene allietato dalle novelle di Dente di Leone grazie alle quali scopriamo la storia, il credo e le norme sociali di una conigliera. Scopriamo per esempio che Fritz, il dio di ogni cosa, aveva creato un mondo in cui gli animali erano tutti uguali tra loro e vivevano in pace ed armonia grazie all’abbondanza di cibo; ma fu proprio a causa dell’avidità, dell’arroganza e della prolificità della conigliera di El-Ahrairà (il primo coniglio) che Fritz decise di punirli rendendoli codardi e prede degli altri animali. «Ascolta El-Ahrairà . Il tuo popolo non potrà dominare il mondo intero, perché io non lo permetto. Tutto il mondo sarà vostro nemico. E chi ti catturerà, ti ammazzerà, Principe dai Mille Nemici.» 

Ecco così, che il peccato originale viene castigato ed ai conigli, che sanno contare fino a quattro dopodiché c’è un generico Hrair (molti ovvero mille), non spetta altro che ingegnarsi e difendersi dai Mille Nemici (Elil), quali volpi, gatti, rapaci, faine e soprattutto l’uomo. Interessante la descrizione delle “cose degli uomini” da parte dei conigli che, ignorando l’aspetto utilitaristico di strade, ponti e automobili li riconoscono per la loro difformità rispetto al contesto naturale (forme geometriche regolari, angoli retti e odori sintetici) e li descrivono per il loro impatto violento con l’ambiente in cui si collocano. Ecco dunque che l’automobile si chiamahrududù per via del rumore assordante che produce e la strada invece…

Sbucati dall’altra parte della fratta, Moscardo guardò stupito la strada asfaltata. Lì per lì gli fece l’effetto di un fiume: nera, liscia, dritta fra i suoi argini. Poi notò che era fatta di ghiaia e bitume, e vide un ragno che vi zampettava sopra. “Ma non è una cosa naturale” disse, annusando i forti e strani odori, di catrame, di benzina. “Che cos’é? Come c’è venuta qui?”. “È roba d’uomo” disse Parruccone. “La fanno apposta, e ci corrono sopra i hurddudù… più veloci di noi. E chi altri sennò potrebbero correre più svelti di noi?”  

Moscardo e gli altri, in cerca di una casa, incontreranno altri conigli. Ogni coniglio, in un certo senso, diventa manifesto di una precisa società e del posto (o ruolo) che decidiamo di assumere nella vita in quanto cittadini, lavoratori, schiavi, padroni, vittime o predatori, ma soprattutto qual è il costo, in termini di libertà, che siamo disposti a pagare in cambio di un apparente benessere e di una fantomatica sicurezza. 

A bastard son of a bastard god Stolen saviors of ancient tome Misshapen idols in manmade temples A bloodied hand across our mouths. And so we stand, ever waiting the end, eyes skyward, ever waiting the end (Beyond the veil, Elil) 

Nella conigliera di Primula Gialla, per esempio, non ci sono capi e tutti sono ben nutriti e in salute. Una società che rinnega gli antichi dèi (non credono in Fritz e nelle parabole di El-Ahrairà), composta da conigli uguali tra loro e liberi, che vivono in pace e hanno dimenticato – e rinnegato – l’arte dell’astuzia lapina e del combattimento. Una conigliera però, in cui non c’è memoria e non c’è “informazione”. Moscardo e gli altri scopriranno ben presto, che non è ammesso far domande, così come è sconsigliato chiedersi perché, l’uomo della fattoria vicina, si premuri di lasciare grandi quantità di cibo incustodito nei pressi delle tane. Primula Gialla e gli altri conigli convivono con l’uomo, ma qual è il prezzo da pagare per aver venduto la propria “anima”? Gli agi, il benessere, l’abbondanza di cibo esigono il loro sacrificio in sangue e quindi, poco importa se l’area della conigliera è crivellata di trappole per conigli che vengono ritualmente catturati per essere uccisi, scuoiati e mangiati. Ecco che così, nella società perfetta di Primula Gialla senza capi, conflitti e miseria, i conigli “spariscono”, ma nessuno si chiede dove essi siano. Una società ricca e apparentemente sicura, di conigli depressi e incapaci di autodeterminare la propria esistenza, in cui i deboli vengono sacrificati in nome del bene comune. Situazione analoga a quella dei conigli “domestici” imprigionati nella casa del fattore, che però non vengono macellati, in quanto adottati dalla giovane figlia dell’uomo. L’accettare di vivere in una gabbia dunque, di essere portati nel prato qualche ora al giorno (quando la bambina ha voglia di giocare con loro) e il non conoscere nulla all’infuori della propria prigionia, in cambio di cibo e protezione. Una dolce cattività, prima di tutto psicologica, che ricorda le gabbie emotive e relazionali di una società conformista in cui, troppo spesso, si vive il proprio ruolo all’interno della famiglia – fatta di affetti e imposizioni – come l’unica via possibile per approcciarsi al prossimo. Con annessa anche una piccola e forse un po’ scontata, riflessione sull’ipocrisia (o “dilemma” come direbbe qualcuno) che sta alla base della distinzione binaria tra animale domestico/animale da macellare, peluche/cibo dell’onnivoro. 

What animal separates this ape from that? The human animal; ignored and loathed by louse and lion. Reveal in our glory, in every brother is quarry. Butcher every life, until our land is stained and dead. From our towers we cry: «Every man shall bear a soul, a right that no other beast shall bear». And in the shadows the dogs shook their heads «shame upon those apes, pride comes before a fall» (A soul to bare, Owsla) 

Will you join my owsla?” (Simulacrum, Inlé)  

Ma è in Efrafa, la conigliera del Generale Vulneraria, che Richarda Adams descrive la peggiore società immaginabile. Una dittatura spietata e contro-natura in cui i conigli della plebe vengono marchiati e la cui vita – quando fare silflaia, quando fare hraka (defecare), con chi figliare – è vincolata dall’appartenenza a quella o quell’altra “marca”. La miseria della propria esistenza è accettata e giustificata dalla speranza dell’ascesa sociale.«Buona parte di loro non riescono a far altro che quello che gli dicono di fare. Non si sono mai allontanati da Efrafa, non hanno mai fiutato un nemico. L’unica aspirazione che hanno, è d’entrare nell’Ausla, per goderne i privilegi.»

We splinter the timber, stand over the general. The jabbering magnate, dethrowned and devoured. Dismember! Scour this mantle! We lingered far too long. Smelt the chains! Leave nothing unturned! We suffered far too long. (Woundwort, Inlé)

Una società in cui tutto ciò che è forestiero ed esterno rappresenta una minaccia, in cui gli hlessil (conigli selvaggi che non appartengono a nessuna conigliera) vengono catturati ed obbligati a vivere secondo le regole del Generale Vulneraria.

Peace is lost to us now, A fettered ideal. They are the warmongers And they will make our laws A paw will fall upon the weak They will mark the day (The fall of Efrafa, Owlsa)

Una società militare e sovraffollata in cui sono le femmine a pagare il prezzo più caro, schiave e vittime dei soprusi dei conigli dell’Ausla, che possono “farle proprie” a loro piacimento, per aumentare così la popolazione e il prestigio personale e di Efrafa tutta. “Un animale selvatico che senta di non aver più alcun motivo di vivere, arriva infine a un punto in cui le sue energie residue possono effettivamente orientarsi verso la morte. […] Ecco, adesso sentiva che la disperazione non era lontane da quelle coniglie.[…] Sapeva che gli effetti del sovraffollamento e relative tensioni si manifestano prima nelle femmine. Esse divengono sterili e aggressive. Ma siccome l’aggressività non approda a nulla, spesso quelle cominciano a scivolare verso l’unica via d’uscita.” Le coniglie di Efrafa, che “riassorbono i propri cuccioli prima di darli alla luce” – negando il proprio futuro e auto-sabotando la possibilità di sopravvivenza della specie- sono le prime a ribellarsi e a tentare una fuga che verrà repressa nel sangue. Moscardo e gli altri, venuti a conoscenza della condizione dei conigli di Efrafa, decideranno di combattere il Generale Vulneraria e di mettere fine alla sua dittatura, anche a costo di pagare con la propria vita.

Our hands are raised in unison. Brandished tools, branded skin. Cut away, like so much meat, we forged new scars against ill repute, we hold on tight to one another. I am legion for we are many. (Warren Of Snares, Inlé) 

La storia di Moscardo e della sua guerra contro la dittatura di Efrafa, ha senza dubbio ancora tanto da raccontare su noi stessi, prima di tutto. Un’epopea, una favola, un’opera di fantasia che fa riflettere e meditare sul fatto che non può esserci libertà né pace, per chi è privo di empatia e, vivendo nel conformismo e nell’indifferenza, non combatta e non faccia sua la lotta degli ultimi di questo pianeta.I Fall Of Efrafa, band dell’East Sussex, (come avrete capito!) ha dedicato a questa storia la trilogia “Warren Of Snares”, composta dagli album Owsla (Alerta Antifascista/Behind the Scenes/Fight For Your Mind – 2006), Elil (Alerta Antifascista/Behind the Scenes/Fight For Your Mind/Halo of Lies – 2007) e Inle (Halo of Lies/Denovali Records – 2009). Ah! Qui è possibile scaricare il capitolo del romanzo in cui Pungitopo, fuggito da Efrafa, descrive l’incubo della dittatura…

LA LEGIONE ESTRANEA

LA LEGIONE ESTRANEA

The savage mutilation of the human race is set on course
It is up to us to change that
Protest and survive

«DeeDee, vieni qui, beviamo insieme e ascoltami: ora ti racconto una barzelletta»

«Una barzelletta?»Mi chiedi con quegli occhi bestiali che come spilli inchiodano la tua faccia da bambina al muro di cemento alle tue spalle.

«Sì, una barzelletta. La barzelletta dello sciamano e della stirpe dei boschi» Ti rispondo io, in questo dialogo che non è mai avvenuto perché ci sono alcune cose che non sono mai riuscita a dirti.

In un paese lontano-lontano vi era una profondissima gola che era stata scavata da un piccolo torrente. Quel torrente doveva essere stato un fiume rigoglioso di pesci e libellule un tempo. Persino i cervi, le volpi e i corvi andavano a bere quelle sue acque insorgenti, ma poi erano arrivati i Primi Uomini e lì si erano insediati perché il fiume e i boschi davano loro di che mangiare e scaldarsi in inverno. Ad Est e Ovest del fiume c’erano due colline: i Primi Uomini decisero di insediarsi su quella occidentale e di mantenere selvaggia l’altra, per avere sempre legna da ardere e bestie da ammazzare per le loro carni e le loro pelli. Ma è inutile che ti racconti dell’avidità dell’uomo e della violenza dello sviluppo senza progresso. Superfluo che ti racconti che quel fiume sia diventato un torrente e che ne’ alci, lupi o linci popolavano più quei boschi all’epoca di questa barzelletta, perché in quel tempo sulla collina d’Occidente giaceva ossuta e vacua la carcassa di quella che un tempo era la città dei Primi Uomini. Dall’altra parte, invece, un bosco che a fatica cercava di riconquistare il suo regno.

In verità la città non era disabitata, sebbene lo sembrasse, poiché sulla cima si diceva abitasse un vecchio saggio di mille e passa anni. Ne aveva visti di uomini e donne arrivare sulla collina Est, tagliare gli alberi per erigere delle capanne e sognare il risorgimento di una nuova umanità nella valle. Eppure pescavano dal fiume ormai radioattivo solo alghe e mitili deformi, il freddo li faceva ammalare e far diventare di cattivo umore. Chi sopravviveva all’inverno non osava sfidarne ancora la misericordia e abbandonava quelle terre. La collina Ovest e la derelitta città dei Primi Uomini? Troppo ostile e spettrale per pensare di stabilirvici. Le facciate delle case mostravano come in un ringhio le putrelle arrugginite del cemento armato. Tutto ciò che poteva essere bruciato era stato arso e continuava a crepitare in un grande braciere al centro del rifugio dell’antico saggio: una vecchia cisterna sotterranea di quello che doveva essere stato il centro di stoccaggio di combustibili fossili della città. Dal suo tetto tormentato ne usciva un fumo denso e nero che faceva lacrimare e tossire ad avvicinarsi troppo.

