“EXPANSION OF THE MOMENT” di Narjes Ghorbani. Testi a cura di Valeria Brignani e Amin Zarif.

“EXPANSION OF THE MOMENT” di Narjes Ghorbani. Testi a cura di Valeria Brignani e Amin Zarif.

NARJES GHORBANI

Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amatoPittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.

Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.


LA BREVE VITA

Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.

SOGNI INFRANTI

Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.

ACCOGLIERE L’IMPERFEZIONE DI UNA MELA BACATA

Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.

LA RIVALSA DEI COLORI

Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.

NARJES GHORBANI

Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.

Dove c’è arte c’è speranza, ho pensato.

H24: CIRCE PRECIPITA

H24: CIRCE PRECIPITA

GIORNO UNO

Ti ho visto arrivare alle prime luci dell’alba. Hai indossato un lungo cappotto su quei pantaloni ridicoli del pigiama. Ti sei vestito di corsa. Non hai avuto il tempo di lavarti il viso e con gli occhi ancora cisposi hai guidato fino a qui. Hai chiamato tua madre. Lo fate quasi tutti. Tornate bambini incapaci di affrontare la realtà ma adesso che sei qui la tua mamma è più un impiccio che altro, sebbene tu faccia fatica ad ammetterlo.  

Non ti servono le sue mani sulle spalle, le sue parole di conforto poco sincere che non riescono a nascondere il biasimare e recriminare i tuoi errori o il tuo troppo sentire. Perché se sei qui, si sa, è perché ami troppo o forse sei troppo distratto. E l’una e l’altra cosa (o addirittura entrambe) alimentano e giustificano quel sacrosanto sguardo severo, che solo tua madre sa destinarti.

Ti sei pentito di averla chiamata, vero? Vorresti farla scomparire ora, e non dover rispondere alle sue domande, ma adesso è troppo tardi. Ti sei spaventato e l’hai chiamata e lei è venuta subito da te, all’alba, perché è così che fanno di solito le madri. Corrono in tuo aiuto, facendoti notare però il costo che ciò comporta. Te lo dirà come una cosa da nulla, ma farà in modo che quell’informazione colpisca forte e nel punto giusto. Che ha dovuto lasciare solo, per esempio, quell’uomo che un tempo chiamavi “padre” ma che da anni non ricorda più il tuo nome o quanti anni hai. Quell’uomo, suo marito nonostante la malattia, a cui si dovrebbe risparmiare l’inevitabile agitazione che seguirà al suo risveglio in un letto vuoto. Reggerà il suo cuore per il tempo necessario di mettere a fuoco quel biglietto, scritto a caratteri molto grossi, che tua madre ha lasciato attaccato sullo specchio del bagno, per avvisarlo della sua assenza? Lo ha lasciato solo a causa tua, della tua disattenzione e del tuo troppo sentire. Un momento di debolezza, ma fa niente. Possiamo risolvere anche questo problema. Lo faremo insieme, perché da adesso ci siamo io e te e nessun altro.  Lo sai. E, intanto che corri verso di me, cominci ad accettarlo e crei una distanza fisica accelerando il passo. Perché quella che ti cingeva le spalle con un braccio, non è più quella donna che era il tuo tutto, ma è una vecchia che non sa più esserti utile.

Lasciala dietro di te, cammina più in fretta e parlami ora con parole che sono razzi colorati che si stagliano, fumando, tra il bianco opprimente del cielo e l’urgente candore che accieca della neve in montagna. In quest’alba in cui tutto attorno sarebbe gelo e deserto, anche se fosse la notte di San Lorenzo. Allunga la distanza tra un piede e l’altro perché forse è meglio non farti sentire da lei, tua madre, intanto che fai la tua confessione. Ogni parola che dirai potrà essere usata contro di te, è così che si dice, vero? Perché è così che fanno, le madri e gli sbirri.

 Avvolto in un vecchio asciugamano da spiaggia che risale alla tua infanzia, porti il corpo di un gatto. O forse è un piccolo cane, ancora non riesco a capire ma so, dall’espressione dei tuoi occhi, che se è lì tra le tue braccia è perché pensi di poterlo salvare ed io sono qui per questo. Ora parlami. Confessa la tua colpa e cerca l’assoluzione da questa donna, fino ad ora sconosciuta, che ti accoglie con un sorriso privo di condanna e occhi buoni di chi può perdonare e che, ancora non lo sai, sarà la donna più importante della tua vita nei prossimi sette giorni. Perché sette? Perché questa è la regola. Oltre non reggete. 

