ANDREAS È MORTO

ANDREAS È MORTO

Ogni sistema esige il suo sangue.

Da LUNGIDAME#03

Illustrazione di Francesco Pirini

Abbiamo illuminato la nostra città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere perché i nostri occhi servono solo ad ammirare quella sezione di tramonto dalle finestre del nostro salotto. Qui non abbiamo angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle.

Il tramonto di questa sera: lo hai visto? Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, ti garantisco. Perché qui è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare.

Tutto questo perché Andreas è morto.

E così siamo sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli. Nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi. Qui non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico. Qui non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede. Dimentica lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che ora sono sotto la terra ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano. Qui da noi, ciò che fa male è illegale ed è la scienza che lo dice. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco l’esistenza di dio, della sua parola non ne facciamo la nostra legge.

Tutto questo perché Andreas è morto.

Si sta piuttosto bene da noi, sai? Le regole sono semplici, la risposta in godimento per nulla avara. Basta obbedire e c’è chi pensa, agisce e fatica per noi. Il principio della delega portato a vette di perfezione e raziocinio che quasi abbaglia, come il riflesso d’acciaio di ingranaggi scintillanti e sincronizzati. E lì, da fuori, le gazze ladre vedono solo il magnifico bagliore e non possono che rimanere con la bocca aperta e dire che è tutto meraviglioso. Perché è come una melodia divina quello che questi ingranaggi fanno nel loro ruotare e incastrarsi, ruotare e incastrarsi, in quel moto perfetto e inarrestabile che è manifestazione della giustizia poetica.Loro vogliono il controllo, noi vogliamo gustare e sbocconcellare i frutti della loro fatica. Tutto ciò diventa realtà e quotidianità, fin tanto che noi ci accontenteremo di godere e obbedire. Ed è facile farlo quando vivi in quella che senza troppi giri di parole è la città in cui tutti vorrebbero stare. I nostri edifici pubblici sono colorati e pieni di luce. Le nostre mense aziendali servono, con l’equivalente di un ticket restaurant, un pasto genuino ed equilibrato. Verdure fresche e centrifugati di frutta biologica e di stagione. Nessun tipo di intolleranza verrà ignorata. Nessun tipo di scelta etica verrà osteggiata o ridicolizzata perché siamo buoni e la nostra società si basa su valori di uguaglianza e rispetto per le minoranze. Mettiamo gli asterischi per non escludere alcun genere nei nostri aggettivi e sostantivi che la storia della lingua ha voluto al maschile. Nelle imprecazioni, le rare volte che capita, stiamo attenti che nessuno possa essere offeso o che il suo essere – qualsiasi esso sia – possa avere il peso di un’offesa.

Che le sex worker, per esempio, rivendichino il loro mettere sul mercato il proprio corpo. Fuori da qui, dicono, che si usi la parola “puttana” (ed i suoi sinonimi) per giudicare le donne a cui piace particolarmente scopare, che spezzano il cuore, che ci mettono troppo in fila al supermercato, che danno una multa sui mezzi, che non valorizzano gli altri sul lavoro e nella vita o che sono temute. Quella troia di… Qui, invece, le donne si appuntano una spilletta sul bavero del gilet di ordinanza e puoi leggerlo chiaramente che c’è scritto “io sono una puttana” perché è giusto che si sappia che per noi essere una puttana non è un’offesa. Qui riteniamo giusto condividere con l’intera comunità cosa ci piace farci infilare e dove. E guai… Guai, se qualcuno dovesse sorprendersi nel fantasticare – non senza vergogna e magari con le dita attorno al cazzo – di infilare effettivamente quelle cose in quei determinati buchi.Qui le donne sono al sicuro in case assemblate con pareti di vetro, perché ciò scoraggia gli episodi di abusi domestici e i rapporti non consensuali.

Qui non c’è violenza. Non ci sono stupri e molestie perché piuttosto che educare al rispetto e alla cultura del consenso, tutti (ma proprio tutti) gli uomini al compimento del dodicesimo anno di età, preferiscono autoproclamarsi colpevoli di ogni possibile reato a sfondo sessuale. E se i maschi vengono cresciuti come mostri colpevoli e le femmine vengono educate in quanto fragili vittime prensili – simili alle micro-donne sollevate e sbatacchiate dai giganti post-nucleari di Ken Shiro – ça va sans dire che abbiamo tutti accettato quanto segue: in presenza di un uomo e una donna che si desiderano carnalmente, un testimone imparziale rappresentante ogni orientamento o gusto erotico, certifichi che… Sì, il rapporto sta avvenendo secondo tutti i crismi imposti dal buonsenso e soprattutto dai desideri e dai limiti di lei. Desideri e limiti ben documentati, dopotutto, nero su bianco e magari con qualche autoscatto birbantello, ad uso e consumo dell’intera comunità. Da tempo abbiamo rinunciato al romanticismo e abbiamo preferito la mediazione erotica prima di ogni contatto fisico, perché era davvero difficile per noi capire con la nostra testa, il nostro cuore e il nostro corpo, cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. Abbiamo delegato la nostra passione ed il sesso finalmente, così, è davvero un posto sicuro.

Tutto questo perché Andreas è morto. Andreas είναι νεκρός.

Così come nell’antica Grecia, la nostra società sta mettendo le basi di un nuovo ordine sociale che sorge dal fallimento di chi ci ha preceduto. Era estate e le strade polverose di Atene erano messe a ferro e fuoco delle proteste. L’intera nazione in fermento: cani randagi impazziti per lo scoppio di un petardo buttato, non senza un certo sadismo, da quelli che il controllo lo impongono coi conti, i numeri e le proiezioni finanziarie. Perché tutto è calcolabile e possiamo misurare il coefficiente della nostra miseria a partire da un lungo algoritmo; un codice che parte dagli uomini col vestito buono che agitano strette di mani davanti ai fotografi, scivola tra le dita con la french del capitalismo da front desk e prosegue, tra gli scossoni, per quel dito addestrato a tirare il grilletto e fare SBAM. E poi ci siamo noi che abbiamo votato, depositato soldi nelle banche, goduto nel vedere che per le strade non c’erano più straccioni e pezzenti e spacciatori e sì, quando nonna muore col suo appartamento rivalutato dalla gentrificazione forse ci paghiamo le vacanze, la cucina nuova e il master a Sandra che è precaria, povera ragazza. E quando torno a casa non devo più ignorare quelle mani a cu-cu che chiedono soldi. I miei soldi…

