16. Ding Dong, the witch is dead | IL GRANDE ROGO DEL ’25

16. Ding Dong, the witch is dead | IL GRANDE ROGO DEL ’25

There is no place like home.

Dorothy, The Wizard Of Oz

Mosca, novembre 2041


«Conosci i tuoi nemici» pensa l’agente nascosto nell’ombra, studiando i membri della band che è appena scesa dal palco, intanto che ripongono gli strumenti nei foderi, scambiano battute e commenti su accadimenti ridicoli, stappano birre e non smettono di sorridere un instante. Prova pena per loro.
Una bollita di quarant’anni vestita come un clown con un gatto morto in testa, un dirigente che da troppe settimane non si fa la barba, un padre di famiglia stempiato e una ventenne dall’aspetto ordinario che indossa vestiti più vecchi di lei.
«Che accozzaglia di perdenti» conclude l’agente, chiedendosi a quale categoria di sconfitti appartengano. Grazie alla sua esperienza sul campo ha individuato tre tipologie di “rivoluzionari” che tra colleghi distinguono in uomini di latta, spaventapasseri e leoni fifoni.


I leoni fifoni credono di essere i re delle foreste, o ambiscono ad esserlo, ma sono così vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontare il mondo là fuori e, fin tanto che stanno chiusi in questo piano della realtà, possono sognare la rivoluzione ed illudersi di avere un briciolo di importanza e potere. Lo stesso potere che vorrebbero, ma che subiscono, fuori da queste mura e, proprio come nel Mago di Oz, basta lo schiaffo di una giovane donna con le treccine ed un vestito a quadretti che vuole difendere il suo piccolo cane, per smascherare la loro farsa. Essi infatti non sono avvezzi e non tollerano la disobbedienza o il pensiero critico, in quanto non li hanno mai esercitati e vissuti in prima persona, per assenza di coraggio.


Gli spaventapasseri, al posto del cervello, hanno paglia che prende fuoco facilmente. Perdenti, sconfitti ed emarginati in un mondo che obbliga all’eccellenza, si rintanano qui dove non devono far la fatica di pensare, studiare, informarsi e prendere decisioni perché tanto ci sono i leoni fifoni che spiegano loro come vivere, cosa mangiare, come vestirsi, che musica ascoltare, quale battaglia combattere e quale ignorare. Bastano pochi semplici slogan facili da imparare a memoria, grazie alla rima baciata e alla metrica da inno dei tifosi, per dar loro dei riferimenti certi che non saprebbero però argomentare né mettere in discussione. Privati dal sacco che contiene quella paglia, si disperdono con la prima folata di vento, pronti ad obbedire al padrone di turno che li plasma a suo piacimento. E così svolazzano, pronti a prender fuoco, seguendo le correnti.


E poi ci sono gli uomini di latta che hanno rinunciato al proprio cuore per il troppo dolore, le delusioni e le lamiere di sogni infranti che pungono e lacerano il petto ad ogni battito. Meglio smettere di credere, amare, sperare e partecipare perché dove ci sono gruppi sociali c’è il potere e dove c’è il potere c’è ingiustizia. E no, non esiste possibilità alcuna di rompere questo schema e creare una socialità libera dall’oppressione, i giochi di potere, la competizione tra leoni fifoni e l’utile stupidità degli spaventapasseri e allora è meglio strapparsi il cuore e rimanere in ascolto di quel vuoto che può essere colmato dall’ebbrezza, il cinismo e la provocazione.

E Dorothy? In quel film c’era anche una Dorothy con le sue scarpette rosse e l’amaro compito di svelare le illusioni del Mago di Oz e aprire le porte della Città di Smeraldo…
Non le capita di picchiare una Dorothy da tantissimo tempo. Non è che gli importi molto poi, al Tutore della Serenità protetto dal suo esoscheletro dai riflessi metallici, ma a volte è così noioso stare lì accucciati nel buio ad aspettare di massacrarli che, per passare il tempo, si diverte ad immaginarli come i personaggi di quel vecchio film. In fin dei conti sia il leone fifone, che lo spaventapasseri o l’uomo di latta, sotto i colpi del suo manganello, piangono tutti allo stesso modo. Eppure non riesce a capire a quale categoria appartenga quella ragazza dall’aspetto ordinario.