È stato un attimo di distrazione. Ho lasciato la finestra aperta e lei – inclini leggermente l’involto per mostrarmi il musetto di una gatta bianca, nera e rossa di sangue –  deve aver cercato di catturare una lucertola, forse, o un uccellino – no, lei non ne ha di colpe anche se una parte di te è in collera per la pena che ti sta causando – ed è caduta dal terzo piano. Di solito c’è la rete, ma avevo steso il bucato e… Shhhh, non permettere al panico di strozzarti le parole in bocca perché quello che dirai adesso, potrebbe dannare la tua anima o salvare la vita di quella creatura che stringi tra le braccia. Quello che racconterai adesso diventerà la verità con cui dovrai fare i conti, forse, per il resto della tua vita.

 «Trascina una zampa e sanguina da un orecchio, potete salvarla? L’ho portata immediatamente qui, appena me ne sono accorto. Mi sono distratto un attimo…»

Non è vero. Non è stato un attimo, ma accetto che tu mi voglia, e ti voglia, raccontare questa bugia. Fa parte delle regole del gioco, lo fate per poter sopravvivere. Una legge fondamentale per non rompervi in mille pezzi a causa di quel peso che grava sul cuore, lo sterno e lo stomaco di chi, come te, avendo la responsabilità di una creatura-altra viene a meno di quel patto, attentando alla sua vita. Un tradimento a tutti gli effetti. Non dovevi far altro, in fondo, che prenderti cura di lei. Ma hai fallito ed adesso sei qui davanti a me con una gatta in fin di vita tra le braccia, i pantaloni del pigiama con dei disegnini scemi e un cappotto nero che non basta a non farti sentire freddo.  

«Ho bisogno del tuo nome, del tuo numero di telefono, del codice fiscale e del nome della tua gattina»
«Io sono Carlo»
«Piacere Carlo, non ti preoccupare, hai fatto bene a portare qui…»
«Circe, lei è Circe e…» a pronunciare il suo nome, quella gatta in fin di vita che stringi al petto, emette un debole miagolio e questo, per te, è decisamente troppo. Piangi. Ed insieme alle lacrime butti fuori tutta l’adrenalina che ti ha fatto guidare fino a qui, da me, senza la consapevolezza di schiacciare la frizione per cambiare la marcia, di premere sull’acceleratore durante i rettilinei, di manovrare lo sterzo per assecondare le curve e frenare agli stop o davanti alle strisce pedonali che, per fortuna, a quest’ora sono deserte. 

Schiaccio un pulsante sulla mia scrivania per chiamare chi sbrigherà le ultime scocciature burocratiche, ma sarò io a farti firmare questo foglio che tu non leggerai in cui, dopotutto, mi autorizzi a salvare la vita della tua Circe. Davvero non hai il tempo e la testa, ora, per leggere ogni piccolo carattere stampato su questo foglio e, d’altronde, sappiamo entrambi che non hai altre alternative od opzioni, se vuoi che Circe torni a sedurti con la sua morbida pelliccia, dormendo sul tuo petto intanto che guardi la televisione sdraiato sul divano, lo stesso petto che Circe infilza con quei piccoli uncini on demand, in cerca di cibo ogni mattina. Quel petto che ora non avverte più il calore del suo corpicino, in questo momento di distacco, in cui io sfilo Circe dalle tue braccia e l’accolgo tra le mie, per portarla in ambulatorio e tu non riesci a guardare e resti a contemplare quel freddo, umido vuoto che è la sua assenza. Gli occhi persi. Ti stai chiedendo se questo è un addio.

FINE PRIMA PARTE, CONTINUA…

Per una mela

Per una mela

Ho visto due uomini sconosciuti lottare per una mela. Ma forse era un principio. Poiché la mela è finita per terra a rotolare sul cemento umido del mercato coperto di La Spezia.

Il ladro prendeva a sberle il derubato. Il derubato colpiva con un ombrello il ladro. Eppure quella mela restava lì, per terra, tra le pozzanghere che brillavano di gasolio e piscio di ubriachi. Anche quando sono arrivate le guardie e il ladro di mele è scappato, correndo, inseguito dalla volante.

E la gente che guardava l’uomo braccato, aggrappandosi a quei cocktail troppo viscidi tra le mani, inalando e sbuffando vapore al gusto di cannella e bourbon sintetizzato, sarebbe stata capace di indovinare, immaginare che in fondo era stata rubata (e scagliata sul cemento) una mela rosa? O forse era un principio.

