Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amato. Pittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.
Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.
Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.
SOGNI INFRANTI
Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.
ACCOGLIERE L’IMPERFEZIONE DI UNA MELA BACATA
Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.
LA RIVALSA DEI COLORI
Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.
NARJES GHORBANI
Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.
Un giorno di novembre del 1968 ha visto la luce il White Album dei Beatles, che si rivelerà il disco più venduto – e forse il migliore – della band di Liverpool. La copertina, dopo lo sfarzo caleidoscopico di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, è completamente bianca, se non fosse per il nome in rilievo visibile solo in controluce.
1Q84 di Murakami Haruki, per tanti e diversi motivi, può essere considerato il suo White Album. Quell’opera insomma, che sia un film per un regista, un album per una band o un libro per uno scrittore, capace di esprimere in tutta la sua complessità l’essenza stessa dell’artista. Qualcosa che può e dovrebbe essere fruito e conosciuto, senza paragoni o confronti con quello che c’è stato prima e che potrebbe venire dopo. Si potrebbe dunque parlare di 1Q84 senza doverlo confrontare con le produzioni passate dell’autore, aprendo però una piccola parentesi. Molti lettori hanno conosciuto Murkami con Norwegian Wood / Tokyo Blues(titolo cangiante a seconda delle edizioni) e ne sono rimasti delusi. Sebbene sia uno dei suoi libri più conosciuti e letti, come scrive lo stesso Murakami, nell’introduzione dell’edizione italiana del 2006, edita da Einaudi e tradotta da Giorgio Amitrano, si tratta di un esperimento, una distrazione e un gioco (nonostante la gravosità del dramma esistenziale narrato) ricercato come forma di divagazione e/o smarrimento volontario dal suo romanzo-tipo. Una sorta di vacanza da se stesso, insomma, per cui sarebbe errato giudicare la sua intera produzione. 1Q84, del White Album, oltre all’importanza, dovrebbe condividerne anche la copertina: tutta bianca che riporta solo il nome dell’autore e il titolo dell’opera e niente più. Senza sinossi, riassunti o spiegazioni perché ogni informazione condivisa in modo così diretto ed esplicito, ci impedisce di scoprirla e di conquistarla, goccia dopo goccia, sapientemente distillata dallo stile a tratti ipnotico dello scrittore.
Leggere 1Q84 vuol dire farsi accompagnare da Murakami nel disvelamento di alcune (non tutte) delle numerose, intricate e a tratti spaventose questioni, che compongono questo mastodontico testo di oltre mille pagine nella sua interezza. Bisogna chiudere gli occhi, abbandonare ogni freno dettato dal raziocinio e tuffarsi in quel 1Q84, anno distopico, in cui tutto può accadere. Può succedere per esempio che sei piccoli omini che parlano in coro e cantano «hoo-hooo», nati dal cadavere di una capra in stato di decomposizione, costruiscano una crisalide d’aria per generare l’erede del leader spirituale di una misteriosa e potente setta di ex intellettuali, che si sono dati all’agricoltura biologica. Come è possibile concepire figli senza rapporti sessuali e che un esattore in pensione della NHK, l’emittente di Stato, continui il suo giro di riscossione del canone nonostante sia in coma. Un mondo, un universo parallelo, in cui in cielo brillano due lune e le civette danno saggi consigli. Questi sono alcuni degli elementi satellitari di quella che è la storia principale. O meglio, le storie, perché la trama è scissa e procede come binari paralleli che sembrano destinati a non incontrarsi mai. I personaggi principali sono due: un uomo ed una donna di circa trent’anni. Il primo è Tengo, insegnante di matematica, aspirante scrittore, che accetta di riscrivere un romanzo di fantascienza scritto da un’enigmatica diciassettenne dislessica. E poi c’è Aomame. Si parlava del White Album e del fatto che anche 1Q84 meriterebbe una copertina bianca e silenziosa, ma così non è stato. L’edizione italiana per i tipi di Einaudi, che consta di due libri, al contrario dei tre previsti nell’edizione giapponese (nella versione italiana i primi due sono raccolti in un unico volume), nella quarta di copertina riporta alcune semplici righe che ci dicono qualcosa. Ci dicono, per esempio, che Aomame è “spietata e fragile. È un killer che in minigonna e tacchi a spillo, con una tecnica micidiale ed impalpabile, vendica tutte le donne che subiscono violenza”. Informazioni che il lettore invece dovrebbe scoprire poco alla volta, scrutando nella stessa anima e nella storia personale della donna, dopo un’introduzione a tratti Lynchiana del personaggio.