Un giorno come tanti arrivò l’ennesima stirpe di disperati, l’ultima di una lunghissima sequenza di gente scappata dalla metropoli sotto assedio, che non aveva nulla da perdere o che aveva perso tutto. Sapevano di quanto potesse essere spietato lì l’inverno; così decisero di fare una bella scorta di legno. L’avrebbero fatta ardere nel grosso focolare al centro del capanno di Eternit e vecchi cartelloni pubblicitari, che avevano raccolto dal letto del fiume ormai quasi prosciugato.

Quel fuoco non passò inosservato.

Iniziarono gli uomini in buona salute, i più forti. Colpo di accetta dopo colpo di accetta ne accatastarono così tanta che non potevano più impilare un tronco sull’altro senza farli rotolare rovinosamente a terra. Ma temevano che non sarebbe stata abbastanza. Bisognava prepararsi al peggio e così decisero di consultare lo sciamano dall’altra parte della valle. Lui è un saggio e ha superato mille inverni, pensavano. Potrà e vorrà di certo aiutarci. E così quello che veniva definito da tutti il capo (per anzianità, forza e solidità dei suoi legami) percorse il colle fino al torrente, lo guadò e ne uscì ricoperto da una grigia melma maleodorante. Si arrampicò fino alla città e proseguì verso l’origine di quel fumo nero e tossico. Scoprì che lo sciamano, il vecchio saggio, non era solo. Altri uomini e donne sedevano attorno ad un fuoco. L’uomo venne accolto con una certa diffidenza. Sebbene il loro tempio cadesse a pezzi, sembravano tutti impegnati e concentrati in qualcosa di severo e importante che a quanto pare, doveva essere più urgente di aggiustare ciò che era rotto… come quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti. Quegli uomini e quelle donne non alzavano la testa dalle viti, dai bulloni, dagli stracci e i chiodi arrugginiti con cui stavano costruendo armi e scudi per difendersi da nemici i cui sguardi nessun occhio aveva mai incrociato.

Il vecchio saggio acconsentì a conceder loro udienza, offrendogli un bicchiere di liquore distillato dalla cenere e l’inchiostro.

Sono qui, vecchio saggio che abiti la valle da oltre mille anni, per sapere se sopravviverò a questo inverno. Gli chiese con grande timore l’uomo del bosco.

L’inverno sarà rigido e lungo, forestiero. E i nostri nemici sono alle porte. Rispose e lo congedò senza permettergli di controbattere o fare altre domande. L’assemblea dei saggi ha parlato, vai ora… ruggì.

L’uomo del bosco tornò sui suoi passi e crollò esausto nella sua branda col terrore di perire per il freddo che di certo sarebbe arrivato. Forse quella sarebbe stata la sua ultima notte nel regno dei viventi. Il freddo o la violenza dei bruti avrebbe messo fine alla sua esistenza? Chi erano questi nemici? Se per i discendenti dei Primi Uomini era più importante assemblare armi anziché coltivare la terra o aggiustare il tempio, dovevano essere temibilissimi. Pensò ai suoi simili, alla sua famiglia che lo aveva seguito e che si fidava ciecamente di lui, si chiese come confessargli che forse non avrebbero superato l’inverno, ma fu ancora la luce dell’autunno a svegliarlo il giorno dopo. Un autunno caldo a dir la verità, come non se ne ricordava da molto tempo… ma lo sciamano, lo sciamano aveva detto che…

E così convocò tutta la sua stirpe attorno al focolare. Parlò del freddo e dei nemici. Più dei bruti che del freddo, poiché l’ostilità della Natura e la collera della Dea era qualcosa che faceva tremare fino al midollo spinale, mentre questi nemici… i nemici… possono essere respinti costruendo muri e fabbricando armi, per esempio, e così ordinò loro di abbattere ancora più alberi e di costruire delle barricate. E nessuno obiettò perché se persino i più forti e impavidi della stirpe temevano questi invasori… beh, sì, dovevano essere davvero davvero terribili. I forti dopotutto avevano parlato e chi erano loro per poter mettere in dubbio ciò che proferivano?

Passarono giorni e giorni in cui tutta la stirpe, con abnegazione ed obbedienza, abbandonò ogni attività che non fosse necessaria alla difesa di quel nulla che avevano e chiamavano vita. Nessuno arava i campi o faceva conserve con quei frutti che cadevano marci sulla terra. Nessuno pregava o intonava canzoni per le persone amate. Tutti erano impegnati nella costruzione delle barricate e nell’abbattimento degli alberi.

No, non vogliamo morire qui in questa valle. E forse tutto questo non basta… Torneremo dal saggio. Dobbiamo sapere se vivremo abbastanza da rivedere la primavera. Dicevano.

E così affrontarono quel viaggio che già era stato percorso solo poco tempo prima. Arrivarono nel tempio dei saggi della collina ad Occidente e presto si accorsero che la diffidenza era diventata ostilità, ciononostante ancora una volta il vecchio li invitò a sedersi attorno al fuoco. Questo volta però, senza offrir loro il liquore di cenere e inchiostro. Pareva stremato da notti insonni, dai succhi gastrici e le ulcere che lo affamavano e lo pungolavano.

Siamo qui per la medesima ragione che ci ha spinto a disturbarvi in passato. Vogliamo sapere se sopravviveremo a questo inverno, nonostante il freddo e i nemici. Chiese il figlio del capo stirpe, intanto che gli altri della delegazione, ad occhi bassi, tremavano al pensiero della risposta del vegliardo.

Sarà un inverno estremamente duro. Sarà un inverno tanto lungo quanto gelido. E i nemici… gli invasori sono pronti a sferrare il loro terribile attacco ad istanti. Rispose lo sciamano agli uomini che si chiusero nelle spalle come le dure e spinose foglie di un cardo selvatico attorno al suo frutto. Durante il viaggio di ritorno non parlarono neppure, ma appena arrivati nelle loro case fatte di legna e relitti trovati nel letto del fiume, decisero di scrivere anche ai villaggi vicini per avvisarli del pericolo imminente. Ma che l’inverno fosse alle porte era scontato, pensarono, non c’è bisogno di dire agli uomini e alle donne che ogni autunno è seguito dall’inverno, quando ci sono dei nemici pronti a portarci via tutto ciò in cui crediamo! Il grosso problema erano gli invasori… questi bruti da cui era necessario difendersi ad ogni costo. Da soli non avrebbero mai potuto farcela. Era urgente allertare tutte le valli e tutti i villaggi e forse persino chi era rimasto nella metropoli. E poi abbattere ancora alberi e alzare altre barricate. E così alcuni degli uomini – gli eletti – armati di motosega, buttarono giù tanti alberi quante dita avevano complessivamente nelle mani e nei piedi. Cinquantanove, fra pioppi e conifere, vennero abbattuti. Cinquantanove e non sessanta, poiché quello più giovane e mingherlino della stirpe aveva perso l’indice l’autunno precedente tra la sua motosega e il tronco di una quercia.

La sera, con il vasto terreno borchiato dai moncherini degli alberi e le barricate costruite ammassando così tanta spazzatura da oscurare la luna, si sentivano già più sereni e decisero di ubriacarsi e brindare alla loro unione… quegli uomini forti, coraggiosi, in mezzo al dominio della selvatichezza e delle bestie, che insieme erano pronti a dominare la Dea e a vivere fino alla primavera. Eroi che avevano in mano la vita e la sopravvivenza di donne, vecchi e infermi! Eroi pronti a combattere contro nemici tanto terribili che neanche la fantasia sarebbe stata in grado di partorire. Si ubriacarono e festeggiarono, ma tutti gli strumenti musicali erano stati distrutti e le poesie dimenticate, perché nessuno le recitava da troppo tempo. E senza musica e senza poesia, si arrangiarono come potevano: picchiarono i loro bastoni contro le lamiere e urlavano cori semplici e ripetitivi. Sbam sbam sbam… e il più anziano partiva con una filastrocca inquieta a deridere i nemici e il freddo inverno con volgarità e violenza. Sbam sbam sbam… e i più giovani e meno coraggiosi che lo seguivano e così le donne e i bambini che trovavano buffa la rima baciata! Sbam sbam sbam…. E quel rumore senza poesia esplose nell’eco della gola, giungendo persino alle orecchie dei vecchi nella città ad Ovest del torrente inquinato.

Ma poi arrivò la notte e le temperature si abbassarono e il buio faceva paura.

Dobbiamo tornare da loro. Dissero, ma dovettero constatare che era rischioso partire e lasciare le donne sole con gli invasori, che senza dubbio, si nascondevano dietro alle vette più prossime al loro villaggio. E come fare?

Andremo noi, dissero le più giovani della stirpe, annoiate da quei cori ed escluse dalle decisioni. Prima dello stato di emergenza perenne erano impegnate a coltivare la terra, nella cura della comunità e nei rituali propiziatori. Svolgevano le loro mansioni come investite di una missione e lo facevano cantando versi e poesie tramandate da millenni, ma contaminate dal loro essere, dal loro vivere, dal loro sentire… Nulla a che vedere con quei rozzi cori oggettivi e privi di personalità che da ore e ore ammorbavano la valle. I versi delle donne erano i canti delle lupe e delle bestie della foresta. I canti di tutte le donne che avevano vissuto quei boschi e quelle terre. Erano i medesimi canti… eppure allo stesso tempo diversi, perché non potevano più piangere come le mondine del secolo passato. I fiumi erano inquinati e nessuno più affondava le gambe nel fango per coltivare il riso. Quello non era più il loro mondo, ma della stessa natura erano le ingiustizie e la voglia di essere felici e quindi, quelle poesie, andavano fatte proprie. Perché i versi del passato, se non vengono incastonati dalle emozioni del presente, restano vane formule vomitate da preti e soldati. Tristi figuri che trovano piacere nel sentire la propria voce amplificata in una gelida eco, del cui senso solo pochi eletti sono davvero a conoscenza. Sbam sbam sbam….

A parlare fu una ragazza di nome Dorothy Gale e le sue parole vennero accolte da un silenzio sbigottito. Quel silenzio si trasformò in una volgare risata che coprì i brontolii degli stomaci svuotati dall’assenza di cibo. Eppure i frutti marcivano sulla terra e le piante nei campi soffocavano tra le erbacce.

Non avete molta scelta: o lasciate la difesa del villaggio e l’approvvigionamento della legna per l’inverno a noi o ci lasciate andare a parlare coi saggi della collina Ovest. Rilanciò la ragazza con la voce tremante di collera e orgoglio. Ed aveva ragione… con un rapido gioco di sguardi i più forti del clan si accordarono: no, non potevano di certo lasciare il futuro in mano a quelle braccia deboli, quelle teste sognanti e quei cuori acerbi – erano così emotive quelle ragazze… così maledettamente emotive e sensibili!

E così partirono. Il viaggio fu più difficoltoso delle volte precedenti. Il vento tagliava la faccia e le rocce erano scivolose e l’acqua del torrente sembrava volerle pugnalare come bambole woodoo, ma non volevano fermarsi. Non si sarebbero fermate. Arrivarono al tempio e trovarono la porta sbarrata. Bussarono con tutta la loro forza, ma nessuno era disposto a farle entrare. Solo dopo che si inginocchiarono tutte quante ad implorare piangendo per essere ricevute, si affacciò il vecchio saggio. Su quel volto che loro non conoscevano riconobbero però, come incisi nei muscoli, i segni del più cieco terrore.