Regina della Notte

Regina della Notte

A volte mi chiedo dove sia l’uomo che temevo
e che mi ha cresciuto
con Jesus Christ Superstar e Colpo Grosso
prima che cominciassi a fumare e decolorarmi i capelli,
secondo una costellazione pedagogica tutta sua,
fatta di sorsi di brandy, di leggendarie bugie
per cui la mia voce era quella di Astrifiammante,
Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen
(La vendetta dell’Inferno ribolle nel mio cuore)
ma che non mi permetteva di credere
a quella favola hollywoodiana
del ricco che salva la puttana
(non esistono i principi azzurri e nessuno ti verrà a salvare, diceva),
in quel vecchio che rifiuto di vedere malato.
Quell’uomo, mio padre, esiste ancora
celato in quella sete di vino a buon prezzo e voglia di lottare,
in quell’assuefazione alla vita
che ha sostituito i tre pacchetti giornalieri di Diana Blu morbide.
Resiste nel negarmi la sua paura
allo stesso modo in cui decideva cosa era adatto al mio sentire
e cosa i miei occhi non dovevano vedere
dietro alla sua mano di ulivo capitozzato,
tra gli sbuffi rossi di polvere del suo sangue al confino.

Fiera / Una lingua morta

Fiera / Una lingua morta

Userai le cose fino a quando non saranno consumate.
Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme
per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte.
Suoneranno come una lingua morta e dimenticata
le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile.


E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta,
la saggezza del grembo, la verità dei sospiri
e per i capelli color degli spettri
che hai tagliato a quella bambola
che ti avevano regalato da bambina.

Non chiederai scusa per quella domanda
che ti fai sempre all’arrivo del treno
con gli occhi in bilico sul binario.


Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta
che ha il respiro di tutte le femmine della storia.
Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre,
mangiando solo per mandar giù vino scadente
e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati.


Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati,
il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.
Ti chiameranno: fiera.

[Illustrazione di Onki Dayan] 
Non dite a mia mamma che io sono Wolverine, Aprile 2017

Non dite a mia mamma che io sono Wolverine, Aprile 2017

Don’t tell my mom è uno story show ideato da Matteo Caccia che, prima della pandemia, veniva ospitato dal Pinch sui Navigli a Milano, il primo lunedì di ogni mese. Le regole sono semplici: bisogna raccontare qualcosa di vero che non vorresti far sapere a tua madre, deve durare 5 minuti e non vale leggere.

Questo è il mio intervento di un lunedì sera di Aprile del 2016.

Non dite a mia madre che sono una pessima madre….

È dieci giorni che manca la mia adorata gattina di nome Ombra. Ed ogni volta che sento un rumore penso sia lei che è tornata e mi viene un infartino. Abito al piano terra e può entrare ed uscire quando vuole, perché ho deciso che fosse giusto favorire la sua autodeterminazione. La gattaiola simbolo della sua capacità di scegliere con chi e dove vuole vivere. Il fatto che sparisca spesso e volentieri per giorni e giorni, mi fa pensare di non essere la madre migliore del mondo. Sono quel tipo di madre troppo libertaria e troppo poco autorevole forse. E infatti, se non fosse sterilizzata, sarei contenta di sapere che va in giro a copulare e a fare strage di cuori… perché è bellissima. Ma non è così, lei va in giro perché le ho permesso di essere indomita e selvatica. 


Fatto sta che ho capito – ogni volta che sento un rumore e penso che sia lei – quel meccanismo delle madri che prendono a schiaffi i figli che attraversano a cazzo la strada. Ora comprendo gli occhi di rancore e giubilo di mia madre, che mi accoglieva sveglia in salotto quando tornavo da adolescente a notte fonda barcollando o vomitando perché avevo preso freddo. 

È che io ci credo proprio a questa cosa dell’autodeterminazione. E così come non voglio che la paura mi imponga di imbrigliare la mia indomita gattina, così non voglio che la paura mi impedisca di uscire da sola, far tardi e prendere i mezzi pubblici di notte.

Da sola.

Ubriaca la maggior parte delle volte.

Il problema principale del prendere i mezzi pubblici di notte, da sola e ubriaca per tornare in quel di Tradate in provincia di Varese, da Milano.. è che a causa dell’industria automobilistica e dei poteri forti legati all’industria petrolifera, i mezzi pubblici fanno letteralmente cagare – e non uso questa espressione a caso –  e l’ultimo treno è intorno alle 22 che mi porta però fino a Saronno e da lì prendere il bus sostitutivo che fa tutta la provinciale e tutte le fermate della linea ferroviaria. Dopo mezzanotte non ne parliamo… Perché non c’è neanche più il treno fino a Saronno e il bus parte direttamente da Milano Cadorna, per due ore di terrore o noia suprema a seconda di chi sono i miei compagni di viaggio