Murakami infatti ci presenta Aomame lentamente e, senza fretta o impazienza, ne descrive le azioni apparentemente convenzionali, come prendere un taxi, rimanere imbottigliata nel traffico, aver paura di fare tardi e prendere una decisione avventata, fino a quando, con la stessa pacatezza, c’informa che custodisce un’arma letale nella borsetta. Tutto questo senza che il ritmo subisca scossoni o slanci tipici di chi vuole creare senzientemente un senso di suspance e mistero. Nessuno di quegli artifici insomma, atti a catturare l’attenzione del lettore. No, Murakami non smette mai, neanche nei momenti di massima tensione, anche a costo di innervosire il lettore con le sue descrizioni ultra-dettagliate e ripetute all’ossesso (il piccolo seno di Aomame, la testa deforme dell’investigatore privato Ushikawa, il sesso di Tengo, le piccole orecchie della giovane Fukaeri, la loro routine quotidiana…), di descrivere tutto con lentezza e parsimonia. Lento e ripetitivo come un pendolino che fa tutte le fermate senza frenate brusche o accelerazioni improvvise. A tratti meccanico, come le giornate dei due protagonisti, Tengo e Aomame, che conducono le loro vite come se stessero galleggiando nel liquido amniotico. Soli, senza amare o essere amati. Uccidono, fanno sesso e poi mangiano, lavorano, frequentano persone, senza mai vivere a pieno la loro esistenza.
Il contesto.
Tengo è il figlio di un esattore della NHK vedovo e Aomame appartiene ad una famiglia di religiosi fondamentalisti. I due, bambini, sono obbligati dai genitori a peregrinare di casa in casa per compiere la loro missione. Riscuotere il canone il primo, fare proselitismo la seconda. Entrambi si vergognano e hanno difficoltà ad integrarsi a scuola. Un giorno, dopo l’ennesima umiliazione subita dalla piccola Aomame, Tengo la difende e decide di proteggerla dalla ferocia e dalla crudeltà degli altri bambini. Da quel momento, tra i due, si stabilisce un legame eterno ed inviolabile che li accompagnerà per tutta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta, nonostante vengano separati dalle vicende della vita. Come due binari – è stato scritto – come due binari che sembrano destinati a non incontrarsi mai, fino a quando, in modo differente, i due entreranno senza accorgersene nel 1Q84, un 1984 alternativo, la cui Q rappresenta la Q di “question” (il 9 in giapponese si pronuncia “kyu”, come la Q in inglese) che è il nome attribuito dalla stessa Aomame, alla sua “condizione” nel momento in cui capisce di non essere più nel mondo che aveva sempre conosciuto. Tengo si ritroverà in quell’universo parallelo con due lune in cielo, nel momento in cui decide di riscrivere La crisalide d’aria, un romanzo scritto dalla giovane Fukaeri che si scoprirà essere la figlia del leader del Sakigake, una setta nata negli della contestazione giovanile e carica di segreti. Nel romanzo di Fukaeri si raccontano fatti apparentemente privi di senso, come la nascita dei misteriosi ed inquietanti Little People, dalla bocca di una capra in stato di decomposizione o della presenza di due lune in cielo: una grande e bianca simile a quella di sempre ed un’altra più piccola e verde che brilla di fianco alla prima. Ciò che Tengo scrive nel romanzo, poco alla volta, tende a sostituirsi con la realtà portando il lettore stesso, a perder il senso di ciò che è finzione e ciò che è finzione nella finzione. Nello stesso momento in cui Tengo riscrive La crisalide d’aria, Aomame viene attirata come da un magnete e catapultata nel 1Q84, e finirà per avere una parte fondamentale nella storia, quando le verrà chiesto di uccidere il Leader del Sakigake che si è macchiato dell’orribile crimine di violentare le figlie dei seguaci della setta.
1Q84 riesce ad essere un thriller, un libro di fantascienza, una storia d’amore ed un meta-romanzo senza però subire nessuna delle convenzioni dei differenti generi. D’altronde Murakami lo farà dire ad uno dei suoi personaggi, Tamaru, il “gorilla” omosessuale alle dipendenza dell’anziana signora che commissiona gli omicidi di Aomame, che Checov sbagliava nel dire che «se in un romanzo c’è una pistola, quella pistola deve sparare». Rifiuto delle regole dunque, ed infatti tanti enigmi non verranno svelati e anche quando il lettore crede d’intuire un senso, questo verrà messo a dura prova, smontato e destrutturato dagli eventi stessi, lasciando tanti “perché” sospesi come pistole che non sparano e proiettili inesplosi. Prima di essere un libro, 1Q84 è una serie di universi. Ogni singolo personaggio meriterebbe un romanzo a sé. Grazie anche al suo stile ipnotico, riesce a far entrare a piedi pari in quel mondo tanto magico quanto inquietante. Al punto tale che, una volta terminata la lettura, ci si ritrovi con gli occhi verso il cielo a controllare che in alto non splendano effettivamente due lune.