Andate via. Disse. Andate via. Urlò. Sta arrivando. Sta arrivando l’inverno più tragico della storia della nostra umanità, sbraitò sputando un dente e parecchia saliva. I nemici… i nemici sono tra noi e distruggono le barricate nella notte e sabotano le nostre armi e ci succhiano il sangue quando dormiamo! E forse anche voi… forse siete voi i selvaggi! Urlò con una voce tanto stridula, da far vibrare i vetri rotti attaccati come denti marci alle finestre del tempio.

Il cuore delle donne della collina orientale si ghiacciò all’istante. Non più sangue pulsante, non più calore. Quella benzina che incendia le emozioni era svanita, lasciando il posto soltanto alla paura, al sospetto e al più feroce spirito di sopravvivenza. Si voltarono di scatto come colpite da una scossa elettrica, mosse da un’unica urgenza: salvare la propria pelle a qualunque costo. Cominciarono a guardarsi l’un l’altra con timore e accusa. Dietro a quegli occhi, come con uno scanner di ultima generazione innestato nel cranio, scorrevano tutte le informazioni inerenti all’operato del soggetto in osservazione. Un registro virtuale che scandagliava i meandri più intimi e oscuri. Ogni buco, ogni ombra nel loro essere ed agire poteva essere una prova del loro tradimento dopotutto.

Gli occhi di Dorothy Gale rimbalzavano come una pallina di un flipper da una all’altra di quelle che, fino a poco tempo prima, erano le sue amiche più care. No, non poteva accettare che una di loro potesse essere una minaccia per la sopravvivenza sua e della stirpe della collina orientale. Eppure il saggio aveva detto… eppure i forti del clan avevano detto… eppure…

Una cornacchia malconcia, noncurante degli oscuri pensieri di Dorothy Gale e delle sue amiche che la profezia voleva nemiche, tagliò in due il cielo e gracchiando magnetizzò il suo sguardo verso l’orizzonte e poi sul tempio: faceva paura. No, non era paura… era schifo e pena. Perché lo avevano lasciato cadere a pezzi? Perché non avevano fatto nulla per aggiustare quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti? Così dava l’impressione di poter essere buttato giù senza sforzo alcuno… anche da… anche da una scorreggia!

Le scappò inaspettatamente da ridere. Erano così tanti giorni che non rideva, quasi fosse una colpa sorridere coi nemici alle porte e la minaccia dell’inverno che pendeva sulle loro nuche.

Il suo sguardo si soffermò sulla porta crollata del tempio. Al suo posto c’era un vecchio cartellone pubblicitario di un film antico… risaliva ad oltre cent’anni prima. Quel film era Il Mago di Oz con Judy Garland e lo aveva visto quando ancora abitava nella metropoli e l’ultimo cinema aperto, lo aveva proiettato in occasione del centenario dalla sua uscita. Uno dei rari momenti di cultura e socialità nonostante l’assedio dell’esercito di difesa. Se lo ricordava. Lo aveva visto due volte di fila, perché la protagonista si chiamava proprio come lei e poiché, ahinòi, di film nuovi non ne uscivano da diverse decadi. Si ricordò all’improvviso la scena in cui Totò, il cagnolino della sua omonima, smaschera la messinscena del temibile Mago di Oz! Truffatore e bugiardo il cui potere si sorreggeva soltanto su trucchi, illusioni e paura. Senza pensarci troppo urlò verso la finestra da cui era spuntato il saggio.

Come fa? Come fa a sapere queste cose? Urlò con una tale forza che non credeva di avere.

Il saggio si scoprì sorpreso nel constatare che, per la prima volta dopo secoli, qualcuno – una ragazzetta per giunta – osava mettere in dubbio le sue verità. Decise di affacciarsi e le rispose.

Abito questa valle da molto tempo prima che i tuoi nonni nascessero ragazzina e so come gira il mondo. Dall’alto della torre del tempio, posso scorgere le vette di tutte le colline e vedo tutti i villaggi che popolano questa gola. Vedo quello che fanno, vedo quanti alberi tagliano e quanto sono alte le loro barricate e capisco quanta paura hanno per l’intonazione dei loro canti. Io ho osservato tutti loro e comprendo l’entità della minaccia che pende sulle nostre teste.

Disse.

«Ma è finita?»

Mi chiedi e giustamente protesti: «ma a me non sembra una barzelletta e non mi fa neanche ridere porcodio»

No, DeeDee, non fa ridere però ti giuro che era una barzelletta. Me la raccontava sempre mio padre e dovrebbe far ridere, come fa ridere un calzino bucato ai piedi di un imperatore o vedere un vescovo ricoperto di porpora e oro inciampare nella sua sottana. Perché dovrebbe far ridere lo smascherare e ridicolizzare il potere di quel saggio che poi, tanto saggio non era. Una pernacchia piena di sputi alla faccia di chi vuole imporre la propria verità, sacrificando la realtà se questa risulta incomprensibile, sgradevole o faticosa. Una barzelletta rivoluzionaria DeeDee, che mi è venuta in mente spesso da quando mi hai raccontato cosa ti hanno fatto. Dopo lo schifo, il dolore, la rabbia e l’odio… mi è tornata in mente la barzelletta dello sciamano e della stirpe del bosco!

Ma da quando mi hai raccontato la tua storia, DeeDee, non riuscivo a gioire per lo smascheramento del falso profeta o l’irrisione del potere, perché vedevo solo la cieca obbedienza e la superstizione del boscaiolo e della sua stirpe. E stavo male perché come nella barzelletta attorno a me vedevo così tanta paura e l’assenza assoluta di umanità e coraggio. Vedevo che l’odio e il terrore atavico verso l’altro, da troppo tempo, erano diventati collante sociale anche da questa parte della barricata… un collante chimico e infiammabile, creato e adoperato per infuocare il braciere di chi detiene il potere. Eppure “noi” avremmo dovuto essere diversi da “loro”…

Non migliori o peggiori, perché questo tipo di valutazione implicherebbe una norma a cui adeguarsi o un dogma a cui obbedire… uno standard che divide i buoni dai cattivi, i santi dai peccatori. E “noi” invece siamo quello che siamo – o almeno credevo – perché ci fanno ridere le barzellette in cui gli dei cadono e i re muoiono. Eppure pare che in quest’epoca cruda e stolta, siamo riusciti a replicare le stesse logiche di quel potere infiammato da paure mitologiche, ignoranza colpevole e bisogno di eroismo. Leggi di accettabilità sociale da cui credevamo di esserci liberati, rintanandoci in queste cattedrali industriali cadenti e in queste strade con le vetrine spaccate. Bestie inferocite e folli di timore e paranoia, che non sanno sopravvivere senza la normalizzazione di un branco.

Quello che ti hanno fatto, DeeDee, ci ha lacerato testa, cuore, pancia e figa… quattro crepe forse irreparabili. Ci ha tolto il sonno, la voglia di sorridere e la gioia dello scopare. Come è stato possibile tutto ciò? Al di là del male e della miseria dell’anima, la verità è che nessuno di noi aveva delle risposte. E non ce le abbiamo nemmeno ora…

Nessuno custodisce il senso e la ragione che spieghino il vuoto marcescente che fingiamo di non vedere. Nessuno di noi può schiudere le labbra per pronunciare quelle parole che rivelano il passato e guidano verso il futuro.

Un’assoluzione, DeeDee… quello che cerchiamo è un’assoluzione per tutti i nostri errori e le nostre mancanze.

Alcuni di noi sono rimasti paralizzati, altri si sono fidati delle parole di pigri sciamani che hanno reso nobile e moralmente degno il voltarsi dall’altra parte e far finta di niente. E poi c’è chi ha deciso che in assenza del perdono, nell’impossibilità di poter far i conti con loro stessi, forse era meglio bruciare la vecchia. Ti hanno fatto diventare una nemica da annientare, per liberarsi dal peso di trovare quelle risposte. E così stanno facendo con noi, che abbiamo osato urlare quelle domande con l’urgenza dei nostri cuori di cagne.

Ma lo sai bene quello che ti hanno fatto e non ha senso ora continuare a ricordartelo, perché ci sono cose che non ti ho mai detto. Non ti ho mai detto, per esempio, di quanto tu ci stia facendo sentire forti. Di quanto tu ci stia facendo sentire parte di un unico e complesso corpo composto da organi vivi e essenziali. Di quanto tu ci abbia ricordato chi siamo e tutto ciò che non vogliamo essere. Tu, DeeDee, purtroppo non puoi vedere il bello che ti circonda e che è sbocciato dove hai versato le lacrime e posato i tuoi piedi. Sono sicura che un giorno i tuoi occhi incontreranno la bellezza e la poesia. Te lo prometto. Nel frattempo però, ti chiedo di portare ancora un po’ di pazienza, perché ti devo raccontare come è andata a finire quella storia strampalata: la barzelletta della valle del torrente inquinato.

Quegli alberi che abbattiamo, cadono per le tue parole. E quelle che vedi dalla tua torre, sono le barricate che abbiamo alzato per le tue profezie. Le armi che abbiamo in pugno, vengono fabbricate dalla perenne minaccia che ci racconti. E la nostra fame, maledetto vecchio – digrignò Dorothy Gale – è il frutto corrotto dei campi che non coltiviamo, così come l’aridità dei nostri cuori è figlia delle poesie che abbiamo dimenticato, per combattere una guerra che tu ti sei inventato! Che tu sia maledetto, tu… che sei vecchio senza cuore ne’ saggezza!

E dicendo questo, prese per mano le sue amiche e insieme fecero ritorno al villaggio della stirpe.

Guardarono con occhi nuovi, i resti del tempio e della città abbandonata, lasciata alla mercé della minaccia perenne. Stronzi, pensarono. Non c’è spazio per la bellezza in una società dominata dalla paura – si dissero senza bisogno di parlare – e non c’è azione, ma solo la difesa di uno status quo, messo in discussione dall’evidenza delle nostre cadute. C’è soltanto l’immobilità dei morti.

Siamo cadute e siamo precipitati, Deedee, senza avere il coraggio di rialzarci. Perché non sappiamo essere liberi. Non ci hanno mai abituato ad esserlo. E la leggi, i dogmi e le norme che abbiamo riprodotto nel nostro piccolo, hanno lo stesso tono di voce dei preti che ci facevano catechismo, dei genitori che volevano un futuro fatto di certezze e di autorità spaventate dalla nostra voglia di sognare.

Dorothy Gale camminava insieme alle sue amiche e si accorse che tra la neve sporca di fango, sbucava un piccolo fiore che sembrava un fantasma. I vecchi della stirpe lo chiamavano il cadavere delle nevi. Ed era il fiore che nasceva prima di tutti gli altri, coi primi soli tiepidi della primavera. L’inverno dunque era già passato? La primavera avrebbe presto destato speranze e germogli, eppure la sua stirpe ancora abbatteva alberi per prepararsi all’inevitabile sfida del gelo. Ancora viveva con il terrore di non sopravvivere! Lo colse e pensò che lo avrebbe portato agli uomini del villaggio. Guardate – avrebbe detto con gli occhi lucidi di amore e gioia violenta – guardate: l’inverno è alle spalle e noi siamo vivi.

E questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà.