Una breve parentesi. Mi chiamo Valeria Disagio perché quando lavoravo nel sociale a contatto con parecchi casi umani, dovevo “censirli”, ma sebbene nei moduli che dovevo compilare ci fosse spazio per il nome e il cognome, per questione di privacy non potevo mettere il cognome e così pensando che i miei superiori non avessero gradito se io avessi scritto… che ne so… Matteo il tossico, Federico l’ubriacone o Paola la ritardata… ho optato per un generico e giornalistico “disagio”. Quindi c’era Matteo Disagio, Federico Disagio e Paola Disagio. La cosa fece molto ridere i miei capi che da allora mi chiamarono così, anche per altro motivazioni che non sto qui a spiegarvi… Ma tutti possono essere Disagio.  Un ragionamento analogo l’ho fatto per i miei compagni di viaggio del bus sostitutivo notturno.

Perché non è la nazionalità o il livello di istruzione che fanno l’emarginato. Non importa se proviene da un Paese più o meno maschilista o più o meno alcolista o più o meno devastato dalla guerra… ciò che ti rende un emarginato è il sacchetto.

Fate attenzione. Avete presente quei sacchetti enormi fatti di concentrato di petrolio purissimo, bianchi o azzurri, senza logo? Non li producono dall’86 probabilmente e non ho davvero idea di dove li recuperino. Fatto sta che se vedete uno con un sacchetto gigante, di notte, su un bus sostitutivo notturno, compatitelo o temetelo. Ed è di una gang di sacchettini, sacchettesi, sacchettari…. Non so come definirli… che vi voglio raccontare.

Perché una bella notte in cui tranquilla sedevo sul mio bus sostitutivo, mi sono imbattuta in un gruppo di 5 sacchettesi giovani e alle prime sbronze. Elemento che incrementa in modo esponenziale il fattore coglionaggine. Dico che sono giovani e alle loro prime sbronze perché bevevano Keglevich alla fragola. E chiunque abbia uno stomaco sa benissimo che non è possibile sbronzarsi per più di una volta per generazione con la Keglevich alla fragola.

Ad un certo punto però, i nostri sacchettari al gusto fragola e vomito, mi notano e cominciano ad avvicinarsi. Ed io dentro di me maledico quella mia stronzissima fissazione per l’autodeterminazione che mi ha portato da sola, di notte, su un bus sostitutivo notturno e ripasso come un mantra le tre tesi dell’autodifesa femminista.

Artist: Jenn Woodall

Sì, perché ho una bottiglia di birra in mano e penso che potrei difendermi spaccandola e puntandola alla giugulare, ma no…

Le tue stesse armi possono essere usate contro te stessa

Il manuale di autodifesa femminista sconsiglia l’uso di armi, perché è più facile essere disarmate prima di riuscire ad usarle. Non è proprio da tutti spaccare una bottiglia e puntarla alla gola di qualcuno. Metto via la bottiglia nella borsa sperando che non l’abbiano notata e vedo una cosa che mi ricorda la seconda tesi del manuale di autodifesa femminista.

Tu sei l’arma

Per questo s’intende che un “NO” risoluto o una determinata postura possono essere sufficienti a volte per scoraggiare un’aggressione. Io però non sono troppo lucida e penso che il mio corpo sia per davvero un’arma e comincio a ripetere “sono un’arma, sono un’arma… le mie mani sono un’arma… le mie mani hanno gli artigli… si io sono un mutante… sì, cazzo… io sono Wolverine” e infatti prendo le mie chiavi di casa, infilo ogni chiave tra le dita e così divento Wolverine. O almeno credo. Ma le chiavi strette così in mano fanno un male boia e no, non credo di riuscire ad artigliare qualcuno che le chiavi della cassetta della posta. Allora penso alla terza tesi, la più estrema: è statisticamente provato che delle donne si siano salvate da un’aggressione rendendosi sgradevoli e non appetibili – passatemi il termine sebbene il concetto in sé faccia davvero schifo – dal punto di vista sessuale.

CERCA DI FAR SCHIFO AL C***O

E allora eccomi lì, un minuto prima ero Wolverine e il minuto dopo sono pronta ad alzare le braccia al cielo e urlare “Ho la candida e prude da morire” o nel caso più estremo farmi la cacca addosso. Ma per fortuna i sacchettesi sono scesi alla fermata prima della mia. Io sono tornata a casa ho controllato che la mia gatta fosse dentro e ho chiuso la gattaiola. Perché il mondo è quel posto orribile in cui una donna deve essere disposata a farsi la pipì addosso per poter girare da sola.