L’agente visualizza nel dispositivo occhio-orecchio il rapporto su quella che viene identificata come Dorotea D., classe 2018, ex dipendente della Woland Corporation e scopre che alcune note relative al soggetto sono secretate. La sua posizione all’interno della gerarchia dei Tutori della Serenità, però, gli concede di accedere solo ad alcune delle informazioni criptate. Sono delle istruzioni circa l’imminente operazione. Le legge e le cancella.
“Massacrare Dorotea D. chirurgicamente senza rompere ossa o lasciare danni permanenti, concentrare i colpi sul volto, ma senza sfregiarla irreversibilmente”.
L’agente non si fa domande e chiude il collegamento con il dispositivo occhio-orecchio. Nulla di quello che accadrà potrà essere registrato.
Mancano pochi secondi al via e l’agente guarda per l’ultima volta quella ragazza a cui dovrà rovinare quel faccino acqua e sapone. Dorotea, proprio come la Dorothy di quel vecchio film…
«Nient’altro che una coincidenza» pensa l’agente, prima di scagliare il manganello dietro alle ginocchia della ragazza.

15. Il  nostro nome è un segreto | IL GRANDE ROGO DEL ’25

15. Il nostro nome è un segreto | IL GRANDE ROGO DEL ’25

«Sei pronta DeeDee?» mi aveva chiesto Fausto, sulla soglia della sala riunioni della Woland Corporation, togliendomi il berretto e spostando i capelli di lato, per mostrare la metà del mio cranio che mi avevo rasato – proprio come in quelle vecchie foto di Guenda – quella notte stessa. 


«Chi è Guenda?» avevo chiesto, sfiorandogli il tatuaggio con inciso quel nome, con le dita.
«Una che è morta» aveva risposto. 
«Suonavamo insieme – proseguì – vivevamo insieme, dormivamo insieme e facevamo sesso, sogni, progetti insieme, ma poi ha deciso che era meglio morire piuttosto di realizzare quei sogni con me, fare sesso con me, vivere e suonare con me» disse forzando uno dei suoi sorrisi da clown stronzo, ma fallendo nel tentativo di sembrare divertente. 
«Forse perché, per lei, io non ero abbastanza speciale e d’altronde nulla lo era per la mia Wendy. O meglio, era tutto così straordinariamente bello o doloroso per cui, alla fine, ogni cosa risultava troppo difficile da gestire. Per Guenda era tutto troppo o troppo poco e ha deciso di non essere niente».
Nel dirlo si era alzato dal letto per poi tornare con una vecchia rivista cartacea in mano. Sulla prima pagina che faceva anche da copertina, ed era della medesima carta sottile e ingiallita di ogni pagina, vi era un collage di foto tra cui spiccava l’immagine di una ragazza sul palco rasata a zero per metà cranio e con lunghissimi capelli rossi che le cadevano giù fino alla spalla destra. Urlava in quello che doveva essere un vecchio dispositivo voce – un microfono – che fino agli anni Venti era stato usato per amplificare la voce durante le esibizioni in diretta di musica suonata dal vivo. 