LE VOSTRE LETTERE | K.Coll + Radio Onda Rossa

LE VOSTRE LETTERE | K.Coll + Radio Onda Rossa

[articolo originale qui]
Le vostre lettere su Radio Ondarossa
[Sarta] È da qualche tempo che, complici Valeria e il losco figuro romano che corrisponde al nome di Fantasma, abbiamo lanciato una simpatica iniziativa che allieterà (?) le vostre/nostre esistenze. Si tratta de “Le vostre lettere”, una specie di rubrica ospitata all’interno di DIY Invasion sulle frequenze di Radio Onda Rossa, la storica radio romana nell’etere dal 1977. In cosa consiste? Vi chiediamo in pratica di inviarci dei racconti/poesie/storie scritte di qualsiasi genere o ambientazione, purché brevi: ce li ciuccieremo per benino risputandoli fuori sotto forma di onde sonore. Sissì: con grande dedizione verranno recitati dalla prode Valeria e musicati dal vostro amato/odiato collettivo Kalashnikov, assumendo forme e significati inediti, sorprendenti ed imprevedibili. Non chiedetevi il perché di tutto questo, piuttosto – presto, compagne e compagni, non esitate! – inviateci i vostri racconti! Non assicuriamo ovviamente di recitarli e musicarli tutti ma, insomma, faremo il possibile.

L’iniziativa è già avviata non sappiamo quali pieghe prenderà: una prima tranche di racconti ha già subito la metamorfosi da pagina scritta a operetta sonora, tant’è che il buon Fantasma ha ospitato a turno uno di noi in radio, tramite collegamento telefonico, in ben tre puntate di DIY Invasion per presentare i primi altrettanti racconti. Ne sono venute fuori delle simpatiche chiacchierate, più o meno interessanti, più o meno logorroiche, più o meno imbarazzate, che potete ascoltare direttamente sul sito della radio. Noi, più sinteticamente, vi mettiamo qui sotto i racconti che via via componiamo, commentati e pronti per l’ascolto: fatene saggio uso!


“Le vostre lettere”

ASCOLTA

Il primo racconto è “l’episodio pilota”, il numero zero, la genesi di tutto: “Le vostre lettere” è l’annuncio della “chiamata alle armi” rivolto a voi là fuori che – lo sappiamo! – avete tanti racconti scritti nel cassetto ma che, per vari motivi, non li avete ancora fatti leggere a nessuno. Il primo racconto è “l’episodio pilota”, il numero zero, la genesi di tutto: “Le vostre lettere” è l’annuncio della “chiamata alle armi” rivolto a voi là fuori che – lo sappiamo! – avete tanti racconti scritti nel cassetto ma che, per vari motivi, non li avete ancora fatti leggere a nessuno.


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Valeria Disagio)


“Milano antartica”

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Il secondo racconto è il breve diario di una partigiana della Milano antartica post-nucleare. Tra riflessioni su uomini e donne, femminismo, guerriglia, si parla anche della base missilistica ai Giardini pubblici Indro Montanelli. Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Stiopa)


“Non credo – bozza di una sceneggiatura per un film di guerra (senza la guerra)”

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Questo racconto, già inserito nel nostro 10” split “Come il soffitto di una chiesa bombardata” con gli amici Contrasto, è l’allucinazione da trincea di un soldato senza nome. La guerra di ogni giorno trasfigurata come se fosse la sceneggiatura surreale di film privo di epica ed eroi, dove il nemico/protagonista è presente ovunque, ma non si vede mai.


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Sarta)

“Marchionne deve morire: la rivoluzione dei 10.000 gatti kamikaze che assomigliano ad Hitler”

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Qui invece siamo dalle parti di Philip K. Dick: un buffo racconto, divertente e inquietante allo stesso tempo, dove i piani della realtàsi moltiplicano, dove pazzia, mutamenti della personalità e complotti la fanno da padrone. Protagonisti una gattara, una veterinaria svenevole, un gatto dal nome altisonate e un segreto inconfessabile.


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Valeria)

“Reset – Favola animalista”

ASCOLTA

Ed infine, un racconto sulla fine della supremazia umana: cosa accadrebbe agli animali sulla terra se tutti gli uomini, d’un tratto, scomparissero? La storia incrociata di un dio distratto, una mucca, il cane Focaccina e la gatta Yumi. 


Ascolta la puntata di DIY Invasion su Radio Onda Rossa (ospite Valeria)

ROMANTIC PUNK | KALASHNIKOV COLLECTIVE

ROMANTIC PUNK | KALASHNIKOV COLLECTIVE


“Romantic punk” is a Kalashnikov collective album released April 24, 2017 – Recorded in squatted places during 2015-2016.
Valeria (vox), Puj (guitar & artwork), Lisa (synth), Nonno (bass), Don (keyboads), Loky (drums), Sarta (guitar).

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LYRICS

ALGORITMO DI CRISI

Il foro sulla fronte il rumore dello sparo – guarda il sangue come scorre! ma il corpo non è freddo, si alza sulle gambe e sorride all’obbiettivo Programmatori pallidi come falene sotto la luce dei neon Dietro all’obbiettivo sussurrano la trama che scorre su uno schermo nero Il martirio è un codice la crisi un algoritmo che si ripete all’infinito L’infinito non esiste tutto è calcolabile tutto è misurabile questa è la stringa del declino di noi oscuri spettatori con la mano sul fucile.

CANI

Lancette ferme, binari deserti che cosa ne sa un cane del tempo? Che cosa è il tempo per il cuore di un cane?
Giardini di stelle, insegne divelte che cosa vede un cane oltre il cielo? Che cosa è il cielo per l’istinto di un cane? Se la paura irrompe nei ritagli di sole i cani la rincorrono in branco per azzannarla alla gola. E la trovano seguendo le orme che abbiamo lasciato nei giorni che non ricordiamo i giorni vuoti. Fucili del sogno puntati su di noi soldati schierati con le orbite scavate da secoli e secoli di lucida veglia Saltano i cani nella trincea e azzannano le gambe del nostro sergente e ci guardiamo dritti negli occhi e un attimo dopo corriamo come fossimo cani.

L’AMORE IN TEMPI DISPARI

Ci nasconderemo dalla luce del sole in cerca di quel buio che libera i sogni ma fuori è già l’alba e si sentono i passi di giorni crudeli che ci saltano addosso Seguimi in questo tunnel di rovi di rampicanti e macerie dove i baci sono morsi che sbranano il dolore Dove la paura e la vergogna si confondono con le ombre dove il tempo è fermo sotto i palmi delle mani Ci nasconderemo dalla gente distratta come fossimo gli atti di una trama segreta Ed indosseremo uno sguardo comune che tutto ad un tratto assomiglia alla vita.

RICOSTRUIRE IL MURO DI BERLINO

Potrebbe essere un’idea costruire il Muro di Berlino tra le strade di Milano per separare il prima dal dopo e trovare un nuovo rancore e piegare i raggi del sole a illuminare tutto quello che amiamo e svegliarci il mattino con la fame negli occhi e le mani bruciate Scrivere versi con lo spray per poi scoprire amaramente che quelle poesie non sono fiori tra i capelli ma cocci di bottiglia puntati alla nostra gola Ma poi sento questo odore di caffè che credo provenga da un fornello di innocenza che brucia sogni e vecchi quaderni ed allora voglio stare con te voglio restare con te voglio lottare con te dalla stessa parte del muro.

RIFLESSIONI SU DI LEI, SU DI NOI, SUL NOSTRO FUTURO

Rompe le vetrine durante i black out, ruba tutto quello che non le serve per poi lasciare intatti i suoi bisogni
lontani tutti i sogni. Ed intanto viviamo incerti come crepe sui muri da una parte all’altra di questa Milano occupata dai soldati armati di una guerra che ci siamo inventati per un’idea di futuro che nemmeno c’eravamo sognati. Lei vive di niente ma vuole tutto e quello che ha è se stessa riflessa nell’acqua ed un sasso da lanciarle contro per cancellare ogni traccia.

CENERE NEL CUORE

Capelli colore di spettro marciapiedi di fuoco giorni tenuti insieme con spille da balia Il tempo scorre difettoso e non guarisce ancora quei ricordi che hanno fatto infezione Freddi mozziconi sulle labbra e cenere nel cuore Fuoco che brucia i capelli spettri sui marciapiedi la sua pelle bucata con spille da balia.

ANDREAS È MORTO

ANDREAS È MORTO

Ogni sistema esige il suo sangue.

Da LUNGIDAME#03

Illustrazione di Francesco Pirini

Abbiamo illuminato la nostra città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere perché i nostri occhi servono solo ad ammirare quella sezione di tramonto dalle finestre del nostro salotto. Qui non abbiamo angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle.

Il tramonto di questa sera: lo hai visto? Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, ti garantisco. Perché qui è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare.

Tutto questo perché Andreas è morto.

E così siamo sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli. Nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi. Qui non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico. Qui non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede. Dimentica lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che ora sono sotto la terra ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano. Qui da noi, ciò che fa male è illegale ed è la scienza che lo dice. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco l’esistenza di dio, della sua parola non ne facciamo la nostra legge.

Tutto questo perché Andreas è morto.

Si sta piuttosto bene da noi, sai? Le regole sono semplici, la risposta in godimento per nulla avara. Basta obbedire e c’è chi pensa, agisce e fatica per noi. Il principio della delega portato a vette di perfezione e raziocinio che quasi abbaglia, come il riflesso d’acciaio di ingranaggi scintillanti e sincronizzati. E lì, da fuori, le gazze ladre vedono solo il magnifico bagliore e non possono che rimanere con la bocca aperta e dire che è tutto meraviglioso. Perché è come una melodia divina quello che questi ingranaggi fanno nel loro ruotare e incastrarsi, ruotare e incastrarsi, in quel moto perfetto e inarrestabile che è manifestazione della giustizia poetica.Loro vogliono il controllo, noi vogliamo gustare e sbocconcellare i frutti della loro fatica. Tutto ciò diventa realtà e quotidianità, fin tanto che noi ci accontenteremo di godere e obbedire. Ed è facile farlo quando vivi in quella che senza troppi giri di parole è la città in cui tutti vorrebbero stare. I nostri edifici pubblici sono colorati e pieni di luce. Le nostre mense aziendali servono, con l’equivalente di un ticket restaurant, un pasto genuino ed equilibrato. Verdure fresche e centrifugati di frutta biologica e di stagione. Nessun tipo di intolleranza verrà ignorata. Nessun tipo di scelta etica verrà osteggiata o ridicolizzata perché siamo buoni e la nostra società si basa su valori di uguaglianza e rispetto per le minoranze. Mettiamo gli asterischi per non escludere alcun genere nei nostri aggettivi e sostantivi che la storia della lingua ha voluto al maschile. Nelle imprecazioni, le rare volte che capita, stiamo attenti che nessuno possa essere offeso o che il suo essere – qualsiasi esso sia – possa avere il peso di un’offesa.

Che le sex worker, per esempio, rivendichino il loro mettere sul mercato il proprio corpo. Fuori da qui, dicono, che si usi la parola “puttana” (ed i suoi sinonimi) per giudicare le donne a cui piace particolarmente scopare, che spezzano il cuore, che ci mettono troppo in fila al supermercato, che danno una multa sui mezzi, che non valorizzano gli altri sul lavoro e nella vita o che sono temute. Quella troia di… Qui, invece, le donne si appuntano una spilletta sul bavero del gilet di ordinanza e puoi leggerlo chiaramente che c’è scritto “io sono una puttana” perché è giusto che si sappia che per noi essere una puttana non è un’offesa. Qui riteniamo giusto condividere con l’intera comunità cosa ci piace farci infilare e dove. E guai… Guai, se qualcuno dovesse sorprendersi nel fantasticare – non senza vergogna e magari con le dita attorno al cazzo – di infilare effettivamente quelle cose in quei determinati buchi.Qui le donne sono al sicuro in case assemblate con pareti di vetro, perché ciò scoraggia gli episodi di abusi domestici e i rapporti non consensuali.