E niente… non dite a mia mamma che io sono Wolverine. 

EDIT: ho smesso di prendere il bus sostitutivo notturno da anni, ma in compenso sono stata scippata da una gang di teenagerz, in pieno giorno, in treno.

EDIT 2: Ombra, la mia gattina, ha deciso di non tornare più. Mi piace credere che abbia trovato una coinquilina più attenta e premurosa di me. A lei avevo dedicato questo.

POSSO VIVERE ANCHE SENZA DI TE | Un mio racconto per “Abbatto i muri – Al di là del buco”

POSSO VIVERE ANCHE SENZA DI TE | Un mio racconto per “Abbatto i muri – Al di là del buco”

Racconto originale qui

Mi scrive Valeria. Lei dice:

l’altro giorno ho letto questo articolo su Repubblica e mi sono innervosita molto. Il non avere un compagno viene trattato come una sorta di patologia. L’essere sola, non come una scelta, ma come una difesa perché hai troppo sofferto. Di reazione ho scritto il racconto che allego. Non mi vengono in mente altri spazi in cui vorrei vederlo pubblicato. L’ho scritto di getto, a mano, senza praticamente cancellare nulla. L’ho trascritto nei ritagli di tempo che riesco a rubare a lavoro. Spero ti piaccia, spero possa trovare spazio nel tuo bellissimo mondo che seguo, leggo, ri-leggo perché mi fa pensare e perché fa dei pensieri parole. Con suprema-giga-interstellare stima, Valeria

E io le rispondo che non solo il racconto è bello ma che condivido il fastidio che quell’articolo le ha provocato. Possibile che le scelte delle donne debbano sempre essere trattate con disprezzo o con una strana pietas, la stessa destinata alle “zitelle” di una volta, con pioggia di stereotipi sessisti conseguenti?

Godetevi il racconto di Valeria e grazie per le meravigliose parole di stima che mi hai rivolto.

I’m unclean, a libertine. Without you I’m nothing

Placebo

Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua

Formulò la frase stiracchiando il suo corpo indolenzito per traverso lungo la diagonale di quel letto che aveva appena finito di dividere con un uomo, conosciuto la notte prima.

Lo aveva osservato dormire dopo essersi liberata dal suo abbraccio. Non aveva mai scopato prima di allora senza riconoscere come familiare il tocco delle mani sul suo corpo. La forma e il sapore dei baci. Il ritmo e la melodia del piacere dell’altro. Aveva sempre amato. Amato molto. Intensamente. Con abnegazione e fede. Era la prima volta che usava un profilattico per proteggere sé stessa dall’altro.

Quel rapporto senza esplicitazione del seme le era parso un gioco, una messinscena, bambini che giocano a prendere il thé con tazze invisibili e biscotti trasparenti.

Quel rapporto senza amore l’aveva liberata.

«È tutto qui» la meccanica del desiderio e del piacere a lungo scambiata per sentimento ora si svelava in tutto il suo inganno come la scenografia di una messinscena. Medesimo era il calore. Medesimo il piacere e la complicità. Per questa notte si erano appartenuti. Si erano dati. Si erano lasciati cadere all’indietro e avevano trovato braccia decise ad attutire il tonfo.

Si guardò allo specchio appoggiato alla parete – non aveva ancora trovato il tempo né la voglia di ancorarlo al muro – posò una mano in mezzo alle gambe. Era ancora bagnata. Aperta e vorace degli spasmi del grembo. Eppure voleva che lui se ne andasse il prima possibile.

Sopportò il rituale delle chiacchiere davanti ad una colazione raffazzonata. Non faceva la spesa da settimane. Lui mangiò molto, pure quella fetta biscotatta che lei non era riuscita a finire. Così come il thé che aveva lasciato raffreddare nella brutta tazza recuperara ad un mercatino dell’usato. Uscirono a piedi.

Prima di uscire lui l’aveva guardata rivestirsi. Sorridendo. Il suo sguardo l’aveva fatta sentire bella. In quegli occhi vi era una forma di gratitudine. Quel “grazie” non detto la fece infuriare. Ma lui le si era avvicinato e aveva posato le labbra sulle sue e quel calore l’aveva accesa nuovamente. Quelle labbra, quella lingua e quei denti con cui aveva danzato durante la notte.