E così Andreas è morto. Andreas che è donna, uomo, vecchio, grassa, fragile, troppo magra, immaturo, non abbastanza ricca o troppo povero, testardo, impulsiva, ideologica e invasata, troppo forte e ostinato, sarcastica e pungente, critico, umile e sincera. Andreas è la contraddizione, l’imprevedibilità, colei che commette errori e la caleidoscopica sorpresa che nessuno potrà mai prevedere. Giovane ingranaggio inceppato, come tutti gli ammazzati sull’asfalto dalla mano armata da un sistema che richiede un sacrificio ogni 15 anni. Ogni 15 anni noi abbiamo bisogno di un martire. Cresciuto ed educato con l’illusione di essere libero. Premiato per il suo libero pensare e amare. Lodato ogni volta che si esprimeva fuori dal coro. Come sei originale Adreas! …e quanta immaginazione! Tu non puoi buttarti via come gli altri. Tu sei speciale. Davvero vuoi passare la tua vita a bere Campari al circolino guardando la partita? Aspettando un marito, il lavoro giusto, il quieto vivere e il compromesso? Davvero ti vuoi accontentare della mediocrità che ti circonda? Così si cresce un ribelle. Portandolo nel palmo della propria mano e facendogli credere di essere unico. Ed eccolo l’escamotage, il trucco criminale… Illudere Andreas di poter essere e dire ciò che vuole. Raccontargli quanto sia nobile battersi per la verità. Spalancargli gli occhi e mostrargli la gabbia in cui nasciamo e inoculargli la voglia di lottare per gli ultimi, gli oppressi… Libera nos a malo perché qui è tutto diverso Andreas, ricorda Andreas che noi siamo i buoni!

Noi siamo i giusti! E i nostri valori sono luce nelle tenebre, costellazioni nella buia vastità del caos cosmico. Fino al giorno… Fino a quel giorno in cui, con uno strattone improvviso, Andreas non si accorgerà di quel guinzaglio a strozzo attorno al collo. Ed egli deciderà di ribellarsi e mordere la mano che lo nutre, sceglierà il randagismo e mostrerà i denti al quello stesso mondo che, finalmente, potrà annientarlo nel sangue, giustiziandolo. Sacrificandolo. Guardatelo ora che brutta fine. Non vorremmo davvero condividerne il destino. Perché nessuno di noi, nessuno, vorrebbe morire insozzato del proprio sangue su un marciapiede tra le merde di cane, i mozziconi di sigarette e gli sputi dei passanti. Nessuno vuole vedere il proprio amico cadere, come corpo morto cade, sotto i colpi di un assassino che mai verrà giudicato e punito; il cui sangue non bagnerà mai le radici arcigne e testarde di quell’albero di chi vorrebbe vendicarne la morte – il suo sacrificio. E nessun padre e nessuna madre vorrebbe vedere il proprio figlio quindicenne ammazzato come un randagio, freddato, dai guardiani del potere e…

E niente, maledizione! Allora è meglio obbedire e godere no? Il principio della delega, ricordi? Loro fanno tutto per noi. E non ci è chiesto di pensare, mettere e metterci in discussione, sognare cambiamenti, sorprendersi, cadere male… Dobbiamo solo godere ed essere grati. Ogni 15 anni Andreas verrà giustiziato per ricordarci ciò che conviene. E allora grazie. Grazie Andreas. E grazie a me, ché sebbene io sia nata coi nomi di Valeria e Francesca, sono quella che alla fine muore.

“E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.”

Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio

Sangue, loro vogliono vedere il sangue sporcare le strade. Sangue degli innocenti che a migliaia chiedono vendetta. Innocenti i giornalisti, innocenti i poliziotti, innocenti i burocrati, innocenti i cittadini perbene.
NON CHIEDERAI SCUSA

NON CHIEDERAI SCUSA

Da Lungidame #01

DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE

Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.

Foto di Silvia Polmonari

Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.

Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.  

Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.

L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.

“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir

Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?

E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!

“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.

Lei, Antichrist, Lars Von Trier

Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.  

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.

The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot

Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?

Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.

“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.

“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.

“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.

“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.

Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…

Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.

Ti chiameranno: furiosa.

TU MENTI Racconto per Art Party 2010 – Sferica

TU MENTI Racconto per Art Party 2010 – Sferica

Il Comune di Varese, in collaborazione con l’Associazione Liberi Artisti della Provincia di Varese, fondata nel 1977 e oggi composta da 72 artisti, tra cui pittori e scultori, ha promosso un progetto espositivo denominato “ARTPARTY 2010” tra artisti, architetti, fotografi e letterati della nostra Provincia.
Proponendo questo progetto, Marcello Morandini ha voluto per la prima volta coinvolgere più forze culturali attive sul territorio e sottolineare in questo modo lo spirito e il valore progettuale che dovrebbero avere le future edizioni di “ARTPARTY”.

[…] Il progetto nel suo complesso è stato coordinato da un Comitato Direttivo responsabile, composto da Marcello Morandini, Presidente dell’Associazione Liberi Artisti, per le arti visive, Riccardo Blumer per l’architettura, Giorgio Lotti per la fotografia e Chiara Zocchi per la letteratura.

Il mio racconto…

TU MENTI

di Valeria F. Brignani

Quello che sa è che così fa meno male.

Ha davanti a sé una scatola di cartone logora e ricoperta di nastro adesivo. Ha diversi timbri, alcuni francobolli e arriva da un paese lontano e sconosciuto. E’ un regalo di un vecchio amico che scrive: “Da queste parti credono che guardando dentro e specchiandoti nella sfera, vedrai ciò che sei realmente.” Si chiede perché l’abbia mandata a lui. Si domanda perché dovrebbe farlo. Guardarci dentro, specchiarsi, voglio dire… Ha una vita serena, una relazione stabile con una vita sessuale normalmente fiacca. Una manciata di amici più o meno intimi. Un lavoro mediocre che gli dà tanto tempo per quella che è sempre stata la sua passione. Scrivere.

Scrive per hobby. Non ha mai creduto di farla diventare una professione. In questa città, in questo paese, solo i raccomandati riescono a vivere di scrittura. E’ che non esiste la meritocrazia… Devi conoscere qualcuno per fare qualsiasi cosa. Diceva spesso. C’è questa specie di élite di vecchi borghesi che detengono il potere e la cultura. Hanno i capelli brizzolati e una qualche associazione estetico-culturale. Loro si prendono cura di te e ti dicono cosa e come dovresti scrivere per essere come loro.

Ma lui non vuole essere come loro.

Un mecenatismo-cannibale per mantenere e preservare la lobby dei creativi. Come Crono che divora i suoi figli, perché è così che gli hanno detto, le citazioni tratte dalla mitologia greca sono cosa buona e giusta. Danno un tono. Alzano di un livello la qualità della creazione, come un buon tappetto nel giusto ambiente.

Diciamoci la verità: quant’è ridicola la frase “Da grande voglio fare lo scrittore”. Gli adolescenti e gli sfigati sognano. Sognare è qualcosa che soltanto gli arroganti e gli ingenui si possono permettere di fare.

E poi c’è il discorso pratico: i libri vanno pubblicati e gli editori sono tutti dei merdoni. Dal primo all’ultimo. I piccoli editori ti vogliono fottere e per quelli grossi non esisti. Allora tanto vale autoprodursi e andare contro a certe logiche merceologiche, perché la cultura non si compra! Libera diffusione delle idee e della creatività! Firma la petizione per depenalizzare la pirateria nella discografia! Combatti l’industria della musica e dell’arte. Tanto, tutto ciò che è mainstream vuol dire populismo imprenditoriale ed infima qualità. Se hai successo è perché sei un venduto.  Come si può pensare ad un’idea con il codice a barre?