Everyone, everyone in these eyes I will witness the fall of Efafra I will witness, witness the fall
(Last but not least, Owsla, Fall of Efafra)
[Articolo originale qui] Il primo ricordo che accomuna tutti i bambini ormai adulti che hanno visto La Collina dei Conigli, film di animazione di Martin Rosen del 1978, è il ricordo del sangue.Tratto dall’omonima opera letteraria – raro caso in cui il titolo italiano è forse migliore di quello originale (Watership Down) – di Richard Adams, del 1972, La Collina dei Conigli racconta la storia di un “branco di conigli protagonisti di una meravigliosa epopea della libertà”, come recita la copertina dell’edizione italiana (Rizzoli-Bur) del 1975. Sangue… Sangue che invade la conigliera da cui tutto parte, in una visione di Quintilio, coniglio preveggente e fratello del giovane Moscardo. Quintilio e Moscardo sono conigli “periferici”, in quanto plebei e minori di un anno di età che, per questa ragione per esempio, se trovano una primula durante la silflaia (il pascolo) devono cederla ai conigli dell’Ausla. L’Ausla di una conigliera è costituita dagli esemplari che eccellono in determinati ambiti e che dettano legge sul resto del branco. Vi sono Capi Coniglio che preferiscono circondarsi di un’orda di guerrieri, altri che favoriscono gli impavidi esploratori e, altri ancora, che premiano gli astuti razziatori. Ma Quintilio è troppo giovane e poco influente per far sì che il Coniglio Capo gli dia ascolto e così, la sua orribile visione (la luce rossa del tramonto che diventa un lago di sangue sulla loro conigliera), rimane inascoltata. Solo il fratello e pochi altri conigli decideranno di seguire Quintilio nella sua fuga verso l’ignoto.
For Man came knocking at our doors, sank teeth within our home. In those quiet hours,where the elil ruled, the sky, the ground, our thoughts. We prayed for pity, but received none. We gasped for breath, But no breath came. Forgive us El-Ahrairah! Prophet of two faces. (For El-Ahraihrah To Cry, Elil)
Il loro viaggio, irto di pericoli, viene allietato dalle novelle di Dente di Leone grazie alle quali scopriamo la storia, il credo e le norme sociali di una conigliera. Scopriamo per esempio che Fritz, il dio di ogni cosa, aveva creato un mondo in cui gli animali erano tutti uguali tra loro e vivevano in pace ed armonia grazie all’abbondanza di cibo; ma fu proprio a causa dell’avidità, dell’arroganza e della prolificità della conigliera di El-Ahrairà (il primo coniglio) che Fritz decise di punirli rendendoli codardi e prede degli altri animali. «Ascolta El-Ahrairà . Il tuo popolo non potrà dominare il mondo intero, perché io non lo permetto. Tutto il mondo sarà vostro nemico. E chi ti catturerà, ti ammazzerà, Principe dai Mille Nemici.»
Ecco così, che il peccato originale viene castigato ed ai conigli, che sanno contare fino a quattro dopodiché c’è un generico Hrair (molti ovvero mille), non spetta altro che ingegnarsi e difendersi dai Mille Nemici (Elil), quali volpi, gatti, rapaci, faine e soprattutto l’uomo. Interessante la descrizione delle “cose degli uomini” da parte dei conigli che, ignorando l’aspetto utilitaristico di strade, ponti e automobili li riconoscono per la loro difformità rispetto al contesto naturale (forme geometriche regolari, angoli retti e odori sintetici) e li descrivono per il loro impatto violento con l’ambiente in cui si collocano. Ecco dunque che l’automobile si chiamahrududù per via del rumore assordante che produce e la strada invece…
“Sbucati dall’altra parte della fratta, Moscardo guardò stupito la strada asfaltata. Lì per lì gli fece l’effetto di un fiume: nera, liscia, dritta fra i suoi argini. Poi notò che era fatta di ghiaia e bitume, e vide un ragno che vi zampettava sopra. “Ma non è una cosa naturale” disse, annusando i forti e strani odori, di catrame, di benzina. “Che cos’é? Come c’è venuta qui?”. “È roba d’uomo” disse Parruccone. “La fanno apposta, e ci corrono sopra i hurddudù… più veloci di noi. E chi altri sennò potrebbero correre più svelti di noi?”
Moscardo e gli altri, in cerca di una casa, incontreranno altri conigli. Ogni coniglio, in un certo senso, diventa manifesto di una precisa società e del posto (o ruolo) che decidiamo di assumere nella vita in quanto cittadini, lavoratori, schiavi, padroni, vittime o predatori, ma soprattutto qual è il costo, in termini di libertà, che siamo disposti a pagare in cambio di un apparente benessere e di una fantomatica sicurezza.