Una volta giunti alla macchina, si abbracciarono e in quell’abbraccio si placò. Quel calore uguale a qualsiasi altro corpo. Sorrisero e si promisero di rivedersi al più presto. Mentivano entrambi. Quando l’auto svanì all’orizzonte, lei si rese conto di non ricordare il suo nome; sapeva solo come si faceva chiamare sui social network. Un nome idiota. Scoppiò a ridere nel parcheggio attirando l’attenzione di alcuni vicini di casa. Era di buon umore. Tirò fuori le cuffie dalla borsa per ascoltare della musica. Sfogliando la cartella dei file del lettore mp3 decise che non aveva voglia di qualcosa di preciso. Selezionò la riproduzione casuale delle tracce. Non lo aveva mai fatto prima.

Tornando a casa cambiò le lenzuola canticchiando una canzone. Si fece un lungo bagno e studiò il proprio corpo nudo immerso nell’acqua. Aveva numerosi lividi. Un ematoma nero a forma di sigaro nella parte interna del braccio. Un altro livido ricordava l’impronta di un bacio all’interno della coscia. Gli stinchi erano coperti di sfumature violacee. Succedeva sempre così quando andava ai concerti. Beveva fino a perdere la cognizione del dolore e si spingeva fino in prima fila sfidando i gomiti e le spinte del pogo esasperato. Quando era ragazzina era troppo magra e timida per spingersi così sotto il palco. Timorosa di farsi male. Di mani inopportune e di cadute sgraziate. Ora si faceva sollevare sulle braccia dei suoi amici. Più volte era caduta. Si era spaccata un incisivo. Si era fatta male. Eppure a rivivere quei momenti, ciò che provava, non era dolore ma una forma di amore che non può ferire. E le bastava. Un amore sincero e carnale. Un amore fatto di parole urlate al soffitto. Di sudore. Di musica a volumi sbagliati. Di spazi piccolissimi o vasti e fatiscenti. Sporchi e colorati. Liberi. Cessi inagibili. Birracce calde in lattine da mezzo litro e prontamente rovesciate a battezzare la continua nascita di sogni e piccole rivoluzioni. «Ce li stanno portando via tutti, pezzo dopo pezzo…» pensò ricordando le immagini delle divise, degli scontri e della resistenza fatta di cassonetti ed eroi solitari arrampicati sui tetti.

La vita, fuori da quei luoghi, era priva di amore.

«Amore, amore, amore…» era così che per anni aveva chiamato il suo compagno. Il suo solo compagno. Con lui aveva sognato di costruire un futuro soltanto loro. Con lui aveva deciso di fare a metà della propria esistenza.

«Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua» ripeté nella mente al supermercato, leggendo gli ingredienti di una confezione di biscotti che nascondevano uova e tracce di latte. Li lasciò sullo scaffale e passò alla confezione accanto. I suoi acquisti erano guidati da una rigidissima serie di regole, ma era la sua norma e soltanto il suo gusto a determinare la scelta finale.

«Mangio quello che voglio e quando voglio» pensò.

Era la sua quarta o quinta spesa fatta da quando aveva deciso di camminare da sola. Nonostante il flusso la portasse nella direzione opposta. Nella sua testa risuonava ancora l’eco delle barriere imposte ai gusti di lui. Ignorò l’eco. Comprò solo quello che piaceva a lei e immaginò di cucinarlo e mangiarlo da sola nella sua cucina. Passando davanti al reparto degli alcolici tirò dritto per evitare la moralizzante nausea del post-sbornia, ma una volta vicina alla cassa tornò sui suoi passi. Non aveva più alcolici in casa. A parte quella bottiglia di vodka che teneva da parte per un’occasione speciale. Non aveva alcuna idea di quale potesse essere la sua idea di “speciale” eppure la teneva lì. Aspettando.

La musica continuava ad isolarla dal mondo. In mezzo alla ressa di un sabato in un supermercato, si sentiva sola e separata da ciò che la circondava. Galleggiava e si spostava tra una corsia ed un’altra come un fantasma che non poggia i piedi al suolo. Libera dal peso della gravità. Qualcosa attirò la sua attenzione: una coppia a pochi metri da lei stava conversando davanti alle bottiglie di vino. Gesticolavano. Soprattutto le mani di lei. Disegnavano le parabole delle chiome degli alberi sconquassate dal vento. Decise di osservarli senza spegnere la musica. Non voleva origliare. Osservò l’aprire e il chiudersi della bocca di lei e di lui. Scorse la frenesia delle mani di lui nascoste nelle tasche dei jeans costosi, ma strappati e logori artificialmente. La scarpe da tennis di marca. Le ballerine di lei. Quei piedini raso terra che si puntavano contro un muro di rivendicazione. Aveva visto quella scena migliaia di volte. L’aveva vissuta.