Ha una vita serena, una relazione stabile eccetera eccetera… Perché mai dovrebbe aprire la scatola e specchiarsi nella sfera. Quello che sa, è che così fa meno male.

Venti anni a inseguire un sogno e non avere talento. E’ una cosa triste. .. forse è il momento di fare un figlio.

Il SANGUE di G.G.Allin

Il SANGUE di G.G.Allin

Abbiamo detto di amarci troppo presto. Non che non lo credessimo… La cosa era stata sincera, forse incentivata da una sbronza colossale, ma comunque autentica. Ci conoscevamo da pochi mesi. Eravamo solo colleghi in un negozio di dischi, quando me lo hanno presentato, ho pensato che doveva essere un tipo strano. Forse troppo fuori dalle linee di condotta e buonsenso a cui sono sempre stata abituata. Entrambi con storie finite male alle spalle e nessuna voglia di investire energia e tempo in una relazione. Perché tutti, ma proprio tutti i rapporti umani sono destinati a far del male. Gli amici si trascurano, gli amanti si tradiscono. É così, per quanto idilliaco possa sembrare, ogni legame umano è una forma di lenta e silenziosa tortura. Eppure, si stava dannatamente bene insieme, cinici e disincantati, anti-romantici per eccellenza. Non progettare niente che andasse oltre la settimana, vivere il presente, rifiutare anche la più debole spinta ottimistica di sognare un domani insieme. Oh  sì, una sintonia sessuale favolosa, ma anche la consapevolezza che prima o poi avremmo scopato sempre di meno fino a smettere di avere voglia di farlo. Ci saremmo trovati noiosi, prima o poi.

In mezzo ai dischi e ai vinili una storia d’amore “no future”… Quella parola, “amore”, veniva derisa e disprezzata. Fino a quella sera… Una bottiglia di whisky in due e io piegata in due sul cesso a vomitare. Lui con una mano sulla mia fronte, che mi puliva la bocca con una salvietta umida, premuroso e preoccupato, chiese dell’acqua calda e limone alla barista.

«É inutile che ci raccontiamo stronzate» dissi sbiascicando.

«Per quanto masochistico possa risultare, non siamo fatti per vivere da soli. Senza un compagno, sarei destinata a morire soffocata nel mio vomito nel sonno, da sola. Da sola! Con i miei gatti che mi mangiano la faccia» piagnucolai e vomitai ancora un po’, accasciandomi sul pavimento pieno di piscia. Fu in quel momento che lo disse.

«Io ti amo, ti amo dal primo momento che ti ho vista».

Da quella sera abbiamo passato mesi e mesi ad amarci senza freni. Giornate vissute in totale simbiosi a riempirci di baci la faccia, le mani e le braccia. Baci rubati quando il negozio era deserto. Sfiorarsi di nascosto dietro la cassa e quel vuoto, quell’incapacità di esprimere ciò che ci univa. Il “ti amo” non bastava più. Lo avevamo detto ad altre persone, credendoci, ed era finita di merda. Tra noi era diverso. Noi sapevamo che saremmo invecchiati insieme. Il “ti amo” era diventato “ti amo da morire”, ma neanche quello era sufficiente. Volevamo un’espressione, un’immagine che rappresentasse a pieno ciò che ci legava. Qualcosa che nessuno aveva mai detto ad un’altra persona. Qualcosa, che il più nobile dei poeti, non sarebbe stato in grado di esprimere.

Un giorno in negozio, il corriere ci portò gli ordini della settimana. Spacchettando scatoloni, lui emise un urletto di eccitazione e frenetico si precipitò verso il lettore dvd emozionato come un bambino, disse:

«Questo non te lo puoi perdere. Sai chi è G.G. Allin?»

Non lo sapevo e ciò che vidi dopo mi lasciò senza fiato. Un uomo calvo, nudo, pieno di sangue che canta e caga sul palco. Poi prende la sua merda e se ne spiaccica una parte addosso, il resto la butta sul pubblico. Un uomo col cazzo più piccolo che avessi mai visto in vita mia. Un uomo, sporco di merda e sangue, che va da una donna giù dal palco e le prende la testa e cerca di forzarla a succhiargli il micro-cazzo, ma non ce la fa, perché arriva un ragazzo e comincia a picchiarlo.  Il resto del pubblico scappa e lui li insegue, per poi finire in mezzo ad una strada qualsiasi di New York. La telecamera registra la reazione della gente per strada. Il disgusto. Non avevo mai visto niente di simile.

«Oh mio dio..» dissi, «Non è per niente igienico!».

«É G.G. Allin, piccola. Occhio a come parli di lui. Questo è stato il suo ultimo live. Dopo poco tempo è morto… »

«Ho capito… ma dai, fa schifo. Sarà pieno di malattie.»

«Su questo ci puoi scommettere. Dal suo sangue credo che si sarebbero potuti estrarre i ceppi delle più gravi malattie dell’ultimo secolo.»

«Amore…»

«Dimmi, cara?»

«Ma se andassimo insieme ad un concerto di G.G. Allin…»

«Impossibile. Ti ho detto che è morto.»

«Sì, ok… è un discorso ipotetico. Ma se G.G. Allin fosse ancora vivo, e decidessimo di andare ad un suo concerto e lui dovesse farmi ciò che ha fatto a quella ragazza…»

Lui mi guardò e senza farmi finire la frase, disse:

«Ho capito ed è sì: ti amo così tanto che toccherei G.G. Allin, il suo sangue malato e la sua merda infetta per salvarti amore mio.»

«E io verrei con te al concerto e accetterei il rischio di farmi lanciare la sua merda addosso, se tu lo desiderassi Amore.»

Carovana Dei Versi

Carovana Dei Versi

Nel 2009 ho interrotto con della prosa l’interessante Carovana Dei Versi edita da Abrigliasciolta…

Interrompo il far poesia per parlare di poesia. Parlo di poesia e rivendico il mio diritto di farlo come piace a me. Interrompo e rivendico di poter parlare di poesia, di questa poesia, come se fosse qualcosa di diverso. Pornografia o musica, per esempio.
Ciò che voglio dimostrare con queste parole è una breve e fondamentale verità: la poesia è hardcore.

Hardcore. Una parola sola per tre significati.
Uno.
La prima volta che è stata usata serviva per distinguere il soft dall’ hard nella pornografia. Tolto il divieto di mostrare atti sessuali espliciti nel cinema, i registi e i produttori del mondo del porno, hanno pensato bene di togliere tutto ciò che era superfluo per sbattere su pellicola la naturalità e la schiettezza della penetrazione. E per quanto assurdo possa sembrare, anche questo dato torna utile ad avvalorare la mia rivendicazione. La poesia è hardcore anche in questo senso.