A bastard son of a bastard god Stolen saviors of ancient tome Misshapen idols in manmade temples A bloodied hand across our mouths. And so we stand, ever waiting the end, eyes skyward, ever waiting the end (Beyond the veil, Elil)
Nella conigliera di Primula Gialla, per esempio, non ci sono capi e tutti sono ben nutriti e in salute. Una società che rinnega gli antichi dèi (non credono in Fritz e nelle parabole di El-Ahrairà), composta da conigli uguali tra loro e liberi, che vivono in pace e hanno dimenticato – e rinnegato – l’arte dell’astuzia lapina e del combattimento. Una conigliera però, in cui non c’è memoria e non c’è “informazione”. Moscardo e gli altri scopriranno ben presto, che non è ammesso far domande, così come è sconsigliato chiedersi perché, l’uomo della fattoria vicina, si premuri di lasciare grandi quantità di cibo incustodito nei pressi delle tane. Primula Gialla e gli altri conigli convivono con l’uomo, ma qual è il prezzo da pagare per aver venduto la propria “anima”? Gli agi, il benessere, l’abbondanza di cibo esigono il loro sacrificio in sangue e quindi, poco importa se l’area della conigliera è crivellata di trappole per conigli che vengono ritualmente catturati per essere uccisi, scuoiati e mangiati. Ecco che così, nella società perfetta di Primula Gialla senza capi, conflitti e miseria, i conigli “spariscono”, ma nessuno si chiede dove essi siano. Una società ricca e apparentemente sicura, di conigli depressi e incapaci di autodeterminare la propria esistenza, in cui i deboli vengono sacrificati in nome del bene comune. Situazione analoga a quella dei conigli “domestici” imprigionati nella casa del fattore, che però non vengono macellati, in quanto adottati dalla giovane figlia dell’uomo. L’accettare di vivere in una gabbia dunque, di essere portati nel prato qualche ora al giorno (quando la bambina ha voglia di giocare con loro) e il non conoscere nulla all’infuori della propria prigionia, in cambio di cibo e protezione. Una dolce cattività, prima di tutto psicologica, che ricorda le gabbie emotive e relazionali di una società conformista in cui, troppo spesso, si vive il proprio ruolo all’interno della famiglia – fatta di affetti e imposizioni – come l’unica via possibile per approcciarsi al prossimo. Con annessa anche una piccola e forse un po’ scontata, riflessione sull’ipocrisia (o “dilemma” come direbbe qualcuno) che sta alla base della distinzione binaria tra animale domestico/animale da macellare, peluche/cibo dell’onnivoro.
What animal separates this ape from that? The human animal; ignored and loathed by louse and lion. Reveal in our glory, in every brother is quarry. Butcher every life, until our land is stained and dead. From our towers we cry: «Every man shall bear a soul, a right that no other beast shall bear». And in the shadows the dogs shook their heads «shame upon those apes, pride comes before a fall» (A soul to bare, Owsla)
“Will you join my owsla?” (Simulacrum, Inlé)
Ma è in Efrafa, la conigliera del Generale Vulneraria, che Richarda Adams descrive la peggiore società immaginabile. Una dittatura spietata e contro-natura in cui i conigli della plebe vengono marchiati e la cui vita – quando fare silflaia, quando fare hraka (defecare), con chi figliare – è vincolata dall’appartenenza a quella o quell’altra “marca”. La miseria della propria esistenza è accettata e giustificata dalla speranza dell’ascesa sociale.«Buona parte di loro non riescono a far altro che quello che gli dicono di fare. Non si sono mai allontanati da Efrafa, non hanno mai fiutato un nemico. L’unica aspirazione che hanno, è d’entrare nell’Ausla, per goderne i privilegi.»
We splinter the timber, stand over the general. The jabbering magnate, dethrowned and devoured. Dismember! Scour this mantle! We lingered far too long. Smelt the chains! Leave nothing unturned! We suffered far too long. (Woundwort, Inlé)
Una società in cui tutto ciò che è forestiero ed esterno rappresenta una minaccia, in cui gli hlessil (conigli selvaggi che non appartengono a nessuna conigliera) vengono catturati ed obbligati a vivere secondo le regole del Generale Vulneraria.