«Sei sicura di quello che stiamo facendo, DeeDee?» mi aveva domandato con il rasoio in mano.   
«DeeDee?» chiesi.
«DeeDee. Non ti piace come soprannome? Ne avevamo tutti uno, ai tempi. Il cognome era qualcosa che non ci apparteneva davvero e se lo si usava era per storpiarlo in qualche modo grottesco e unico. 
Ho avuto amici e amanti con cui ho vissuto, suonato e lottato per anni e ne ignoravo il nome e il cognome, perché smettevamo di essere il figlio dell’operaio o il figlio del banchiere. Smettevamo di essere quello che viveva nelle case popolari o nel quartiere residenziale. Non eravamo più lombardi o siciliani. Eravamo parte di una famiglia tribale che non teneva conto di chi fosse tuo padre e che lavoro svolgesse tua madre. E così avevamo nuovi nomi. Nomi che raccontavano qualcosa di te e, la maggior parte delle volte, raccontavano qualcosa di molto imbarazzante, divertente ed epico. 

Io ero Fausto detto Panatta, eppure non ho mai giocato a tennis in vita mia, ma quando avevo circa quindici o sedici anni, mi capitò di trovare questo borsone sull’autobus – raccontò mimando con le braccia nude l’ingombro di quella borsa e guardando il vuoto tra le mani, come se fosse ancora in grado di vederla, lì, sotto i suoi occhi –  pieno di vestiti puzzolenti e una racchetta. “Il tennis è roba da ricchi” penso, e cerco di barattare quella roba per del fumo al parchetto del paesino di merda in cui vivevo. Da lì gli spaccini hanno cominciato a chiamarmi Panatta, “Panatta che vuole un panetto di fumo” chiosarono e basta, quel nome non me lo sono più staccato di dosso, come un odore, come una pisciata territoriale riconoscibile senza bisogno di parlare» 
«Ti chiami Dorotea D.? DeeDee! Come Dee Dee Ramone o come le iniziali incise sul tuo dispositivo occhio-orecchio aziendale che indossi con tanta fierezza? Nessuno lo saprà, perché è un nostro segreto. Qualcosa che sappiamo io e te e che nessuno all’infuori della nostra famiglia tribale, può vedere o comprendere»
«Oppure DeeDee, come Dorotea Disastro? Sembra il nome perfetto per una poetessa punk o per una cantante di una band» avevo azzardato. 
«Bellissimo! Dorotea Disastro detta DeeDee! Ho fatto proprio bene ad assumerti, sei brava!» disse prendendomi la faccia tra le mani e scoccando un bacio rumoroso sulla fronte, cominciava a piacermi questo… toccarsi. 

 «Guarda! Questa era la mia di band al completo» aveva detto, indicando due pagine piene di foto e parole all’interno di un’altra fanzine ingiallita.
«Noi eravamo i This machine: Guenda alla voce, Giulio alla chitarra, io alla batteria e Monica al basso».
«Ma è lei la donna della metro, quella con la gallina, sai? Come è possibile? L’ho incontrata proprio prima di venire da te!» gli dissi incredula. 
«Incredibile! Non è cambiata di una virgola allora e il fatto che tu l’abbia incontrata proprio oggi, venendo qui da me, non può essere una coincidenza! Il fato sta cercando di dirci qualcosa – disse alzandosi in piedi sul letto, calpestando le riviste e alzando le mani come durante le meditazioni – Cosa hai da dirmi, destino? Perché hai messo questa enfant prodige dell’analisi dei sentimenti e quella rimbambita kamikaze di Monica sulla mia strada? Quale mistero si cela dietro a tutto ciò, dammi un segno, crudele e oscuro destino ma, soprattutto, quale ruolo ha quella scatoletta di mousse per gatti?»
«Posso sapere cosa stai facendo e a chi stai parlando?» chiesi.
Fausto mi guardò perplesso e un po’ deluso. 
«Dobbiamo lavorarci su questo, ok? Questo tuo essere così respingente ad ogni cosa che non può essere misurata e calcolata, mannaggia, sei così… seria. Dovevi vederti! Era una scena divertente e del tutto priva di logica, tu che entri in casa mia con una scatoletta di pesce sintetico frullato in mano, tutta zuppa come una gattina randagia e quell’espressione da monitor del parchimetro!»