Tre. (Come degenarazione del Due)
Prendere un qualsiasi genere musicale e ignorare la tecnica o la benché minima capacità espressiva o desiderio di armonia. La matematica, perché in fondo la musica è fatta di matematica, si riduce ad un numero periodico che si ripete all’infinito. Sempre uguale, senza produrre operazioni di calcolo, moto o azione. Tum-Tum-Tum-Tum-Tum [Tum]. Vi prego d’ignorare questo insignificante significato.

Due.
E’ questo il senso che c’interessa. Hardcore è quel punk suonato negli Stati Uniti da degli adolescenti, in quel periodo storico che va dal 1980 al 1985. Circa. E a mio avviso rappresenta l’apice e la conclusione delle musica. Dal punk hardcore in poi si può parlare solo di produzione. Prima degli anni Ottanta: di sperimentazione. Una lunga e meravigliosa fase di esperimenti e tentativi per arrivare alla verità illuminante e universale, che la perfezione di ottiene togliendo e non aggiungendo.

La storia della poesia e la storia della musica sono molto simili. Per molto tempo hanno viaggiato insieme. Sono state la stessa cosa. Poi la musica ha incontrato l’industria e la poesia è stata torturata denigrata crocifissa dal sistema educativo mnemonico. La scuola ha prodotto intere generazioni di lettori persi terrorizzati e disgustati dalla metrica. L’industria discografica ha prodotto intere generazioni di consumatori musicali. Ma non bisogna piangere. Il momento in cui la musica ha perso di vista la poesia, la poesia ne ha guadagnato. In questo divorzio la parte lesa è sicuramente la musica. La poesia invece si è ripresa. Si è reinventata. Come? Togliendo. Dopo un momento di sconforto (che farei coincidere con le produzioni di fine Ottocento e primissimo Novecento) in cui i poeti continuavano a poetare costretti nella metrica e fedeli alla tradizione. La cosa aveva senso ai tempi del connubio tra musica e poesia, ma ora, ne converrete che a meno che uno non lo faccia per vezzo, poetare in metrica risulta triste come quegli uomini a cui viene amputato un arto e continuano a sentirlo. C’è stato un momento di sconforto, lo riconosco, ma per fortuna è passato. Gioiamo e alziamo le braccia al cielo è arrivato il VERSO LIBERO!!!!

Ma torniamo al punk. Quegli adolescenti inconsapevolmente illuminati, negli anni Ottanta, negli Stati Uniti, hanno fatto ciò che era giusto fare. Hanno portato la musica alla fine del suo percorso evolutivo. Hanno rinunciato alle regole e alla struttura fissa che ci si aspetta da una canzone (strofa-ritornello-strofa). Hanno eliminato i virtuosismi tecnici e un po’ autocelebrativi (niente assoli, nessuna scala canora). E’ rimasta la musica, con la sua irruenza e la sua brutalità.

E qui, ci si ricollega alla pornografia e alle scene esplicite dell’hardcore.

Ora concludo questa mia rivendicazione aberrante e chiedo scusa di aver paragonato la poesia alla pornografia. Di sostenere che i Black Flag rappresentino l’evoluzione naturale di Wagner. Chiedo scusa di essere uscita fuori tema, ma vi ho avvisato in tempo. Lo sapevate che si sarebbe trattata un’interruzione.
Interrompo e rivendico. Cosa? La sobrietà non è altro che la brutalità che si fa poesia.

Quest’anno torno ad interrompere. Se nel 2009 parlavo di pornografia e punk, questo 2011 mi vede riflettere sui dittatori, formiche, rivoluzioni e l’amore eterno.

Questo è il programma delle performance itineranti.

Per maggiori informazioni, andate qui.

“Il collo di Henry Rollins” VivaMagazine – Giugno 2010

Donne…”

Sì, donne… maledette.”

Te l’ho detto sono solo menate da donne. Tu non hai colpa, non doveva prendersela con te. Non bisogna assecondare i loro isterismi. Avrà bevuto troppo o forse le dovranno venire le mestruazioni…”

Ma piangeva e urlava e quando è così non si può ragionare con lei. Non c’è discorso logico o razionale. Ci sono solo lacrime. Lacrime e accuse.”

Matteo è incazzato più che altro perché ha dovuto aspettare quaranta minuti in un cazzo di parcheggio gelido. Loro due a litigare chiusi in macchina e lui fuori dal locale che aveva chiuso. Una sigaretta dietro l’altra e una voglia incredibile di andare sotto le coperte. Quaranta minuti a vedere le loro sagome nella macchina che gesticolavano e urlavano e l’espressione impotente di lui. Impotente… così privo di potere che lei se ne andata lasciandoli a piedi in una zona industriale dispersa nella periferia di Milano.

Lei fa così, si è incazzata e mi ha detto di scendere dalla macchina. Ha preso e se ne è andata… Ma vedrai che torna indietro.”

Tommy e Teo per non morire di freddo decidono di avviarsi a piedi verso casa. Casa: 44 chilometri di provinciali in piena notte. Tommy non vuole chiamare un taxi, è convinto che Elisa tornerà indietro. “Mica è così stronza… E’ arrabbiata, ok, ma non lo farebbe mai di lasciarmi a piedi a Milano in piena notte. Non penso potrebbe arrivare a tanto.”

Che Elisa sia una mega stronza, Teo lo pensa da anni, ma non dice un cazzo. Tommy è innamorato e ogni volta che ci ha provato è andata a finire che litigavano. Una volta Tommy è arrivato a spintonarlo e ad accusarlo di essere segretamente innamorato di lei.

Teo aveva riso e lo aveva mandato a fare in culo. “Tu sei completamente pazzo”.

Inutile dire che Elisa aveva gioito e goduto immensamente sapendo che alla fine li aveva separati. I due amichetti. Gli amici del cuore. Il trionfo finale era dovuto al fatto che la ragione della separazione fosse lei. Si sentiva una fottuta divinità. Tommy e Teo che si picchiano per me. L’estremo sacrificio, Tommy che manda a ‘fanculo Teo in suo onore.

Teo è burbero e orgoglioso, ma ha preferito chiedere scusa a Tommy piuttosto di darla vinta a lei. Elisa, la puttana. Da allora l’argomento “Elisa” è un tabù. O meglio Teo non può parlarne. Tommy invece non parla d’altro in quelle rarissime occasioni in cui riescono a stare un po’ soli. Lei è sempre in mezzo alle palle. Teo si limita ad annuire ad ogni stronzata e a catalizzare l’attenzione sulle tette, l’unica cosa di cui non si può parlare male di Elisa. Non è politicamente corretto guardare le tette della ragazza del proprio amico, ma è l’unico modo per passare una serata intera con lei, senza saltarle addosso e metterle le mani al collo.

No, Tommy… amore… sai che il punk mi fa schifo non voglio andarci al concerto. Certo che ci puoi andare… fai quello che vuoi.”

Sì, Tommy… ci puoi andare. Se preferisci andare con Teo al concerto piuttosto che stare con me… sei liberissimo di farlo.”

Palle. Mai fidarsi di una donna che dice “fai quello che vuoi”. Mai.