Qui non c’è violenza. Non ci sono stupri e molestie perché piuttosto che educare al rispetto e alla cultura del consenso, tutti (ma proprio tutti) gli uomini al compimento del dodicesimo anno di età, preferiscono autoproclamarsi colpevoli di ogni possibile reato a sfondo sessuale. E se i maschi vengono cresciuti come mostri colpevoli e le femmine vengono educate in quanto fragili vittime prensili – simili alle micro-donne sollevate e sbatacchiate dai giganti post-nucleari di Ken Shiro – ça va sans dire che abbiamo tutti accettato quanto segue: in presenza di un uomo e una donna che si desiderano carnalmente, un testimone imparziale rappresentante ogni orientamento o gusto erotico, certifichi che… Sì, il rapporto sta avvenendo secondo tutti i crismi imposti dal buonsenso e soprattutto dai desideri e dai limiti di lei. Desideri e limiti ben documentati, dopotutto, nero su bianco e magari con qualche autoscatto birbantello, ad uso e consumo dell’intera comunità. Da tempo abbiamo rinunciato al romanticismo e abbiamo preferito la mediazione erotica prima di ogni contatto fisico, perché era davvero difficile per noi capire con la nostra testa, il nostro cuore e il nostro corpo, cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. Abbiamo delegato la nostra passione ed il sesso finalmente, così, è davvero un posto sicuro.

Tutto questo perché Andreas è morto. Andreas είναι νεκρός.

Così come nell’antica Grecia, la nostra società sta mettendo le basi di un nuovo ordine sociale che sorge dal fallimento di chi ci ha preceduto. Era estate e le strade polverose di Atene erano messe a ferro e fuoco delle proteste. L’intera nazione in fermento: cani randagi impazziti per lo scoppio di un petardo buttato, non senza un certo sadismo, da quelli che il controllo lo impongono coi conti, i numeri e le proiezioni finanziarie. Perché tutto è calcolabile e possiamo misurare il coefficiente della nostra miseria a partire da un lungo algoritmo; un codice che parte dagli uomini col vestito buono che agitano strette di mani davanti ai fotografi, scivola tra le dita con la french del capitalismo da front desk e prosegue, tra gli scossoni, per quel dito addestrato a tirare il grilletto e fare SBAM. E poi ci siamo noi che abbiamo votato, depositato soldi nelle banche, goduto nel vedere che per le strade non c’erano più straccioni e pezzenti e spacciatori e sì, quando nonna muore col suo appartamento rivalutato dalla gentrificazione forse ci paghiamo le vacanze, la cucina nuova e il master a Sandra che è precaria, povera ragazza. E quando torno a casa non devo più ignorare quelle mani a cu-cu che chiedono soldi. I miei soldi…

E così Andreas è morto. Andreas che è donna, uomo, vecchio, grassa, fragile, troppo magra, immaturo, non abbastanza ricca o troppo povero, testardo, impulsiva, ideologica e invasata, troppo forte e ostinato, sarcastica e pungente, critico, umile e sincera. Andreas è la contraddizione, l’imprevedibilità, colei che commette errori e la caleidoscopica sorpresa che nessuno potrà mai prevedere. Giovane ingranaggio inceppato, come tutti gli ammazzati sull’asfalto dalla mano armata da un sistema che richiede un sacrificio ogni 15 anni. Ogni 15 anni noi abbiamo bisogno di un martire. Cresciuto ed educato con l’illusione di essere libero. Premiato per il suo libero pensare e amare. Lodato ogni volta che si esprimeva fuori dal coro. Come sei originale Adreas! …e quanta immaginazione! Tu non puoi buttarti via come gli altri. Tu sei speciale. Davvero vuoi passare la tua vita a bere Campari al circolino guardando la partita? Aspettando un marito, il lavoro giusto, il quieto vivere e il compromesso? Davvero ti vuoi accontentare della mediocrità che ti circonda? Così si cresce un ribelle. Portandolo nel palmo della propria mano e facendogli credere di essere unico. Ed eccolo l’escamotage, il trucco criminale… Illudere Andreas di poter essere e dire ciò che vuole. Raccontargli quanto sia nobile battersi per la verità. Spalancargli gli occhi e mostrargli la gabbia in cui nasciamo e inoculargli la voglia di lottare per gli ultimi, gli oppressi… Libera nos a malo perché qui è tutto diverso Andreas, ricorda Andreas che noi siamo i buoni!

Noi siamo i giusti! E i nostri valori sono luce nelle tenebre, costellazioni nella buia vastità del caos cosmico. Fino al giorno… Fino a quel giorno in cui, con uno strattone improvviso, Andreas non si accorgerà di quel guinzaglio a strozzo attorno al collo. Ed egli deciderà di ribellarsi e mordere la mano che lo nutre, sceglierà il randagismo e mostrerà i denti al quello stesso mondo che, finalmente, potrà annientarlo nel sangue, giustiziandolo. Sacrificandolo. Guardatelo ora che brutta fine. Non vorremmo davvero condividerne il destino. Perché nessuno di noi, nessuno, vorrebbe morire insozzato del proprio sangue su un marciapiede tra le merde di cane, i mozziconi di sigarette e gli sputi dei passanti. Nessuno vuole vedere il proprio amico cadere, come corpo morto cade, sotto i colpi di un assassino che mai verrà giudicato e punito; il cui sangue non bagnerà mai le radici arcigne e testarde di quell’albero di chi vorrebbe vendicarne la morte – il suo sacrificio. E nessun padre e nessuna madre vorrebbe vedere il proprio figlio quindicenne ammazzato come un randagio, freddato, dai guardiani del potere e…

E niente, maledizione! Allora è meglio obbedire e godere no? Il principio della delega, ricordi? Loro fanno tutto per noi. E non ci è chiesto di pensare, mettere e metterci in discussione, sognare cambiamenti, sorprendersi, cadere male… Dobbiamo solo godere ed essere grati. Ogni 15 anni Andreas verrà giustiziato per ricordarci ciò che conviene. E allora grazie. Grazie Andreas. E grazie a me, ché sebbene io sia nata coi nomi di Valeria e Francesca, sono quella che alla fine muore.

“E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.”

Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio

Sangue, loro vogliono vedere il sangue sporcare le strade. Sangue degli innocenti che a migliaia chiedono vendetta. Innocenti i giornalisti, innocenti i poliziotti, innocenti i burocrati, innocenti i cittadini perbene.
NON CHIEDERAI SCUSA

NON CHIEDERAI SCUSA

Da Lungidame #01

DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE

Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.

Foto di Silvia Polmonari

Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.

Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.  

Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.

L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.

“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir

Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?

E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!

“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.

Lei, Antichrist, Lars Von Trier

Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.  

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.

The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot

Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?

Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.

“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.

“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.

“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.

“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.

Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…

Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.

Ti chiameranno: furiosa.

PATRICIA AMA IL COBRA A SETTE TESTE!

PATRICIA AMA IL COBRA A SETTE TESTE!

Patty Hearst, John Waters e l’Esercito di Liberazione Simbionese…

[Articolo originale qui]

«Tutte le persone in stato d’arresto sembrano più belle. Il più brutto dei criminali sessuali e il più sgangherato dei tossici assumono un fascino particolare quando vengono ammanettati e trascinati al cospetto del pubblico americano affamato di crimine. Un nuovo criminale è l’evento più clamoroso di tutte le star dei media; è l’unico tipo di celebrità che può arrivare dalla mattina alla sera».


John Waters e Patty Hearst nel 1988.

[Valeria] Chi scrive è John Waters, il regista di Baltimora che da una manciata di decadi sfida la morale ed il presunto buon gusto dell’americano medio con i suoi film. La citazione è stata tratta da «Shock. L’autobiografia trasgressiva e irriverente del re del trash»; il libro che è uscito per la Lindau nel 2000, a quasi quindici anni di distanza dalla pubblicazione negli Usa per l’americana Delta.
«Shock» può essere definito come il diario personale di John Waters che, dagli anni Settanta, sembra aver sposato la causa dello scandalo a tutti i costi. Spesso riconosciuto con l’appellativo «the Pope of trash» (il Papa del trash), basta vedere i suoi primi film, per confermare e legittimare quest’insolita investitura.
Scritto in prima persona, ci si aspetterebbe – come in ogni autobiografia che si rispetti – che parta dall’infanzia, e invece no, perché John Waters decide di raccontare la sua vita a partire dalla realizzazione di Pink Flamingos, primo film di successo che lo ha consacrato come massimo esperto del cattivo gusto. Il film (uscito nel 1972), reca il sottotitolo «An exercise in bad taste» e passerà alla storia per alcune scene che è difficile descrivere senza scadere nella volgarità e nell’oscenità. Dalle contrazioni a tempo di “Surfing Bird” di uno sfintere ripreso in primo piano, fino all’orripilante scena cult di coprofagia di Divine, la protagonista, nonché musa del regista: una drag queen biondo platino di circa 150 chili che, nel film, lotta contro gli orribili coniugi Marble per aggiudicarsi il titolo di «persona più disgustosa del mondo».



Patricia Hearst durante la rapina alla Hiberna National Bank (1974).

Tra la narrazione della fase di produzione dei film (Pink Flamingos, Female Trouble, Desperate Living e Polyester), John Waters racconta i suoi ricordi e le sue ossessioni, in modo spontaneo e senza seguire una precisa cronologia. Racconta per esempio della sua passione morbosa per il crimine e i criminali, in un capitolo esilarante in cui descrive la fauna degli appassionati di cronaca nera che non si perdono un processo, tematica che tornerà sia in Female Trouble che nel blockbuster La Signora Ammazzatutti con Kathleen Turner (del 1994, presentato al 47° festival di Cannes).

Ed è qui che leggiamo per la prima volta un nome che non ci è nuovo: Patty Hearst, quella Patricia che ama il cobra a sette teste (simbolo dello SLA – l’Esercito di Liberazione Simbionese), anti-eroe tragico cantato in un pezzo contenuto in “Music is a gun loaded with future” dei Kalashnikov Collective.

Che l’odore dei morti e il dolore dei vivi
Li faccian vomitare
Patricia ama il cobra a sette teste!


«Riuscire ad avere un posto a sedere a un famoso processo è come intrufolarsi alla premiazione degli Oscar: richiede gran pazienza e organizzazione. Al processo di Patty Hearst centinaia di persone aspettarono per giorni nei sacchi a pelo fuori dall’aula di tribunale per poi scoprire che c’erano solo sei o sette posti disponibili per il pubblico.[…] I fan di Patty erano adirati e si rifiutarono di spostarsi, creando così una sorta di Woodstock del crimine. Cantarono “Buon compleanno” a Patty e mangiarono rumorosamnete una torta di compleanno che aveva preparato una groupie di Patty…»


John Waters racconta di aver avuto l’onore di ascoltare la testimonianza di Patricia Hearst e scrive:

«Dopo settimane di studio di foto ingannevoli dell’accusato sui giornali è sempre un’eccitazione vedere coi propri occhi il criminale in carne e ossa. Alcuni fan svengono come groupie impazziti di rockstar. […] Patty Hearst, comunque, fu sempre una delusione, con il suo aspetto così anonimo con le sue scarpe per bene e il suo vestiario da scuola privata: “Questa è Patty Hearst?” continuavo a pensare»


Ma chi è Patricia Campbell-Hearst? In un’America che oggigiorno dedica la copertina di Rolling Stone all’attentatore di Boston e a lettere capitali, scrive “THE BOMBER” e sottotitola “come un popolare e promettente studente, sia stato rovinato dalla sua famiglia e sia finito nell’islam radicale, diventando un mostro”, in un Paese con la più numerosa popolazione carceraria nel mondo (poco meno di ottocento persone in prigione per ogni centomila abitanti circa), in cui è sancito per costituzione il diritto ad essere armati… come si colloca la vicenda assurda, violenta e ipocrita di Patricia Hearst?
Patricia è una ricca ereditiera di diciannove anni, che porta il cognome di una delle più importanti famiglie a capo di un gruppo editoriale. Nel 1974 viene rapita dallo SLA – L’esercito di Liberazione Simbionese e viene tenuta prigioniera in una cabina armadio per diverse settimane, bendata e costretta a rapporti sessuali coi cuoi carcerieri che, dopo poco meno di tre mesi, dichiara: «Mi è stata data la scelta di essere rilasciata in una zona sicura o di unirmi alle forze dell’Esercito di Liberazione Simbionese per la mia libertà e la libertà di tutti i popoli oppressi. Ho scelto di restare e di lottare». Da allora inizia il suo percorso armato al fianco dello SLA, fatto di addestramenti durissimi, rapine in banca, furti d’auto, rapimenti, fughe e clandestinità.
La sua prigionia durò 591 giorni, al termine della quale venne processata, insieme ai tre superstiti dello SLA (sei ne vennero uccisi nel maggio del ’74) e condannati a 35 anni di reclusione. Patty venne difesa dallo stesso avvocato che diventerà poi famoso, per aver fatto assolvere il presunto uxoricidia O.J. Simpson.