Peace is lost to us now, A fettered ideal. They are the warmongers And they will make our laws A paw will fall upon the weak They will mark the day (The fall of Efrafa, Owlsa)
Una società militare e sovraffollata in cui sono le femmine a pagare il prezzo più caro, schiave e vittime dei soprusi dei conigli dell’Ausla, che possono “farle proprie” a loro piacimento, per aumentare così la popolazione e il prestigio personale e di Efrafa tutta. “Un animale selvatico che senta di non aver più alcun motivo di vivere, arriva infine a un punto in cui le sue energie residue possono effettivamente orientarsi verso la morte. […] Ecco, adesso sentiva che la disperazione non era lontane da quelle coniglie.[…] Sapeva che gli effetti del sovraffollamento e relative tensioni si manifestano prima nelle femmine. Esse divengono sterili e aggressive. Ma siccome l’aggressività non approda a nulla, spesso quelle cominciano a scivolare verso l’unica via d’uscita.” Le coniglie di Efrafa, che “riassorbono i propri cuccioli prima di darli alla luce” – negando il proprio futuro e auto-sabotando la possibilità di sopravvivenza della specie- sono le prime a ribellarsi e a tentare una fuga che verrà repressa nel sangue. Moscardo e gli altri, venuti a conoscenza della condizione dei conigli di Efrafa, decideranno di combattere il Generale Vulneraria e di mettere fine alla sua dittatura, anche a costo di pagare con la propria vita.
Our hands are raised in unison. Brandished tools, branded skin. Cut away, like so much meat, we forged new scars against ill repute, we hold on tight to one another. I am legion for we are many. (Warren Of Snares, Inlé)
La storia di Moscardo e della sua guerra contro la dittatura di Efrafa, ha senza dubbio ancora tanto da raccontare su noi stessi, prima di tutto. Un’epopea, una favola, un’opera di fantasia che fa riflettere e meditare sul fatto che non può esserci libertà né pace, per chi è privo di empatia e, vivendo nel conformismo e nell’indifferenza, non combatta e non faccia sua la lotta degli ultimi di questo pianeta.I Fall Of Efrafa, band dell’East Sussex, (come avrete capito!) ha dedicato a questa storia la trilogia “Warren Of Snares”, composta dagli album Owsla (Alerta Antifascista/Behind the Scenes/Fight For Your Mind – 2006), Elil (Alerta Antifascista/Behind the Scenes/Fight For Your Mind/Halo of Lies – 2007) e Inle (Halo of Lies/Denovali Records – 2009). Ah! Qui è possibile scaricare il capitolo del romanzo in cui Pungitopo, fuggito da Efrafa, descrive l’incubo della dittatura…
“La via per Berlino” è un racconto di Silvia Ballestra del 1991, che solo un anno più tardi è diventato un romanzo dal titolo “La guerra degli Antò”, da cui poi è stato tratto l’omonimo film del 1999 per la regia di Riccardo Milani. «Verso le diciannove di ogni sera, il nostro Antò finiva di cenare; (in genere mangiava cose tristi: salumi da poco prezzo, pizze congelate, paste al pesto o condite con sughi già preparati. Cenava solo, naturalmente».
La storia racconta l’epopea di Antò Lu Purk e dei suoi amici Lu Zombi, Lu Zorru e Lu Mmalatu. Tutti e quattro punk, tutti e quattro di Montesilvano (PE), tutti e quattro con lo stesso nome: Antonio per l’appunto. Lu Purk è “quello che se ne va” da Montesilvano, dall’Abruzzo, da mamma, nonna e zii alla volta di Bologna, mentre gli altri decidono di restare perché, come dice Lu Zorru in una scena: «Ci vuole coraggio ad andare, ma ci vuole anche coraggio a restare a Montesilvano!» Continua a leggere →
Mi verrebbe voglia di prendermi a schiaffi da sola per ciò che sto facendo e cioè accostare una meravigliosa pagina di letteratura italiana (tratta da “La Storia” di Elsa Morante), a quello che sto per scrivere, ovvero il mio personalissimo anatema contro un’espressione e un fenomeno sociale specifico: ALL YOU CAN EAT.
Sono quei ristoranti dove con pochi e indeformabili euro possiamo prendere tutto ciò che ci riesce di mangiare, prendi quello che vuoi quante volte volte vuoi.
Se ne è già parlato anche qui su Dissapore, è proprio alla domanda con cui si chiude il post (“Ci si riempe lo stomaco senza svuotare il portafoglio, il solo metro è la dismisura, l’unica categoria è l’enormità. Ma resta un pregiudizio a frenare il successo del modello all you can eat in Italia, il pregiudizio che in questi ristoranti si mangi male. Solo un pregiudizio?” ) che rispondo con il brano tratto dal romanzo di Elsa Morante.
Non ho provato tutti i ristoranti che praticano il cosiddetto ALL YOU CAN EAT, ma qualcuno sì. A Milano, come in Inghilterra così come in Giappone. E la risposta, per la mia umile esperienza è che sì, si mangia male, ma non è della qualità del cibo che sto parlando, o almeno… non solo!