Dopo anni di litigi, hanno raggiunto un compromesso: il venerdì si va ai concerti che piacciono a Tommy, il sabato in centro, in qualche bar di merda a bere cocktail zuccherosi con le teste di cazzo abituali.

Oh Tommy, sono così stanca… finito il concerto andiamo subito a fare nannina, eh?”

Il venerdì a casa a mezzanotte e mezza, massimo. Il sabato fino alle tre in centro a frantumarsi i coglioni e a ghiacciarsi le mani.

Tommy, potresti essere più socievole con i miei amici. Sei sempre così burbero. Senti… te lo devo proprio dire… ma ai miei amici, Teo, non piace per niente. Deve uscire per forza con noi ogni sabato? Non ha una vita sua e che diamine! E poi mi fissa sempre le tette. Non mi guarda mai negli occhi quando parla… sempre con lo sguardo puntato qua.” E con le mani a conca si sfiora educatamente lo strumento del suo potere. Oh, sì. Quante cose ha ottenuto grazie alle tette.

Tommy e Teo camminano da mezz’ora e di Elisa non c’è traccia.

Io credo che non tornerà indietro… Chiamiamo un taxi.”

No aspettiamo ancora un po’.” Tommy continua a chiamare Elisa sul cellulare. Lei non risponde.

Tommy e Teo camminano ormai da un’ora. Tremano e il naso gocciola. Hanno poche sigarette e sanno che presto finiranno. Quando raggiungono un centro abitato e una grossa T di Tabacchi illumina la strada, esultano.

Sigarette! Sigarette! Sia lode alle sigarette!”Davanti al distributore automatico, svuotano le tasche per racimolare più monete possibile e si comprano un pacchetto a testa.

Riposiamoci un po’.” Si siedono su una panchina e tirano il fiato.

Che cazzo di freddo.”

Mi dispiace Teo, lo so che non ha giustificazioni, ma devi capirla. E’ stressata dal lavoro. Il suo capo è una testa di minchia. Lei poi, mi chiede sempre scusa. Quando fa ‘ste cose poi riga dritto per un po’.”

Un po’?”

Sì, lei si tiene sempre tutto dentro e poi ciclicamente crolla. Lei..ha dei… come dire… dei cedimenti nervosi. Poi il giorno dopo mi chiede sempre scusa. E’ mortificata. Piange e io non possa che perdonarla. Lei mi dice che senza di me non può vivere.”

Lo sai come la penso, lo sai da anni. Io non voglio giudicare e non posso sapere quello che succede tra di voi. Nella vostra intimità. Ma il punto è che non si possono assecondare le loro menate. Te l’ho detto. Dovresti riprendere il controllo della situazione. Ho passato anch’io anni di sottomissione. Anni a cedere ai ricatti morali della Vale… e mi sono detto basta! Meglio solo. Sai… è come una sbronza di superalcolici scadenti. Bevi Whisky del discount tutta la sera e sei fuori di brutto. Ti diverti, fai minchiate e poi il giorno dopo stai che è uno schifo.”

Stai dicendo che Elisa è una bottiglia di whisky economico?”

No, sto dicendo che bisogna valutare su una bilancia se ne vale la pena. Se il divertimento e la sbronza “low-cost” giustificano il malessere del giorno dopo. E’ la stessa cosa dell’ecstasy.”

Da quant’è che ti prendi le pastiglie?!?”

L’ho fatto un paio di volte con la Vale. Era nel suo periodo -rave-. Non ti dico che merda. Nonostante l’ambiente orribile e la gente di merda che incontravo, mi sembrava di essere a Wonderland”

L’ecstasy ti fa sentire come a casa di Micheal Jackson?”

No…” Teo ride e così fa Tommy.

E’ che ti senti veramente bene e vuoi bene a tutti e ti sembra che ci sia amore e armonia intorno a te. Il giorno dopo stai malissimo, sei depresso e hai la diarrea. Il punto è questo. Se da una parte metto:

-divertirmi in un posto in cui da sobrio non mi sarei divertito.

E dall’altra parte:

-Depressione, malessere e diarrea. Senza considerare i neuroni fottuti…

Ne vale la pena?”

Direi di no”

Tommy e Teo ricominciano a camminare. Ormai la sbronza è scesa e comincia sentirsi la fatica. Il freddo entra nelle ossa e in giro non c’è un cane. Elisa ormai è a casa sotto le coperte. Dorme serena convinta di avere dato una lezione esemplare a Tommy. Non si ricorda neanche perché avevano cominciato a litigare. Succede sempre così.

E’ una stronza… ma io non riesco mai a vincere con lei. Io non so come si fa… Io non so come si fa a vincere una battaglia con una donna.”

Nessuno lo sa.”

Tommy e Teo camminano da un’ora e mezza. Una macchina si accosta. E’ la prima macchina che vedono da quando sono partiti.

Ragazzi scusate, è da un’ora che giriamo alla ricerca di qualche cartello per l’autostrada. Sapete che direzione dobbiamo prendere?”

Nella macchina ci sono due ragazze. Sono vestite di nero e hanno i capelli ossigenati. Sembrano sorelle o al massimo cugine. Paola e Betty devono andare a Varese e si sono perse. Sono così esasperate, dai minuti interminabili passati a girare e girare a vuoto, che decidono di prendere in macchina due sconosciuti pur di venirne a capo.

Tommy e Teo, godono del calore della macchina e svaccati sul sedile posteriore si sentono benedetti.

Siete due angeli. Vi paghiamo la benzina…”

Ma cosa ci fate a piedi in piena notte in mezzo al nulla”

Oh… guardate, lasciamo perdere. Anzi no. Siete donne e forse potete aiutarci. Vi prego…diteci come si fa a vincere con voi. Cosa deve fare un uomo per ottenere la vostra devozione e la vostra obbedienza?”

Betty ride e fa cenno di stare zitti. Alza il volume dell’autoradio. “Scusate ma questa mi piace troppo…”

Dalle casse esce la voce di Henry Rollins che urla “Rise Above”.

Uuuuhhh… vi piacciono i Black Flag?”

Shhhhh”

La canzone finisce e Betty riabbassa il volume.

Ci piacciono i Black Flag e soprattutto ci piace Henry Rollins. E per rispondere alla tua domanda… Io mi farei sottomettere solo da lui. Solo da Henry Rollins. Diciamo che se dovessi incontrarlo, gli giurerei eterna devozione ed obbedienza.”

Henry Rollins?”

Sì cazzo… l’hai mai visto sul palco? Quell’uomo trasuda potere e testosterone. Hai mai visto il suo collo e le vene su quel collo grosso e taurino pompe di sangue quando urla nel microfono?”

Sì, sì”. Conferma Paola. “Resa Totale di fronte al collo di Henry Rollins”

Tommy obbietta incerto… “Sì, ok… ma se uno non ha il collo di Henry Rollins cosa deve fare?”