Lo stava facendo ancora. Si stava prendendo gioco di me. Imitò persino il mio volto e la mia rigidità espressiva, dicendo “miao”. Ed  io provai qualcosa che ai tempi mi era difficile spiegare e capire. Qualcosa che mi riportò all’infanzia e agli scherzi che mi faceva mio padre o a mia madre che mi metteva la crema balsamica sul petto per calmare la tosse, ma mi faceva il solletico e ridevo, ridevo forte nel vedere ridere mia madre e anche quella sera, davanti a Fausto nudo che diceva “miao” imitando la mia espressione di qualche ora prima, lo feci… mi mise a ridere anch’io! E non riuscivo a smettere. Più cercavo di trattenere questa violenza che mi sconquassava il petto e mi toglieva il respiro, mi deformava la faccia fino a far male e mi faceva lacrimare, piegandomi su me stessa in cerca di placare quella che dall’esterno assomigliava ad una danza tarantolata o corrente elettrica che attraversa il corpo folgorato da un fulmine. E più ridevo, più Fausto persisteva nel portare in atto la messinscena, dire “miao”, muovere la sua mano stretta in un pugno come zampette di un gatto,  fingere di lavarsi la testa e il muso. Mise fine al mio tormento, strusciandosi su di me, facendo le fusa, mordendomi il collo e trasformando lo scherzo in un gioco per grandi, con la voglia di darmi e ricevere ancora piacere dipinta negli occhi e scolpita in mezzo alle gambe.  Ormai la luce dell’alba illuminava tutta la stanza e l’intera città, svelando ciò che avevo perso negando il sentire del ventre, i battiti della notte, la verità dei sospiri e del proprio sudore mischiato a quello di un altro. 

Mi svegliai ancora ubriaca, con la testa rasata ed un’idea. 
I MORTIFICATORI | Teaser dell’audiolibro a puntate

I MORTIFICATORI | Teaser dell’audiolibro a puntate

Chi sono i mortificatori? Ascolta l’audiolibro scritto e letto da Valeria Disagio 👉 https://spoti.fi/3wpqYpR

“I Mortificatori” è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte, per poi rieducarli a furia di supplizi e schiaffoni.

O.S.T. “Awake Arise Silence” by MARTHE

I mortificatori – Proposta per una serie

I mortificatori – Proposta per una serie

“I Mortificatori: horror d’amore, arte e cicatrici” è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte – a 27 anni – , per poi rieducarli a furia di torture, supplizi e schiaffoni. Leggenda metropolitana o realtà?

Toccherà ad Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.

Presentazione del soggetto

IL GRANDE ROGO DEL ’25 – Sinossi

IL GRANDE ROGO DEL ’25 – Sinossi

Davvero ho scritto un altro romanzo? Sì, mannaggia e – guarda un po’ – sto cercando una casa editrice che voglia pubblicarlo.

Keywords: cyberpunk, sci-fi, distopia, punk, marketing, multinazionali, guerra civile, dominio, punx, ex blocco sovietico, camperismo, galline e orsi, digiuno intermittente, comunità elettronica, post-apocalisse, carcere, il Mago di Oz, tour, musica, Franti, il protocollo D.E.A.T.H., Dead Kennedys, Brave New World, Aldous Huxley, Woland, Pornoriviste, Wretched, Bikini Kill, This machine kills fascists, Wendy O’ Williams, Karl Popper, Kafka (la band HC), analisi dei sentimenti, il diavolo di Bulgakov, metriche di vanità, Baltika, Pussyriot, Misfits, Egor Letov, Graždanskaja oborona, Polizia, Doom, Via Gola, Negazione, Nerorgasmo, Zygmunt Bauman, Finkbrau, Drunkards, Crass, Discharge, Butyrka, carcere in fiamme, rivolta, Kalashnikov Collective.