Parlo della modalità, del rituale e del fenomeno antropologico che consiste nel servirsi da sé, quando si sa che ciò che si mangia è gratis o costa poco. Io, che sto sempre dalla parte degli ultimi e mi sono fatta le ossa recensendo birre spuzze e formaggi che diventano blu, posso permettermi di giudicare l’avventore medio di un ALL YOU CAN EAT.
Perché posso farlo?
Perché non ho un’attitudine snobistica nel farlo e perché, a costo di risultare impopolare, se mi dovessero offrire una cena sceglierei comunque un ristorante cinese di provincia (coi suoi buffi e graziati regalini, tanto fragili quanto di cattivo gusto), rispetto a un qualsiasi locale blasonato. – Io sono uno di voi! –
Questo post potrebbe iniziare come quelle vecchie barzellette dal respiro europeo con il francese, l’inglese, il tedesco e l’italiano, in cui quest’ultimo se la cava sempre e si distingue in quanto a furbizia, creatività e tendenza a rubacchiare e/o mentire.
Perché fondamentalmente siamo un popolo con la capacità a prendersi poco sul serio e abbiamo un profondo senso dell’autoironia e dello sfottò bilaterale. Non abbiamo il senso di grandeur francese, non siamo lord come gli inglesi e non siamo fieri e orgogliosi come i nazionalisti USA-centrici d’oltreoceano.
La dolce Geum-ja ha scontato tredici anni di carcere per aver confessato il rapimento e l’omicidio di un bambino. Durante la detenzione ha aiutato i deboli, ha assistito il prete del carcere, ha punito i violenti e soccorso i malati. Tanto bella e buona da ricordare la Madonna, diventa difficile comprendere come abbia potuto commettere un tale reato.
Ma infatti non è stata lei.
Geum-ja è innocente. La donna, protagonista di Lady Vendetta (Simpathy For Lady Vengeance) film del regista coreano Park Chan-wook del 2005, nel cui remake americano reciterà Charlize Theron, ha confessato un crimine commesso dall’uomo che amava.
Dopo tredici anni esce dal carcere e il prete, guida spirituale che l’ha seguita durante la detenzione, le porge un piatto con un panetto di tofu.
Giovane, predisposta al martirio, si avventura nella pizza low cost giapponese
Nella mia umile e limitata esperienza di fondatrice e curatrice di un blog in cui si recensiscono prodotti del discount, ho scoperto una cosa. Chiamatela folgorazione, illuminazione, rivelazione… ciò che conta è che nel momento dell’epifania, io mi sono sentita come Santa Teresa nel pieno di quell’estasi mistico-erotica sapientemente scolpita dal Bernini.
Questa piccola rubrichetta si chiama “Io sto con Murray” e per saperne la ragione – se non l’avete ancora fatto – vi tocca rileggere il primo post con cui ho esordito, qui, su Dissapore.
Quale sarebbe questa verità? Vi chiederete voi ed io ora lo spiego: la sublime arte di legittimare e dare dignità agli ultimi (prodotti del discount, tarocchi, industriali e bruttini per esempio), può essere applicata a qualsiasi ambito della nostra vita. Quando dico “Io sto con Murray”, riferendomi al personaggio di Don DeLillo in “Rumore Bianco”, io sto gridando a gran voce: «Io sto con gli ultimi. Io sto dalla parte dei pariah, dei negletti, degli innominabili…»
Ecco allora, che la mia missione (e la mia predisposizione al martirio) mi porta ora a cercare di raccontarvi, nel modo più dignitoso possibile e con il massimo rispetto del caso, qualcosa che farà rabbrividire i più e cioè…
La pizza in Giappone ha un nome e un cognome. Quel nome è Salvatore e quel cognome è Cuomo; Salvatore Cuomo: pioniere della pizza nella terra del Sol Levante, ha ormai costruito un impero di ristoranti e bar sparsi qua e là tra Tokyo e Osaka.
La vera pizza napoletana con i migliori ingredienti, in un ambiente famigliare e confortevole, che però io non ho mai sperimentato. Perché? Perché per una margherita “da Salvatore” bisogna preventivare di lasciarci giù circa quindici euro per una pizza grande come un 45 giri di vinile. E poi lo ammetto, sarebbe stato tutto troppo facile cominciare dal migliore.