Il punto non è se uno ha, o meno, il collo di Henry Rollins. E’ che tu devi vivere come se ce l’avessi. We got that attitude. Non so se mi spiego.” Spiega Betty.

Paola si gira benevola verso Tommy. “E’ come dire chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Così è più chiaro?”

“I Capelli di Shane (Napalm Death)” VivaMagazine – Maggio 2010

 Lo so che mi chiamano il Lino Banfi del Metal. Sono nato basso e robusto. Non ho certo l’aspetto vichingo e virile come gli eroi del Metal. Forse dire che sono robusto è un’inutile bugia: sono grasso. Dannatamente grasso. Colpa della mia mamma. Santa donna. E’ la più brava cuoca che esista sulla faccia della terra. Lei mi cucina tutte le cose che piacciono a me. Sta tutto il giorno a casa a cucinare e io sto con lei. Un po’ nella mia cameretta al pc e un po’ con lei ad aiutarla a piegare le molle. Ho trovato su internet il mio lavoro. Devo piegare molle che mi arrivano per posta e poi rispedirle. Cinque centesimi a pezzo. Sembra una miseria, ma io sono veloce anche se ho le mani cicciotte e le dita tozze. Mani che avrebbero impedito a chiunque di imparare a schiacciare i tasti con agilità sul manico. A tutti, ma non a me. Perché, nonostante le dita a wurstel, io ho dentro di me una forza incontenibile, che non mi fa demordere, il Metal scorre nelle mie vene e rende le mie mani grasse, veloci e spietate. Sono un bravo chitarrista. Ho caricato su YouTube dozzine di video in cui eseguo gli assoli più complicati della storia del Metal. Spero che prima o poi qualcuno mi scopra. I commenti sono quasi tutti positivi, mi fanno i complimenti per il mio chiodo. Alcuni mi dicono di tagliarmi i capelli. C’è da dire che nessuno mi avrebbe voluto in una band. Sono brutto. Ma non m’importa. Non ho amici, non ho mai baciato una ragazza. Conosco un sacco di gente e mi scambio lettere e mail con i frequentatori del forum sul Metal. Sono diventato addirittura l’amministratore. Il mio nickname è Ascia di Sangue. In quel forum… sono un’istituzione. Perché sarò pure un…come si dice… un nerd, ma quando si parla di metal nessuno può competere. Il Metal è la mia vita. Mi piace andare ai concerti. Ci vado sempre da solo. Quando le luci si spengono e viene illuminato solo il palco, la band inizia a suonare e io, in prima fila, col chiodo che mi ha cucito mia madre, sono felice. Le ho fatto vedere un po’ di foto e l’ho accompagnata ad un negozio di stoffe. Abbiamo comprato pelle sintetica e centinaia di borchie che abbiamo applicato con cura e pazienza insieme. Ce l’ho da quasi vent’anni il mio chiodo. E anche se è consumato sui gomiti e non riesco più a chiuderlo (ho messo su una pancia enorme. Troppe bibite zuccherose e gasate, dice la mia mamma.) rimane un pezzo unico. Rimane ciò che mi distingue dagli altri. Il mio chiodo è la mia storia. Il mio vanto. Il mio chiodo e i miei capelli. Lo so che mi prendono per il culo, ormai sto diventando pelato. Ho tutta la parte superiore della testa scoperta, ma non li ho mai tagliati. Mi arrivano fino al fondo schiena. Non mi dà fastidio che gli altri mi sfottano… io non taglierò mai i capelli e mosherò fino alla fine. Fino a quando non mi rimarranno due peli in testa, io continuerò a farli cresce e agitare la testa a tempo di musica durante i concerti. Il capello lungo è una condizione imprescindibile dell’essere Metal. I capelli lunghi e il chiodo. Come Shane dei Naplam Death. Non mi piacciono i Napalm Death. Io sono uno della vecchia scuola del metal, ma lui è un po’ come me. Stesa stazza e anche lui ha pochi capelli in testa. Mica se li taglia. Li tiene lunghi e ricci, separati da una riga in mezzo larga una decina di centimetri. Ha anche una vistosa piazza sul retro, ma a chi importa? Scommetto che lui ha un sacco di donne anche se è grasso e con una calvizia degenerativa. E’ il magico potere del Metal. Anch’io come lui un giorno verrò accettato dalle donne. Qualcuno vedrà i miei video su YouTube e capirà che sono un ottimo chitarrista. E’ successo ad un tizio del forum sul Metal. Era al pronto soccorso e ha conosciuto i membri di una band norvegese. Erano lì perché il batterista si era fatto male. Lui ha detto che suonava la batteria e loro lo hanno invitato a sostituirlo fino a quando il batterista non si fosse ripreso. Ci sono un sacco band tedesche che scelgono i musicisti in Italia. Nel nostro paese è difficile fare metal, perciò… se sei un buon chitarrista o vai a strimpellare due accordi di merda per Biagio Antonacci o emigri. Io spero che qualche band tedesca veda il mio video su YouTube e mi contatti. So che un giorno succederà.

“Le braccia di Kim Gordon” VivaMag – Aprile 2010

“We’re off the streets now, And back on the road. On the riot trail”

Teenage Riot -Sonic Youth-

C’è stato un tempo in cui musica voleva dire vita. Mi chiamo Melina e ho 30 anni. I miei genitori mi hanno dato il nome di Melina Mercouri, che è stata attrice, cantante e ministro della Cultura nella Grecia democratica. E’ un nome importante. Peccato che la maggior parte delle persone che ho incontrato nella mia vita non avesse la minima idea di chi fosse Melina Mercouri. Melina. Piccola mela. Hanno iniziato all’asilo a prendermi per il culo. Durante l’adolescenza, il mio carattere introverso combinato ad una taglia di tette sotto la soglia della misurazione, hanno fatto di me una persona sola, triste e furiosa con il mondo. Guardavo le mie compagne e mi chiedevo che cosa ci fosse in me che non andava. Nello sguardo dei miei genitori preoccupati, nel ghigno dei cugini e nel rimprovero de nonni e degli zii. Io sono nata storta. Ciò che è certo è che non sono come voi. Io sono diversa da tutti. Ho vissuto i primi 16 anni della mia vita con questa deprimente convinzione. Così è stato fino a quando non ho conosciuto Nilde. I suoi genitori, per lei, avevano scelto il nome di una donna antifascista e comunista nell’Italia della Resistenza. Nilde e Melina. Quando ci siamo incontrate ho capito che non sarei più stata sola. Nilde era meravigliosa. Nilde per il mio compleanno mi regalò Daydream Nation dei Sonic Youth e niente fu come prima.

Ho incontrato Melina che era un disastro sotto ogni punto di vista. Credo di non peccare di superbia nel dire di averla salvata da un suicidio certo. Non sarebbe arrivata ai vent’anni. Ne sono sicura. Di lei, ho subito apprezzata quella sete, quella ricerca estenuante di qualcosa. L’inquietudine e il disagio come scelta di vita programmatica. Il mio merito è stato quello di introdurla nel meraviglioso mondo del rock’n’roll. Perché per quanto assurdo possa sembrare, la musica può salvare una vita. Così è stato per lei. Così è stato per me.