L’Esercito di Liberazione Simbionese… in una foto promozionale del film “Patty – la vera storia di Patricia Hearst” (1988).

La tesi della difesa fu quella che Patricia, nonostante i video e le foto di lei con un fucile automatico al collo che rapinava l’Hibernia National Bank, fosse vittima di un lavaggio del cervello e soffrisse di un disordine da stress post-traumatico a causa del rapimento. Si parlò inoltre di sindrome di Stoccolma, dal momento in cui la Hearst s’innamorò di uno dei suoi rapitori e stupratori. L’avvocato, invocando una sfilza di periti illuminati, riuscì a provare persino che il QI di Patricia fosse passato da 130 a 109, facendo così ridurre la sua pena a 7 anni, che poi diventarono 22 mesi, per poi essere graziata dal presidente Jimmy Carter e ottenere definitivamente l’indulto da Ronald Reagan e Bill Clinton.


Patricia Hearst durante il processo.

Di quei 591 giorni in cui Patricia fu ostaggio e complice dello SLA, sono stati girati film, documentari e sono stati scritti numerosi libri, uno tra questi è Pastorale Rivoluzionaria di Christopher Sorrentino, uscito nel 2005 negli Stati Uniti col titolo “Trance”. Non siamo di certo di fronte ad un capolavoro della letteratura, ma è interessante ed utile per comprendere quale sia stato il percorso che ha portato la ricca e viziata Patricia Hearst (che per questioni legali diventa Alice Galton) a diventare quella donna in divisa, in posa davanti al serpente a sette teste con un fucile in mano, che è diventata un’icona al limite del pop, col nome di battaglia di Tania.
Innumerevoli sono i riferimenti di Sorrentino alla parte, al ruolo che, in un certo senso, Patty Hearst decise di interpretare in quella vicenda violenta e sconclusionata, dietro la cui macchina da presa c’erano uomini e donne fanatici e confusi. Il gergo è quello del mondo del cinema e dello spettacolo.

Lei ride, come da copione, e si toglie gli occhiali da sole. Né i rozzi travestimenti, né i pasti frugali, né la dura disciplina dell’addestramento hanno alterato un viso che ormai tutti conoscono. Scandendo le parole, dice: «Sono Tania Galton»
Lei sta per salire in macchina quando Yolanda le ricorda il copione…
Sembra la scena di un film muto…
Lei sente il brivido della fama.


Come le reginette di bellezza avide e ninfette del recente Spring Breakers di Harmony Korine, che intraprendono la via del crimine e della violenza, continuando a ripetersi “è come in un film, è come un videogioco“, ecco che anche la storia di Patricia Hearst nel romanzo di Sorrentino assume delle tinte ludiche e spettacolari, come se la rivoluzione dello SLA fosse prima di tutto, un copione scritto male. Un film assurdo e grottesco in cui la ricca ereditiera dà dei “luridi insetti fascisti” ai propri genitori, in cui rapina banche che appartengono ad amici di famiglia per poi essere graziata dal Presidente che l’ha vista crescere. Una storia che ha di per sé tutti gli elementi per essere spettacolarizzata. Ed è nelle parole di Guy, un cronista che si avvicina allo SLA per raccontare la storia di Tania (e rimediarci un contratto editoriale a sei zeri) che comprendiamo a pieno la fascinazione dell’americano medio per Tania / Patricia Hearst.

«Randi, avresti dovuto vederla durante il viaggio in macchina, quando abbiamo attraversato il Paese. Tutte le volte che vedeva un addetto dell’autostrada o un casellante lei diceva che bisognava farlo fuori perché era un servo del sistema. Se ne stava lì seduta a tracciare delle X sulle foto dei manager della finanza che comparivano suelle pagine di economia del giornale. Quella ragazza brava seduta accanto a me, con il suo accento impeccabile, non faceva che elencare le malefatte dei ricchi fascisti. Se è successo a lei può succedere a chiunque: ecco cosa ci vuole dire lo SLA. E puoi star certa che questo è un pezzo di storia. I posteri la ricorderanno se la principessa terrorista morirà qui, fra queste verdi colline. Ma sarà tutta un’altra musica se lei si arrenderà, se dirà “non facevo sul serio”, se collaborerà con la giustizia e si riprenderà il suo nome, i suoi milioni e il suo fidanzato coi baffetti. Se nel giro di venticinque anni si trasformerà in una madre di famiglia di Hillsborough che va al talk show di Dick Cavett a raccontare i suoi folli trascorsi di rivoluzionaria, allora quella sarà la storia degli annia Sessanta. L’unica vera storia.» 


Non a caso la stessa Patricia Hearst, dopo essersi sposata con la sua guardia del corpo e aver dato alla luce due figlie, intraprenderà una carriera da attrice lanciata proprio da John Waters. E il cerchio si chiude. Più o meno.

[Da un periodico dell’epoca: “Chi c’era dietro l’Esercito di Liberazione Simbionese? Lo SLA era stato forse creato e sviluppato con l’intento di collegare i gruppi di sinistra al terrorismo e alla violenza?”]
To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

[Articolo originale qui]

«Mio caro giovane amico» disse Mustafà Mond «la civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà o eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata come la nostra nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed eroico. Bisogna che le condizioni diventino profondamente instabili prima che l’occasione possa presentarsi. Dove ci sono guerre, dove ci sono giuramenti di fedeltà condivisi, dove ci sono tentazioni a cui resistere, oggetti d’amore per i quali combattere o da difendere, là certo la nobiltà e l’eroismo hanno un peso…» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

La verità ha il suono di uno schiaffo e si presenta come pelle verde e squamosa, sotto un travestimento ben riuscito. Il ricordo comune è quello di un segreto difficile da mandar giù, come ratti ingoiati ancora vivi e scalpitanti, dalla bella e spietata Diana e il suo make-up da top model. Un ricordo indelebile: quel volto sfregiato che svela un orribile rettile, con gli occhi rossi e le pupille a fessura. Per chi è stato bambino nei primi anni Ottanta, quello dei Visitors, è un incubo pop difficile da dimenticare. Ma è stato proprio il desiderio di esorcizzare quella paura infantile e/o la ricerca di una manciata di ore di puro intrattenimento trash e nostalgico, che hanno creato un’occasione di riflessione inaspettata. Tutto inizia con un reporter d’assalto che racconta una guerra. Una battaglia combattuta con armi convenzionali a cui siamo abituati: bombe, fucili, proiettili ed elicotteri militari. Ci sono vittime e ci sono carnefici. I due schieramenti sono ben evidenti. Ed è proprio lì, in tutto il suo mistico orrore, che si presenta per la prima volta l’immensa navicella spaziale dei visitatori. La prima di tante che andranno a proiettare un’ombra minacciosa sulle principali città del mondo. Eppure i Visitatori sono venuti in pace. La loro voce è fredda e metallica, ma parlano la nostra lingua. Parlano a noi. Uno per uno. In ogni angolo della Terra risuona il conto alla rovescia, verso l’alba di una nuova era o verso l’ultima alba che vedremo, pigola spaventata la tipica teenager americana che “non vuole morire senza averlo mai fatto”.Gli alieni hanno scelto nomi “terrestri” perché i loro sono troppo complicati da comprendere e memorizzare. Solo nomi di battesimo, semplici e comuni, senza cognome e senza titolo. Sono John, Peter e Diana. Come il nostro vicino di casa o il collega con cui ci si fuma una sigaretta prima di un turno in fabbrica. I Visitatori sono venuti da noi a causa del sovraffollamento del loro pianeta di origine.

Come può l’umanità far fronte al problema del rapido incremento demografico? Non molto bene. I fatti dimostrano che in quasi tutti i paesi sottosviluppati la sorte dell’individuo medio è considerevolmente peggiorata nell’ultimo mezzo secolo. La gente si nutre peggio. È diminuita la quantità di beni pro capite. E in pratica ogni tentativo di migliorare la situazione è andato a vuoto, per la pressione continua dell’incremento demografico. Ogni qual volta si fa precaria la vita economica d’una nazione, il governo centrale è costretto ad assumersi nuove responsabilità, per il benessere generale. Deve elaborare nuovi programmi per far fronte alla situazione critica; deve imporre nuove restrizioni alle attività dei soggetti; e se, come probabile, dal peggioramento delle condizioni economiche consegue agitazione politica, o ribellione aperta, il governo centrale deve intervenire, a tutela dell’ordine pubblico e della propria autorità. Ritorno Al Nuovo Mondo (Brave New World Revisited) Aldous Huxley, 1958

Le risorse del loro pianeta si stanno esaurendo, al contrario della Terra che ne è ricca. Scopriremo ben presto che quelle “risorse” non sono altro che acqua e carne. Siamo nel 1984 e risulta piuttosto inquietante – una sorta di oscuro presagio – il fatto che a distanza di trent’anni esatti, nella realtà, carne ed acqua siano effettivamente diventate delle emergenze ambientali e sociali. I Visitatori vogliono prosciugare le risorse idriche della Terra ed “importare” il bestiame, cioè l’uomo, per nutrirsene. Esaurite le risorse della Terra, invaderanno un altro pianeta. E così via… perché nonostante abbiano la consapevolezza che il loro tenore di vita sia ingestibile, distruttivo e parassitario, preferiscono aggredire, schiacciare e sfruttare l’”altro” piuttosto che rimettere in discussione loro stessi. 

 La Storia ha però insegnato – a questi grossi rettili antropomorfi – che nell’epoca moderna una guerra manifesta non è quasi mai la scelta migliore. Le guerre sono lunghe, costose e fiaccano gli animi dei cittadini già inquiete per la crisi. Il modo migliore per ottenere ciò che vogliono, è fare in modo che siano gli stessi uomini – l’anello debole del sistema Universo – a fabbricare le catene della propria schiavitù. Abbiamo detto che i Visitatori parlano la stessa lingua dei terrestri ed infatti promettono loro soldi, lavoro ed una cura per il cancro. In cambio prendono in gestione le fabbriche della Terra, scelgono una schiera di giornalisti come portavoce ed istituiscono il club de “Gli amici dei Visitatori”, una falange paramilitare a metà strada tra i Boy-Scout e la Gioventù Hitleriana. 