Amici a cena. Bisogna scegliere il menu e abbinarci un vino. Cucineranno e puliranno a casa tesi ed eccitati. Berranno molto vino e passeranno una bella serata, nonostante la velata antipatia che lui prova per la ragazza del suo amico. Sparleranno degli assenti. Faranno in modo che non si creino buchi nella conversazione. Si congederanno quando almeno due persone su quattro cominceranno a sbadigliare rumorosamente. «Andiamo a nanna» dirà l’altra lei appoggiando una mano sulla spalla o il ginocchio di lui. I convenevoli dell’ultimo bicchiere, degli ultimi saluti, le ultime promesse. Si impegneranno di vedersi presto. Mentendo.

Quando la coppia del vino giunse al compromesso tanto agognato, lei decise di prendere le stesso bottiglie elette. Le avrebbe bevute la sera stessa. Magari avrebbe potuto invitare anche lei qualcuno a cena. Uno sprono a mettere in ordine. Casa sua era allo sbando. Avrebbe potuto invitare le sue amiche di sempre, quelle con mariti e figli di cui prendersi cura, raccontargli i dettagli pruriginosi della sua notte di eccessi e sesso con… Si ricordò il nome all’imporvviso: Roberto.

Alla cassa si presentò con sei bottiglie di vino, una confezione di biscotti vegani ed una scatola di preservativi. L’uomo della coppia del vino guardò ciò che scorreva sul nastro della cassa e alzò lo sguardo su di lei. Improvvisamente si vide attraverso gli occhi di un altro. Le calze strappate, la gonna molto corta, la maglietta di un gruppo crust svedese e i lunghi capelli corvini ormai grigi sulle tempie. I tatuaggi in vista e le rughe attorno agli occhi. Quarant’anni appena compiuti e tutta la vita davanti.

«Sono il tuo peggiore incubo e il più proibito dei desideri» gli disse con lo sguardo che lui abbassò.

Lei sorrise alla cassiera, pagò con la carta di credito e uscì sentendosi attraversata dalla corrente elettrica.

«Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua» sussurrò con le labbra al suo riflesso nella vetrina.

Novembre, 2014

SIGNORA VERRUCA

SIGNORA VERRUCA

Wendy, vecchi occhi di orzata
manto di pioggia e buccia di salame
naso umido pensante

Precipito insieme a te, goffa, al tuo fianco
che potresti liberarmi di questa mia vita tra le fauci
ma su cui vegli da tre minuti o tre millenni.

Ci siamo chiesti cosa fosse il tempo per il cuore di una cagna
con la memoria del fango,
delle infinite foreste,
delle lotte tra branchi,
del canto dei lupi
e dei falò dei primi uomini,
legata a quelle tue zampe inceppate
in un loop di sogni, ringhiare, tuoni e saggezza.

Resta ancora qui
perché io non ho i tuoi artigli
o la tua mandibola capace di spezzare ossa,
ma condivido quelle tue gengive insanguinate
a custodia di denti che il tempo ha limato.

E questi giorni, in cui ogni ora è preziosa,
ed ogni tua ora basta a restituire furia e fierezza
alla parola “cagna” nei secoli passati e in quelli a venire,
ho bisogno di te come mai prima.

Perché non ho ancora imparato a cambiare il pelo
e quella tua pelliccia, che puzza e seduce,
mi è necessaria per essere me stessa in questo mondo.

LA LEGIONE ESTRANEA

LA LEGIONE ESTRANEA

The savage mutilation of the human race is set on course
It is up to us to change that
Protest and survive

«DeeDee, vieni qui, beviamo insieme e ascoltami: ora ti racconto una barzelletta»

«Una barzelletta?»Mi chiedi con quegli occhi bestiali che come spilli inchiodano la tua faccia da bambina al muro di cemento alle tue spalle.

«Sì, una barzelletta. La barzelletta dello sciamano e della stirpe dei boschi» Ti rispondo io, in questo dialogo che non è mai avvenuto perché ci sono alcune cose che non sono mai riuscita a dirti.

In un paese lontano-lontano vi era una profondissima gola che era stata scavata da un piccolo torrente. Quel torrente doveva essere stato un fiume rigoglioso di pesci e libellule un tempo. Persino i cervi, le volpi e i corvi andavano a bere quelle sue acque insorgenti, ma poi erano arrivati i Primi Uomini e lì si erano insediati perché il fiume e i boschi davano loro di che mangiare e scaldarsi in inverno. Ad Est e Ovest del fiume c’erano due colline: i Primi Uomini decisero di insediarsi su quella occidentale e di mantenere selvaggia l’altra, per avere sempre legna da ardere e bestie da ammazzare per le loro carni e le loro pelli. Ma è inutile che ti racconti dell’avidità dell’uomo e della violenza dello sviluppo senza progresso. Superfluo che ti racconti che quel fiume sia diventato un torrente e che ne’ alci, lupi o linci popolavano più quei boschi all’epoca di questa barzelletta, perché in quel tempo sulla collina d’Occidente giaceva ossuta e vacua la carcassa di quella che un tempo era la città dei Primi Uomini. Dall’altra parte, invece, un bosco che a fatica cercava di riconquistare il suo regno.