Invece io, masochista della forchetta in terra straniera, ho deciso di stare dalla parte degli appestati e degli ultimi. Come quella volta in quell’izkaya coreano (un pub in cui si fanno le ordinazioni attraverso futuribili touch-screen installati sui tavoli)… ancora rammento quell’oscena cosa – impossibile definirla pizza – che popola tuttora i miei incubi: Pasta fillo (giuro), una sgommatina di pomodoro, una sforforata di simil-parmigiano e pesto. Sì, pesto! A voler sopperire alla mancanza di basilico fresco. Il tutto rigorosamente carbonizzato. Costo: 3-4 € / Voto: zero assoluto.
O la piccola e kawaii Cheese Pizza, acquistata per meno di 1,50 € in un “combini” (convenience store aperti 24 h su 24). Tenera nella sua rotondità e con quel vezzo, come lentiggini, di cubetti di pomodoro fresco al centro. Meglio addirittura, della più o meno italica Speedy Pizza – ve lo garantisco – con cui abbiamo rovinato orde di tosta-pane nella nostra giovinezza.
Ma tornando a ciò che può essere definito “pizza” in Giappone, l’annosa questione delle dimensioni (della pizza, dei letti e delle stanze d’albergo) è qualcosa che ha caratterizzato buon parte dei miei viaggi nipponici.
Con lo stomaco che brontola ed un atavico bisogno di carboidrati-pomodoro-mozzarella, il mio compagno di viaggio ed io, abbiamo sostato minuti interminabili davanti alle vetrine luminose dei ristoranti che ospitano le repliche dei piatti serviti. Si chiamano replica food, sono fatti di cera e servono, per l’appunto, per dare una dimostrazione dell’offerta culinaria.
Nei posti filo-italiani che vendono la “vera” pizza napoletana per esempio, sotto la replica viene sempre riportato il diametro della pizza che raramente supera i 25 centimetri. Una rara eccezione: ad Osaka, nel quartiere Umeda, nel ristorante semi-italiano “La Boheme”, abbiamo trovato una margherita di ampiezza dignitosa, ma di spessore criticabile. Costo: 8-9 € (acqua e coperto inclusi) / Voto: 7 + un plauso per il sottofondo musicale di beat italiano degli anni Settanta.
Abbiamo parlato della più grossa ed ora parliamo della più piccola. Siamo sempre ad Osaka nella centralissima Namba. Tra un pachinko rumorosissimo, un negozio di gashapon ed un internet café ecco un locale che vanta pizza e italian soda nel menu. La pizzetta (è il caso di dirlo) è più piccola della mia mano e costa intorno ai tre-quattro euro. Non è male. E la rotella con cui mi è stata servita fa quasi tenerezza.
In Giappone ogni pizza, anche la più piccola, viene servita con tanto di rotella taglia-pizza sortendo, alle volte, un effetto involontariamente comico. Costo: 3-4 € / Voto: 5 (non raggiunge la sufficienza a causa della modestissima dimensione).
Oltre alla rotelle e alle piccole dimensioni, ho scoperto che le pizze giapponesi sono spesso accompagnate da una generosa manciata di mais. Come è possibile vedere in quasi ogni pizzetta confezionata in rivendita nei combini e, addirittura, nell’abominio generato e non creato dal dio della cucina fusion: un buozi (paninetto cotto al vapore cinese) con ripieno di pizza (italiana) e mais!
Altra catena, altra pizza. Con la carta di credito bloccata, gli ultimi giorni del mio secondo viaggio in Giappone sono stati caratterizzati da un’ossessiva oculatezza nella spesa ed una religiosa austerità nei consumi. Decidiamo però di destinare ben tredici euro per assaggiare una pizza (suggerita dagli internauti) ad Asakusa, piccolo e tradizionale quartiere di Tokyo, famoso per il grosso tempio Senso-Ji e per la presenza di membri della Yakuza che ho scoperto adorano terrorizzare gli stolti gaijin (stranieri) come me e il mio moroso, schernendoli per i loro tatuaggi.
Ignorati gli sberleffi degli Yakuza, ci rintaniamo nel ristorante-pizzeria “Miami Garden” e prendiamo una margherita. Microscopica – non aveva ancora imparato al leggere i centimetri effettivi – con quattro grosse foglie di basilico arpionate su quella che dovrebbe essere mozzarella e sugo. Sugo con tanto di soffritto! Costo: circa 13 € / Voto: 4 (a causa del costo eccessivo, della dimensione ridotta e dell’arroganza del sugo sulla pizza).
Terzo viaggio in Giappone. Rinunciamo a questo folle gioco al massacro di trovare una pizza buona ed economica. Vaghiamo per Osaka in cerca di cibo e, come Isacco un momento prima di essere sacrificati, ecco che la mano del padre si ferma e ci grazia… scopriamo Saizeryia! Catena filo-italiana presente in quasi ogni quartiere di Tokyo ed Osaka. Prezzi contenutissimi per piatti decenti e bevande gratis.