Hanno quattro dita e un pollice, condividiamo lo stesso percorso evolutivo, dice l’antropologo che comincia a farsi troppe domande sui Visitatori. L’uomo ha notato che hanno la pelle fredda, non mangiano cibo cotto, non vengono punti dalle zanzare e al loro passaggio fanno innervosire gli animali.Sembrano come noi, ma sono diversi. La loro è soltanto una maschera rassicurante,denuncia la biologa che raccoglie un campione della loro pelle “umana”… Spariranno nel nulla. Dall’oggi al domani. Prima nelle università, poi nei laboratori di ricerca ed infine persino i medici negli ospedali. Li prendono uno ad uno. Loro e la loro sconveniente predisposizione a farsi domande. Ma devono farlo  senza destare dissensi, perché il popolo deve continuare ad amarli. I Visitatori hanno bisogno di essere legittimati anche in ambito affettivo. E non c’è nulla come mostrare la propria debolezza per giustificare una presa di posizione autoritaria o un’aggressione violenta. Perché se ci sono delle vittime, ci sono dei cattivi. I giornalisti di regime urlano ai quattro venti che una fantomatica congiura degli scienziati minaccia la stabilità e la pace. Gli scienziati fanno diventare tristi i nostri amici Visitatori! I Visitatori sono buoni! Portano lavoro e portano progresso!Ingrati! Ecco così che gli uomini di scienza diventano detestabili e sconvenienti dal punto di vista sociale. Sono terroristi. Vanno segnalati e tenuti sotto controllo. Non vanno invitati alle feste. Vanno allontanati e disprezzati persino i parenti più stretti o i vicini di casa.

«Ogni cambiamento è una minaccia alla stabilità. Questa è un’altra ragione per cui siamo poco disposti a utilizzare nuove invenzioni. Ogni scoperta nel campo della scienza pura è sovversiva in potenza; anche la scienza deve essere trattata come un possibile nemico. Sì, anche la scienza.» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

È come nel ’38 a Berlino, dice il sopravvissuto all’Olocausto che ospita una famiglia di scienziati fuggiaschi. Li nasconde agli occhi di quel nipote buono a nulla, membro de “Gli amici dei visitatori”. Il ragazzo ha aderito in cambio di armi, una divisa e quel poco di potere, che usa per cercare di far sua la figlia vergine dello scienziato. Al rifiuto di lei segue la vendetta: la famiglia viene denunciata e deportata. Le guardie però, troveranno soltanto il vecchio con la kippah sul capo che intona un canto sacro. 

Insieme alla repressione, arriva la propaganda. Grandi manifesti che tappezzano le strade e che ritraggono i Visitatorisorridenti nelle loro divise ed una grossa scritta “OUR FRIENDS”. Faccio solo il mio lavoro, si difende la giornalista che fa da eco al volere degli invasori. Ho sentito questa frase decine e decine di volte durante il processo di Norimberga, la accusa un collega.E poi c’è la resistenza. Disorganizzata, raffazzonata e per nulla incisiva, ma c’è… e ha il volto di una vecchia che scaglia una molotov nella navicella del nemico. Ha il volto di una giovane leader pasionaria che deve decidere, minuto per minuto, quali saranno le sue azioni. Nessuno le ha spiegato come si fa… eppure lei prende il comando e guida la rivolta. Ed è in questa – qualcuno direbbe – epica ed eroica battaglia che scopriamo però quanta paura, quanta vigliaccheria e quante morti inutili può portare con sé la lotta all’oppressore. Persino in un telefilm degli anni Ottanta! Nessuno dei membri della resistenza è convinto di fare la cosa giusta. Nessuno si sente un eroe o parte di qualcosa di epico. La paura è tale da spingere uomini forti ed intelligenti ad atti vili e codardi. Nessuno ha la certezza che le proprie azioni, il proprio sacrificio o il correre dei rischi, avranno poi un’effettiva ripercussione positiva per la lotta… eppure vanno avanti, spinti da qualcosa che è difficile spiegare…

Viene per esempio, spontaneo chiedersi quanto “eroica” possa sentirsi quella giovane e bella ragazza, nel momento in cui sacrifica il proprio corpo e la propria sessualità, per estorcere informazioni sensibili al nemico reso vulnerabile a affabile durante il post-coitum. O quanta nobiltà ci sia nella crudele – ma utile – morte dell’anziana signora che viene uccisa come un cane in uno scantinato, durante un’azione di sabotaggio. Come c’è ben poco di poetico nel “terrorista di professione” che porta disciplina e tecnica, a quella che era una manciata di uomini e donne disperati. Eppure ogni singolo atto, nella sua confusione o nella sua miseria apparente, porterà gli uomini alla vittoria e alla libertà. Così, come tanti puntini collegati tra loro che conducono ad un disegno più ampio. Un disegno che il singolo individuo forse, non può comprendere nella sua interezza.E c’è quella frase… all’inizio di ogni puntata: 

All’eroismo dei combattenti della resistenza – passata, presente e futura – dedichiamo con rispetto questo lavoro. 

E quella V, rossa, dipinta con la vernice spray. La “V” della vittoria degli uomini liberi.

Morte ai lucertoloni!

Circa i fatti di Parma nella sede della RAF: come riparare 4 crepe prima che qualcosa si rompa per sempre.

Circa i fatti di Parma nella sede della RAF: come riparare 4 crepe prima che qualcosa si rompa per sempre.

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Nel settembre del 2010 in via Testi a Parma un numero imprecisato di individui (da 4 a 6) ha preso parte attivamente e/o come spettatore ad uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza, che da poco aveva compiuto diciotto anni.

La violenza è avvenuta su un soggetto totalmente incosciente, condizione che pare impossibile possa essere stata causata soltanto dal (poco) vino che lei ricorda di aver bevuto. Al momento dello stupro era incapace di dare il suo consenso o di opporre resistenza fisica o verbale. Lo sappiamo perché i suoi stupratori hanno ripreso la scena con un cellulare. Quello che si vede in quel video non lascia alcun dubbio in merito alla natura della violenza di cui sono colpevoli. Colpa, già di per sé terribile, aggravata dalla volontà di infierire attraverso la penetrazione coatta di un fumogeno.

Non avremmo voluto entrare così nel dettaglio; questo elemento tuttavia è importante dal momento che quell’oggetto, o meglio, la parola con cui viene identificato –fumogeno-nei mesi successivi allo stupro è diventato il nomignolo dispregiativo con cui la vittima è stata chiamata. La ragazza del fumogeno non poteva davvero immaginare che i fatti di quella notte, mai denunciati per paura, vergogna o per incolmabile voglia di buttar tutto alle spalle e dimenticare; fossero diventati un fenomeno “virale”.

Quel video è stato visto da decine e decine di persone, guardato e riguardato fino a farlo diventare il simbolo della loro prevaricazione e della sua umiliazione, un osceno spettacolino di cui ridere o vantarsi.

E fin qui tutto male. Anzi malissimo… Eppure il peggio deve ancora arrivare, perché in via Testi a Parma non c’era un pub, una discoteca o un’abitazione privata e neanche un bosco oscuro e minaccioso o un vicolo buio e degradato di un quartiere pericoloso. In via Testi c’era un edificio come ce ne sono tanti nel nostro Paese. Quei blocchi tutti uguali che si confondono uno con l’altro… questo era diverso perché in quel blocco banale di cemento armato c’era la sede della RAF (la Rete Antifascista di Parma) ed i soggetti coinvolti in questa storia di orrore e violenza sono uomini e donne che appartenevano o frequentavano la RAF.

E qui qualcosa si rompe.

PRIMA CREPA

Siamo convinti che il fascismo non sia un’esclusiva della Storia identificabile nel ventennio del regime in Italia. Crediamo anche che i fascisti non siano soltanto i nostalgici di quell’epoca, perché il fascismo non è solo un partito, un regime del passato o una fazione politica a cui unirsi o contro cui lottare. Il fascismo è prima di tutto un’attitudine, un modo di pensare, agire, lottare e odiare. È fascista chiunque usi la propria forza per normalizzare e uniformare le diversità e opprimere le minoranze. È fascista chiunque usi la debolezza altrui per imporre con la violenza la propria volontà. È fascista chi discrimina in base alla sessualità, il genere, il corpo, la spiritualità, la religione, la specie o l’età.

Non possiamo oggi parlare di antifascismo senza condannare ogni sessismo o specismo, perché la lotta per la liberazione della donna e dell’uomo è una guerra per la libertà in difesa degli oppressi, degli animali e della Terra. Una guerra contro la disperazione, l’ignoranza e il potere che opprime.

Uno stupro è sempre e comunque un atto fascista, anche se chi lo commette si dichiara antifascista.

L’antifascismo non è soltanto un coro da urlare in “curva” o una toppa da cucire sul bomber. Essere antifascista è pensare e agire antifascista.

Chiunque stupra è un fascista e noi lo combattiamo in quanto fascista e stupratore.

Chiunque respira, si muove e parla dalla nostra parte della barricata, che si permette di avere atteggiamenti fascisti verrà combattuto in quanto fascista e stupido vacuo pezzo di merda.  

E nei giorni, settimane, mesi successivi alla violenza? La ragazza non denuncia alla polizia, non parla con nessuno; il video continua a girare, tutti lo guardano eppure nessuno VEDE la violenza. Gli uomini attorno a quel tavolo sui cui giaceva inerme la ragazza continuano a frequentare cortei, concerti, spazi occupati e autogestiti… E ridono, parlano, bevono birre, escono con ragazze, stringono nuove amicizie; nonostante giri un video in cui “fanno sesso” con una donna che sembra morta. Non pensano sia sbagliato e nessuno glielo fa capire. La ragazza non ha chiari ricordi, ma sa che quel gruppo di persone le ha fatto qualcosa di brutto, qualcosa che ha percepito come una violenza,e vuole sapere il perché di quel nome, vuole sapere perché i “compagni” di Parma (e non solo) la chiamano Fumogeno. È un amico a dirglielo, un amico che le dice: «è per quel video che gira, per quello che è successo quella notte…»

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SECONDA CREPA

Se una donna o un uomo percepiscono un atteggiamento come fastidioso o violento è una molestia.

Se una donna o un uomo sono palesemente alterati perché sotto l’effetto di alcol o droghe non possono dare un consenso. Senza consenso è stupro.

Può capitare di sentirsi degradati o violati dopo un rapporto sessuale, anche se inizialmente abbiamo dato il consenso. Non sapere cogliere o ignorare i segnali del malessere altrui è violenza.

Se una donna prova piacere durante un rapporto sessuale, lo esplicita. La totale passività a volte è sintomo di un malessere che non riesce ad essere espresso. Il silenzio non equivale ad un consenso. Senza consenso è stupro.

Riprendere un rapporto sessuale senza consenso è violenza. Diffondere un video girato durante un rapporto sessuale (e a maggior ragione uno stupro) senza il consenso dei soggetti coinvolti è violenza.

E non importa se in altre situazioni abbiamo dato il consenso per rapporti di natura intima, sessuale o sentimentale. La violenza troppo spesso avviene all’interno di mura: muri domestici, muri di relazione e muri di appartenenza ad un gruppo sociale e ciò non la rende meno grave. Così come la moralità (intima e politica) di una donna non deve costituire un attenuante al sopruso di un uomo. Se non diamo il consenso e percepiamo una parola, un atteggiamento o un rapporto come degradante o violento è stupro.

E questo dovrebbe essere scontato per chi si dichiara antifascista e quindi anti-sessista.

Chiunque non comprenda questo e non distingua la differenza tra una donna che gode e gioca ed una donna che subisce una violenza, verrà combattuto in quanto fascista, maschilista e orribile vacuo pezzo di merda.

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Lo stupro – ridotto ad un ridicolo spettacolo ad uso della miseria umana di uomini e donne a cui mancano non solo le basi teoriche, ma anche semplicemente il cuore e la testa di capire – sarebbe così rimasto impunito. Un peso schifoso ad esclusiva della vittima, che nel frattempo crolla emotivamente e viene travolta da una spirale di autolesionismo e disperata ricerca di affetto e calore; una spirale verso il basso, fatta di scelte sbagliate, di relazioni tossiche e merda intuibile e/o prevedibile anche senza bisogno di cercare su Google “disturbo post-traumatico da stress dopo una violenza sessuale”. Lei, sola, in balìa dei suoi demoni // gli altri, gli stupratori (e spettatori dell’orrore), in mezzo a noi.