Nilde e Melina si vestono uguali. Nilde e Melina stanno sempre insieme. Nilde e Melina camminano per strada, coi loro anfibietti e le loro borse militari piene di scritte. Nilde e Melina cantano all’unisono e vivono in simbiosi. Nilde e Melina si scambiano i cd e si scambiano i vestiti. Non frequentano nessun altro. Nilde e Melina si completano e si bastano. Niente ragazzi, niente amici, solo loro e la musica.

Cara Nilde, a volte penso che se fossi un uomo potrei amarti.

Mia dolce Melina, niente potrà separarci.

 C’è stato un tempo in cui musica voleva dire vita. Quel tempo è destino che finisca. Si arriva ad un punto della propria esistenza in cui le priorità mutano. Relazioni d’amore più o meno insane, incertezze lavorative, i genitori che invecchiano e i nonni che muoiono. Non so come succede, ma capita che la musica diventi solo un sottofondo della ansie e delle preoccupazioni di una vita vissuta con fretta e fastidio. Da quanto tempo Melina non entra in un negozio di dischi? Saranno anni.

 Melina ha 30 anni, ha la macchina piena di borse e scatoloni. Piange. Dietro di sé ha lasciato l’ennesimo fallimento in fatto di relazioni amorose. Una casa in cui ha vissuto negli ultimi 2 anni. Un piccolo appartamento di 50 metri quadri che ha condiviso con un uomo che credeva fosse quello “giusto” e l’estenuante sforzo di essere quella che voleva che lui fosse. Fanculo. Per quanto lei si sforzi, non riesce a trovare quella sintonia che caratterizzava il suo rapporto con Nilde. Ha amato molti uomini ed è stata amata, ma quell’eterna insoddisfazione non l’abbandona mai. Arriva ad un punto che si sente come in gabbia. Cos’è che manca? Da quanto tempo non vede Nilde? Troppo tempo. Il loro rapporto si è esaurito in una serie di telefonate mensili in cui ci si lamenta della propria esistenza. Una sorta di rendiconto ciclico eseguito quasi per dovere. Un tempo si divertivano, cazzo. Un tempo ridevano. Cerca il cellulare nella sua borsa e compone il numero di Nilde.

 Nilde, con la faccia incollata ad uno schermo della tv, svolge svogliata il suo lavoro: stira. Tutta la sua energia è impiegata a non saltare addosso al suo ragazzo che tira su col naso. E’ ossessionata da quel rumore. Perché non ti soffi il naso una buona volta cazzo? Non sopporta niente di lui. Ogni cosa la esaspera. Il modo in cui strascica le ciabatte quando cammina. Il rumore che fa mentre mangia. Il piccolo Samuele le tira il bordo della maglietta. “Mammamammamammamamma” Urla con tutto il fiato che quei piccoli polmoni possono contenere. Samuele è terrorizzato da una sedia in cameretta. “Ha gli occhi, mamma. La sedia mi guarda.” Nilde non ce la fa più, guarda il suo compagno che vaga tipo zombie per casa, grattandosi i coglioni con la mano nelle mutande. Ha bisogno di una pausa da se stessa. Una piccola vacanza dalla sua vita. Ma come fa con Samuele che strilla e il suo uomo che emette rumori fastidiosi? Non ha voglia di litigare. Prende su la borsa ed esce. Il cellulare… dove cazzo è il cellulare. Ha voglia di sentire Melina. Le cose da un po’ di tempo non vanno benissimo, ma la chiama lo stesso o presto esploderà. Il telefono suona. E’ lei.

 Nilde e Melina scelgono come punto di ritrovo quel negozio di dischi in centro dove hanno passato interi pomeriggi in passato.

 “Sto di merda”

“Idem”

“Cosa ci è successo? Perché siamo infelici?”

“Uomini, lavoro, figli, genitori, soldi… il solito, no?”

 Melina si accende una sigaretta. Ride… “guarda…”

 Un poster attaccato alla vetrina le informa che i Sonic Youth suonano la sera stessa.

“Cazzo, io devo tornare a casa c’è da mettere Samuele a letto”

“Merda, il biglietto costa troppo. Non posso spendere tutti quei soldi, devo fare mille cose e i miei ancora non lo sanno che ho rotto con lui. Questa volta avevo giurato che era la volta buona…”

 Nilde e Melina si guardano.

 “Fanculo. Andiamoci”

 Nilde e Melina sono in macchina.

Nilde ha su la maglietta con cui ha dormito, è struccata… E’ uscita così di corsa che non si è neanche preoccupata di guardarsi allo specchio.

Melina ha pianto così tanto che il trucco le arriva alle guance. “Sembro una dark.” e ride.

Non vanno insieme ad un concerto da anni. Mangiano un panino al Mac Donald’s e comprano un cartone di vino spuzzo in un minimarket. Nilde e Melina si ubriacano di Tavernello fuori dal concerto. Quando Kim Gordon sale sul palco rimangono con la bocca aperta e spingono per conquistare le prime file. Fa caldo. Un caldo boia. Sudano e ballano. “Lo sai che ha cinquant’anni o giù di lì?” Kim Gordon danza roteando le braccia. Quelle braccia magre e nervose. Braccia che hanno tenuto in braccio figli. Braccia che da più di vent’anni suonano un basso. “Secondo me lei è felice, cioè… io credo che si possa anche essere madre e adulti ed essere felici. Cioè… dove sta scritto che le responsabilità e le preoccupazioni devono renderci sterili e passive?”

 Nilde sbiascica, stanca e sbronza. “Quello che voglio dire è che forse non si dovrebbe mai abbandonare il rock’n’roll. Cioè… bisogna vivere da rockstar.”

 Melina, guarda Nilde, la trascina da un gomito. “Sai cosa facciamo? Ora ci compriamo una maglietta del concerto come due adolescenti del cazzo”.

 “Rock’n’Roooolll”