Assaggiamo la pizza (ma dai?) ed è buona! Piccola, ma molto molto saporita. Anche questa servita con tanto di rotella in differenti versioni: margherita, acciughe, funghi e calamari. Ed è pure aperto 20 h su 24. Costo: 2,5 – 4 € / Voto: 7 + un plauso per i Ricchi & Poveri, Mario Merola e Domenico Modugno mandati in loop persino al cesso.
Ma è a Koenji che ritrovo la fede in definitiva.
Ad una manciata di fermate della metro dalla centralissima Shinjuku ecco, che nel posto più umile e modesto (come una mangiatoia a Betlemme), mangio la miglior pizza low-cost di tutto il Giappone.
Il posto si chiama “SEMPRE PIZZA – Da Giovanni” ed è un non-luogo senza pareti, in cui i tavoli sono fatti di pannelli di compensato grezzo, i piatti sono usa&getta e le bevande vanno prese direttamente da un distributore automatico. Un verso del “Don Giovanni” di Mozart decora una parete. Non vengono fornite ne’ rotelle, ne’ posate. Venticinque centimetri di diametro, per un’ottima pizza cotta nel forno a legna, capace di far convertire persino gli agnostici e gli atei più razionali. Ottima salsa di pomodoro, (presumo) mozzarella, olio di oliva extra-vergine e basilico.
Tutto perfetto. Tutto buono, come il mondo stesso dovrebbe essere. Semplice e buonissimo. Costo: 2,5 – 4 € / Voto: 9.
Cosa hanno in comune Pier Paolo Pasolini e Bruce Willis? Tralasciando l’evidenza dell’essere appartenenti alla medesima specie e al medesimo genere (uomo – maschio), sono stati entrambi apostoli di una verità alquanto indigesta e cioè che noi tutti mangiamo merda. In senso lato e in senso figurativo.
Come dimenticare il cameo di Bruce Willis in “Fast Food Nation” in cui, incalzato dal direttore del Marketing di una grossa catena di fast food sulla presenza di batteri fecali negli hamburger, dice:
«Sai… penso che ci potrebbe essere un po’ di merda anche in questa carne. Soltanto una piccola quantità microscopica. […] C’è sempre stata merda nella carne. E probabilmente tu la mangi da una vita. Non sta succedendo niente di illegale, ricordati che la carne viene cotta e le griglie sono stata calibrate accuratamente per essere sicuri di uccidere ogni piccola parte di quella robaccia. […] basta cuocerla! È tutto quello che devi fare. […] La verità è dura da digerire: ma tutti noi dobbiamo mangiare la nostra dose di merda».
Al supermercato ci imbattemmo in Murray Jay Siskind. Nel suo cestino c’erano alimenti e bevande generici, tutti prodotti non di marca, avvolti in involucri comuni, bianchi, dalle etichette semplici. C’era una lattina bianca con la scritta PESCHE IN SCATOLA. C’era una busta bianca di prosciutto affumicato senza la finestrella in plastica per la vista di una fetta campione. Un barattolo di noccioline abbrustolite con un’etichetta sui cui si leggevano le parole NOCCIOLINE IRREGOLARI. Mentre li presentavo, Murray continuava ad annuire alla volta di Babette.
«È la nuova austerità, – disse. – Imballo insipido. Mi attrae. Mi sembra non soltanto di risparmiare i soldi, ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale. È come la Terza guerra mondiale. È tutto bianco. Ci porteranno via i colori per usarli nello sforzo bellico».
Fissava Babette negli occhi, estraendo alcuni articoli dal nostro carrello e annusandoli.
«Queste noccioline le ho già comprate. Sono rotonde, cubiche, butterate, grinzose. Noccioline rotte. Un sacco di polvere in fondo al barattolo. Però sono buone. Ma soprattutto mi piacciono gli imballi in sé. Avevi ragione, Jack. È l’ultima avanguardia. Coraggiose forme nuove. Capaci di scuoterti». Da “Rumore Bianco” di Don DeLillo, 1985.
Il protagonista ed io narrante di Rumore Bianco, romanzo di Don DeLillo, è il fondatore del dipartimento di studi hitleriani in una piccola università nel Midwest degli Stati Uniti. Ha una moglie (la terza o la quarta) obesa ed un collega, Murray Jay Siskind, che si sta battendo per introdurre Elvis Presley come materia di studi del dipartimento di Cultura Popolare Americana.
Tutto è pop, in Rumore Bianco, persino la paura della morte che in un’epoca di consumismo sfrenato (erano i fulgidi anni Ottanta, baby…) può essere sconfitta acquistando ed ingerendo un pionieristico farmaco. Tant’è che buona parte del romanzo è ambientata in un supermercato.