Ma nell’agosto del 2013 un ordigno rudimentale scoppia a pochi passi dalla sede di Casa Pound a Parma e partono delle indagini che come prevedibile, vanno a colpire il movimento anti-fascista e anarchico parmense e delle zone limitrofe.

C’è chi dice che sia stata una soffiata, c’è chi dice sia stata proprio Casa Pound a fare la segnalazione o forse è stato il normale iter delle indagini. Poco importa il come, ciò che conta è il fatto che gli inquirenti sono venuti in possesso di quel video – che gli stupratori avevano realizzato e diffuso – e di un nominativo: il nome e il cognome di colei che troppi hanno chiamato la ragazza fumogeno.

Sola, con i suoi demoni, e un numero imprecisato di carabinieri che le fanno domande per ore e ore. Le chiedono quali sono i suoi rapporti con quel gruppo di uomini e donne che si trovano nella sede della RAF, le chiedono se li frequenta, se sono suoi amici, se sono suoi compagni.

No, non li frequenta.

Perché non li frequenta? Ha forse litigato? Le hanno fatto qualcosa? E lei ci è mai stata in via Testi? E cose le è successo in via Testi? Poi tirano fuori il video e glielo mostrano. E ancora domande. È lei nel video? Chi c’erano quella notte in via Testi? Iniziano a fare dei nomi. Lui c’era? E questo? Sicura che non ci fosse anche quest’altro? Alcuni sono stati identificati nel video. Si sentono delle voci. Di chi sono quelle voci?

Dopo ore interminabili vengono fuori i nomi di persone che lei ricorda nella sede della RAF il giorno dello stupro. E quanti… quanti di noi sarebbero realmente in grado, al di là delle nostre saldissime convinzioni, di reggere?

TERZA CREPA

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Chiunque si dichiari “anarchico” dovrebbe rifiutare lo Stato, le sue Istituzioni e disconoscere la giustizia dei tribunali perché legale non equivale a giusto. Gli anarchici, quindi, non dovrebbero cercare di correggere i torti subìti rivolgendosi a chi le leggi le fa, le impone e punisce chi non le rispetta. Questo perché l’anarchia è auto-organizzazione ed auto-gestione, con il fine supremo del bene comune che dovrebbe superare l’interesse individuale.

Ma se per mantenere e garantire il bene di un gruppo, bisogna schiacciare altri individui, mettere a tacere il malessere e voltare le spalle agli ideali? Possiamo ancora definirci anarchici?

Se rifiutiamo quella legge sorda e cieca che viene imposta dall’alto e punisce chi non obbedisce, possiamo replicarne il modello imponendo la sterilità della teoria, a discapito dell’imperfezione dell’empatia, del buonsenso e dell’umanità?

Chi parla con la polizia è un infame e nei nostri posti non ci deve mettere piede”

E allora chiediamoci perché i primi a VEDERE la violenza in quel video, che tanti compagni e compagne anarchiche avevano guardato, sono stati carabinieri e magistrati. Perché una ragazza che ha subìto una tale violenza si è trovata sola e impreparata “in mano” alle forze armate, addestrate e formate per gestire queste situazioni a loro vantaggio? Dove siamo state in quei tre anni che vanno dallo stupro al giorno in cui due pattuglie sono andate a cercare la ragazza a casa della sua famiglia?Perché al posto di diffondere il video, umiliarla, organizzare assemblee CON gli stupratori non è stato fatto muro attorno alla ragazza? Perché per salvare il gruppo si è deciso di abbandonare chi davvero aveva bisogno?

“Le persone fragili indeboliscono il movimento perché possono essere manipolate da sbirri e fasci”.

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Crediamo invece che il movimento sia debole se non è in grado di accogliere e proteggere i deboli e gli oppressi. Crediamo che il movimento si indebolisca se si arrocca su teorie di purezza e integrità, senza essere capace di accogliere (e formare e informare) anche chi non obbedisce alle Sacre Scritture del rivoluzionario perfetto. Siamo fermamente convinte che non sia questo il momento di fare un processo all’integrità politica di chi ha subìto la violenza degli stupratori (prima) e dello Stato (poi), perché il suo agire non può far passare in secondo piano la condanna dello stupro e della violenza sessista perpetuata da chi si dichiara compagno, anarchico e antifascista. Se dobbiamo fare un processo politico allora facciamolo anche a chi ha stuprato e condiviso quel video, a chi l’ha chiamata fumogeno e facciamolo soprattutto a noi stessi. Noi per prime dovremmo metterci sul banco degli accusati e chiederci che cazzo avevamo in testa quando non abbiamo voluto prendere posizione perché “è stata violentata, MA…”

Durante quell’interrogatorio avvenuto anni dopo lo stupro, è stata redatta dai Carabinieri una deposizione, firmata dalla ragazza, con i nomi di chi lei si ricordava quella sera in via Testi. Tra questi nomi è stata tirata in causa una persona che ha dichiarato di essere all’estero all’epoca dei fatti e che poi è stata prosciolta dallo Stato. Degli altri nominati e convocati dalle Forze Armate come persone informate sui fatti, 4 uomini sono poi stati accusati e ora a processo (di cui uno all’estero che risulta irreperibile), perché identificabili nel video.

Ricordiamoci che stiamo parlando di una persona che non ha mai denunciato e non aveva nessuna intenzione di farlo, ma che si è trovata a doversi costituire parte civile di un processo per reato di stupro di gruppo. Non per un atto politico, non per un’azione del movimento, ma per violenza carnale con una manciata di aggravanti dal momento in cui era priva di sensi quando è avvenuta. A cui si aggiungono quattro persone accusate di favoreggiamento che, secondo gli inquirenti, hanno mentito per coprire gli stupratori o minacciato la vittima per indurla a negare la violenza subìta. Sono innumerevoli i messaggi di minacce e di insulti sessisti con cui è stata bombardata da quando sono partite le denunce. Troppe sono state le occasioni in cui è stata cacciata con violenza, senza la possibilità di essere ascoltata, da spazi occupati e autogestiti.

Per quanto si possa reputare grave il fatto di trovarsi “collusa” con la giustizia, non crediamo che la sua debolezza sia tanto grave da giustificare quello che è stato fatto nei suoi confronti. Per “vendicare” chi era stato convocato dalle Forze Armate o proteggere gli stupratori, infatti, è stata messa in moto una macchina spietata che si è alimentata di voci assurde, minacce e persino aggressioni fisiche nei suoi confronti.Nel darle dell’infame, nel trattarla da infame, è passato il messaggio che è più grave denunciare uno stupro che stuprare. Che sebbene lo stupro fosse avvenuto all’interno di uno spazio politico, risultava difficile prendere posizione perché lei ha fatto questo, detto quello e perché lei è… E noi non crediamo che chi la condanna per aver parlato con le Forze Armate, voglia questo. Speriamo vivamente che il movimento sia abbastanza maturo e lucido per distinguere le due cose e contestualizzare i fatti. Condannare la violenza senza se e senza ma e poi, in un’altra sede e coi giusti modi*, riflettere sul perché si siano creati i presupposti di ciò che è successo.

*I GIUSTI MODI: quanti di noi le hanno scritto o chiesto la sua versione? Quanti di noi l’hanno minacciata con messaggi anonimi o su Facebook per poi bloccarla e non darle la possibilità di parlare? Quanti di noi hanno diffuso le “voci” messe in circolo dagli accusati senza mettere in discussione la fonte? Quanti di noi hanno reputato più grave la presunta infamia di uno stupro? Quanti di noi attaccano la Giustizia dei tribunali per poi formulare le proprio accuse con le loro carte e i loro metodi? Quanti hanno chiesto di vedere il video perché “altrimenti non ci crediamo”? Ed è così che pensiamo di gestire la nostra giustizia all’interno degli spazi?

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QUARTA CREPA

Alla base dell’antisessismo ci dovrebbe essere la forza di condannare qualsiasi forma di violenza ai danni delle donne in quanto donne. Ciò non significa difendere una donna per partito preso, ma condannare ogni stupro anche se fatto da “compagni”, amici o uomini che amiamo. Anche ai danni di una donna che reputiamo esecrabile, meschina o nemica. Anche se ci ha fatto del male. Una femminista non insulta un’altra donna per il suo aspetto fisico, per le sue preferenze sessuali o per i suoi appetiti erotici. Una femminista non usa espressioni violente e maschiliste ai danni di un’altra donna. Per quanto siano nobili le motivazioni, la violenza sessista (fisica e verbale) è per noi condannabile, inaccettabile e ci batteremo duramente contro di essa. 

Concludiamo.

Se anarchici vogliamo creare una socialità-altra all’interno dei nostri spazi libertari, rivendichiamo le nostre idee e i nostri corpi, rifiutiamo il ruolo delle istituzioni in ogni sua forma, combattiamo il braccio armato dello stato, tanto da chiamare lucidamente infame colui che denuncia un compagno; non possiamo che chiederci ora cosa abbiamo fatto negli anni in cui avremmo dovuto cercare le modalità di tutelare una vittima, coscienti del nostro ruolo, prima della macchina giudiziaria, prima della meraviglia di fronte al crollo emotivo di una donna. Sei anni di silenzio.

Eppure sapevamo bene che l’omertà è da sempre fedele compagna della violenza maschile.

Come possiamo definire libertario un luogo in cui può avvenire una violenza tanto grave da essere definita stupro, anarchico colui che perpetua atteggiamenti che condanniamo nella società patriarcale, fascista, omertosa e violenta?Come possiamo oggi definire questi spazi liberati e noi liberi?

Ciò che è accaduto a lei poteva succedere ad ognuna di noi. Messa da parte la teoria astratta, la marzialità di un codice e il superomismo celodurista che preferiamo lasciare a predicatori, soldati e bulli, non possiamo che essere orgogliose di lei e della sua forza, oggi, perché ciò che ha vissuto avrebbe forse annientato molte di noi. Quell’incredibile forza che sta dimostrando nel voler rivendicare il diritto a frequentare i nostri spazi e il suo coraggio davanti all’oscenità perpetuata nell’aula di Tribunale, dove si ritrova – davanti agli occhi dei suoi stupratori – a rivivere ogni istante, ogni sensazione, ogni ricordo legato a quella notte e alla sua vita intima passata e presente.

Ed è con la sua stessa forza, nella nostra unione, nella nostra voglia di lottare in nome della gioia, dell’ironia e della rivolta contro l’esistente che rivendichiamo la stessa urgenza che è dell’essere punk. Ci sarà il tempo dei comunicati ben scritti e dei percorsi a lungo, lunghissimo termine atti a rivoluzionare i nostri mondi – li stiamo già facendo così nell’intimo così come nei nostri spazi – ma ora è tempo delle parole urlate, della follia sgangherata dei tre accordi suonati con tutta la nostra forza, della bellezza imperfetta delle nostre anime in subbuglio, perché da sempre il punk ci ha insegnato ad usare il cuore, la testa per mettere in discussione e contrastare ogni tentativo di oppressione e subordinazione alla norma.

Ed oggi ci alziamo in piedi, ritti come chiodi che scintillano nella notte delle belle cose, insieme, contro la violenza avvenuta quella notte in via Testi, la vergogna di quel video diffuso e l’orrore di quel nomignolo. Contro il suo abbandono e l’incapacità di vedere il disagio di una donna. Contro l’omertà e il muro di silenzio. Contro i modi e il linguaggio adottati nei suoi confronti. Contro chi l’ha processata, condannata e punita basandosi su voci e fatti incompleti e di parte. Contro chi l’ha minacciata, aggredita, allontanata dagli spazi occupati usando la violenza…

Ed è contro tutto questo che aprendo la bocca è uscito questo urlo.

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