Valeria Brignani

VivaMag – Aprile#2010

“Gli zigomi di Diamanda Galas” VivaMagazine – Marzo 2010

Vivo da sola. Il Comune mi ha fatto uno sconto del 30% sulla tassa dei rifiuti. La mia spazzatura è la manifestazione fisica della mia solitudine. Faccio fatica a riempire un sacchetto alla settimana. La tengo per una quindicina di giorni sul balcone fino a quando non sono certa di riempire un intero sacco viola. I primi tempi portavo quel mega sacco riempito solo da una misera busta leggere. Il sacco vuoto mi metteva tristezza se affiancato a quelli dei miei vicini stracarichi e sul punto di esplodere. Mi sentivo come se non esistessi, il non produrre rifiuti come prova della mia inesistenza. Non produco scarti, non vivo. Bevo un caffè la mattina. Riempio di acqua una tazza, due cucchiai di zucchero e due di caffè. Un minuto nel microonde. Una crostatina e la mia colazione muore producendo una singola confezione di plastica di 7cm per 7. A mezzogiorno mangio un toast. Altre due pezzi di plastica che rivestono le sottilette. Bevo un bicchiere d’acqua del rubinetto. Un altro caffè e una sigaretta. A cena mangio una zuppa liofilizzata. Un’altra busta di tretrapack. Questa è la mia spazzatura. Vivo da sola e lavoro in casa, per vivere leggo i libri degli altri. Vivo attraverso le loro storie. Non esco mai di casa. Fumo. La mia spazzatura è arricchita da una quindicina di mozziconi al giorno più svariati grammi di cenere.
Produco poca spazzatura. Il comune mi fa lo sconto del 30% sulla tassa dei rifiuti. La domenica sento i miei vicini di casa mangiare. Sono una famiglia nel vero senso della parola. Un uomo una donna, due figli, due macchine una moto una bicicletta un mutuo e probabilmente le rate degli elettrodomestici. In estate mangiano sul balcone. Io li ascolto. Ascolto il tintinnare delle loro posate e i loro discorsi. Il padre che dice “passami il sale”. La mamma che taglia la carne al figlio più piccolo. Li vedo di raro, ma li conosco. Conosco i loro orari. Sento quando si lavano e quanto ci mettono. Quando escono per andare a lavorare e quando tornano. Sento quando litigano e perché sgridano i figli. Lui è uno fissato col ciclismo, vedo dalla mia finestra che ogni sabato pomeriggio esce con la sua tutina sintetica e torna dopo ore sudato. Sento che si lava. Sento che dice “che fai di buono stasera?” alla moglie. Sento la moglie che canticchi quando stira. Quando mangiano sul balcone, in quelle calde giornate d’estate, a me sembra di essere in campeggio. Quand’ero piccola andavo sempre in vacanza con la roulotte. All’ora di pranzo sentivi tutto il campeggio in silenzio. Sentivi solo il rumore delle posate. Finito il pranzo le donne nei lavatoi lavano i piatti che portano dentro a bacinelle di plastica colorate. Gli uomini leggono il giornale e si addormentano sotto gli eucalipti. I bambini fremono per andare in spiaggia. Le due ore che devono aspettare affinché la digestione faccia il suo sporco lavoro sono interminabili. Sono le più calde della giornata. Il sole, di quelle ore, dicono che sia nocivo. Era bello il campeggio. Mi piacerebbe andarci qualche volta, ma mi spaventa l’idea di vita in “comune”. Una piazzola non basta per creare privacy e i campeggiatori sembrano convinti che si debba per forza stringere amicizia con i vicini di roulotte. Per non parlare della zona tende. Tutti giovani, pieni di fumo che sperano di scopare o trovare altro fumo. Per carità… non è che mi diano fastidio. A me piace la gente. Mi piace osservarla. Ed è come guardare un film o leggere un libro. Considererei fantascientifico e arrogante il desiderio di prendere parte allo show. Io sono una spettatrice. Questo è il mio ruolo. Credo sia una cosa di vitale importanza capire quale sia il proprio ruolo. Conoscersi a fondo. Rispettare la propria natura. Ho passato 25 anni della mia esistenza a cercare il mio ruolo all’interno della società. Non l’ho trovato. L’unica costante era quella di sentirmi a disagio. Fuori luogo. A mio avviso la parola disagio viene usta troppe volte in modo negativo. Il disagio, dal mio punto di vista, dovrebbe essere una condizione imprescindibile del vivere. E’ l’unico modo saggio per stare al mondo. Non accettare lo status quo, non assecondare mai le situazioni. Porsi in modo critico e non adagiarsi mai. Non rispettare le regole di un gruppo. Se non c’è disagio, non c’è io. Sentirsi a proprio agio in un contesto sociale, vorrebbe dire perdere il proprio “io” per diventare un “noi”. Il “noi” non funziona quasi mai.
O almeno, con me non ha mai funzionato. Ne ero in un certo senso rassegnata, ma oggi mi sento così sola che non ho voglia di mangiare, lavarmi, vestirmi. Ho paura che se passerò l’ennesima giornata chiusa in casa (da quanti giorni non esco? Quattro? Cinque?) potrei impazzire. Oggi è Domenica e voglio farmi un bagno, vestirmi bene e mettere il profumo. Uscire di casa per andare non so dove. Una volta fuori dalla porta deciderò. Una volta chiusa a chiave la porta dietro di me, mi verrà sicuramente l’ispirazione. E così accade. Incontro la figlia grande del mio vicino che è tornata dalla messa. E’ insieme alla madre e solo per oggi, decido di fermarmi a scambiare due chiacchiere. Non so neanche come si faccia, ma la cosa risulta più facile del previsto. Io sorrido e annuisco e la signora parla per tutte e due. Ora, rimane da capire, come riuscire a farmi invitare a pranzo. Dopo mesi ad ascoltare il loro rumori dei pasti, mi piacerebbe prendere parte a quella scenetta. Sarebbe come entrare a far parte del proprio serial televisivo preferito. Se mi chiedesse dove vado di bello alle 12 di una domenica qualsiasi, potrei dirle che mi sono accorta di avere finito il pane per i toast e che cerco un supermercato aperto. Ma dopo tanto tempo a nascondermi e ad essere schiva penso che non oserebbe tanto. Per fortuna c’è la figlia e i suoi dodici anni. “Ma tu stai sempre a casa? Non ce l’hai una mamma e un papà?” La madre la rimprovera benevola, ma in fondo in fondo, si vede che è più curiosa della figlia e vorrebbe sentire la risposta. Sono figlia unica e i miei genitori il giorno dopo che sono andati in pensione, si sono trasferiti al sud. Li vedo due volte all’anno. “Abitano lontano. Qui non ho nessuno.” Solo dopo aver pronunciato al frase mi rendo conto di quanto possa suonare triste alle orecchie di una bambina. Ma anche di una madre, con marito, figli, suocere, fratelli, genitori, colleghi… Infatti, in mezzo agli occhi le si forma una profonda ruga di compassione. Per la prima volta le scruto il volto con attenzione. Distolgo lo sguardo dalla punta dei miei stivali, che fisso da diversi minuti, e osservo i suoi zigomi. Non li avevo, mai notati. Ha gli stessi zigomi di Diamanda Galas. Lo stesso mento puntuto. Quegli zigomi e quel mento che mi fanno compagnia da anni intanto che mangio. Ho un poster di Diamanda Galas sul muro sui cui è appoggiato il mio tavolo. Dopo mesi a mangiare con il vuoto di fronte a me, ho pensato di colmarlo con una faccia. Il volto di Diamanda Galas di fronte al mio intanto che mangio. Ogni tanto scambio due parole con lei. “Ho messo troppo sale nell’acqua” o cose del genere. O guardando il tiggì, se sento notizie aberranti, la invidio e le dico cose come “Beata te che non abiti in questo paese.” E lei mi guarda così eterea e così lontana dai fatti terreni. Credo che Diamanda non produca spazzatura. Ma in lei, non è tristezza, è divinità.

Valeria Brignani