I MORTIFICATORI | AgenziaX

I MORTIFICATORI | AgenziaX

Horror d’amore, arte e cicatrici

Un noir che trita il tritabile e mischia il mischiabile, anche gli opposti più opposti e opponibili. dalla prefazione di Giovanni Arduino

Chi sono i mortificatori? Perché sono così interessati alle forme d’arte più radicali? Partendo dal presupposto che la pazzia è anche un godimento dei sensi, i loro adepti cercano nuove vittime tra i giovani artisti emergenti, i più sensibili alle sirene dei soldi, del successo e dell’egocentrismo, i più golosi di droghe e perversioni. I mortificatori sono consapevoli che dei soggetti così creativi possono andare in pezzi, appena un grammo di caos penetra nelle loro fragilità.
Il confine che divide l’arte dalla morte è troppo vago, chi potrebbe dire dove uno finisce e l’altro inizia. Per scoprirne il segreto si narra che questa setta misteriosa utilizzi la tortura mascherata da body art.
Leggenda metropolitana o realtà? Toccherà a Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.
Un romanzo che offre le chiavi per capire questi tempi feroci e quali pericoli si nascondono dietro la ricerca forsennata dell’apparire sempre sull’onda degli estremismi mediatici, religiosi o politici, in una società dove di estremo c’è solo la solitudine.

Valeria Disagio (1982) redattrice di fanzine e scatenata cantante di gruppi punk, esordisce giovanissima con il romanzo Casseur. La lotta, l’ebbrezza e la città giardino. Ha gestito un blog da cui è nato il libro Discount or die edito da Nottetempo.

240 pp. • 2019

ISBN 978-88-98922-54-3

Ordinabile tramite sito, in libreria dal 14 febbraio 2019

El Toxyque@Ritorno All’Ordine. Atto Unico.

El Toxyque@Ritorno All’Ordine. Atto Unico.


On line le performance di El Toxyque in occasione della proiezione del di “Ritorno All’Ordine. Atto Unico. Parole. Musica. Immagini.” del 13 Giugno 2010 al Teatrino di Via Sacco.

El Toxyque. PARTE I.
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El Toxyque. PARTE II.
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El Toxyque. PARTE III.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=1JqDXK4qksc&fs=1&hl=it_IT]

El Toxyque. PARTE IV.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=S4Umd4u4jKY&fs=1&hl=it_IT]

“L’anarchica della città giardino” Specchio – 10 Settembre 2005

L’ANARCHICA DELLA CITTA’ GIARDINO di Anna Sartorio

“Tutto comincia in un ascensore, dove i bambini da soli non possono andare. Ma la figlia dei portinai ci va, e mentre viaggia nel proibito incide sulla pulsantiera, primo atto di anarchia, la parola revuelta. Poi cresce e diventa casseur. Una che imbratta i muri della Città Giardino (la leghista e lagalista varese) perché non trova latra via per far uscire la propria inquietudine. Valeria Brignani, nel suo romanzo d’esordio, racconta il mondo urticante di chi la notte psorca facciate e spacca vetrine. E convince – contro ogni buon senso – grazie ad un linguaggio netto e a farsi con soggetto, verbo e complemento oggetto. Finalmente. Il suo sguardo, al di là di certe forzature anticonformiste (e dunque conformiste), è indisponente, insaziabile e splendidamente ingenuo. Fortuna che esistono ancora sguardi così.

“Casseur, viaggio nell’inquietudine giovanile” VareseNews – 28 Aprile 2005

Si intitola “Casseur. La lotta, l’ebbrezza e la città giardino” (Gaffi editore) ed è l’opera prima della varesina Valeria Brignani. Una storia che parla di nuove generazioni, cruda e con una sete di assoluto come solo puo’ esserlo una storia di ragazzi, vissuta veramente. Un viaggio che comincia nell’ascensore di un palazzo del centro di Varese. Luogo temuto e agognato di una piccola bambina, figlia di portinai. Una scritta, un graffio: REVUELTA. È l’inizio di un’avventura che continua negli anni e nella città, nei luoghi tipici della gioventù varesina….