In verità la città non era disabitata, sebbene lo sembrasse, poiché sulla cima si diceva abitasse un vecchio saggio di mille e passa anni. Ne aveva visti di uomini e donne arrivare sulla collina Est, tagliare gli alberi per erigere delle capanne e sognare il risorgimento di una nuova umanità nella valle. Eppure pescavano dal fiume ormai radioattivo solo alghe e mitili deformi, il freddo li faceva ammalare e far diventare di cattivo umore. Chi sopravviveva all’inverno non osava sfidarne ancora la misericordia e abbandonava quelle terre. La collina Ovest e la derelitta città dei Primi Uomini? Troppo ostile e spettrale per pensare di stabilirvici. Le facciate delle case mostravano come in un ringhio le putrelle arrugginite del cemento armato. Tutto ciò che poteva essere bruciato era stato arso e continuava a crepitare in un grande braciere al centro del rifugio dell’antico saggio: una vecchia cisterna sotterranea di quello che doveva essere stato il centro di stoccaggio di combustibili fossili della città. Dal suo tetto tormentato ne usciva un fumo denso e nero che faceva lacrimare e tossire ad avvicinarsi troppo.

Un giorno come tanti arrivò l’ennesima stirpe di disperati, l’ultima di una lunghissima sequenza di gente scappata dalla metropoli sotto assedio, che non aveva nulla da perdere o che aveva perso tutto. Sapevano di quanto potesse essere spietato lì l’inverno; così decisero di fare una bella scorta di legno. L’avrebbero fatta ardere nel grosso focolare al centro del capanno di Eternit e vecchi cartelloni pubblicitari, che avevano raccolto dal letto del fiume ormai quasi prosciugato.

Quel fuoco non passò inosservato.

Iniziarono gli uomini in buona salute, i più forti. Colpo di accetta dopo colpo di accetta ne accatastarono così tanta che non potevano più impilare un tronco sull’altro senza farli rotolare rovinosamente a terra. Ma temevano che non sarebbe stata abbastanza. Bisognava prepararsi al peggio e così decisero di consultare lo sciamano dall’altra parte della valle. Lui è un saggio e ha superato mille inverni, pensavano. Potrà e vorrà di certo aiutarci. E così quello che veniva definito da tutti il capo (per anzianità, forza e solidità dei suoi legami) percorse il colle fino al torrente, lo guadò e ne uscì ricoperto da una grigia melma maleodorante. Si arrampicò fino alla città e proseguì verso l’origine di quel fumo nero e tossico. Scoprì che lo sciamano, il vecchio saggio, non era solo. Altri uomini e donne sedevano attorno ad un fuoco. L’uomo venne accolto con una certa diffidenza. Sebbene il loro tempio cadesse a pezzi, sembravano tutti impegnati e concentrati in qualcosa di severo e importante che a quanto pare, doveva essere più urgente di aggiustare ciò che era rotto… come quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti. Quegli uomini e quelle donne non alzavano la testa dalle viti, dai bulloni, dagli stracci e i chiodi arrugginiti con cui stavano costruendo armi e scudi per difendersi da nemici i cui sguardi nessun occhio aveva mai incrociato.

Il vecchio saggio acconsentì a conceder loro udienza, offrendogli un bicchiere di liquore distillato dalla cenere e l’inchiostro.

Sono qui, vecchio saggio che abiti la valle da oltre mille anni, per sapere se sopravviverò a questo inverno. Gli chiese con grande timore l’uomo del bosco.

L’inverno sarà rigido e lungo, forestiero. E i nostri nemici sono alle porte. Rispose e lo congedò senza permettergli di controbattere o fare altre domande. L’assemblea dei saggi ha parlato, vai ora… ruggì.

L’uomo del bosco tornò sui suoi passi e crollò esausto nella sua branda col terrore di perire per il freddo che di certo sarebbe arrivato. Forse quella sarebbe stata la sua ultima notte nel regno dei viventi. Il freddo o la violenza dei bruti avrebbe messo fine alla sua esistenza? Chi erano questi nemici? Se per i discendenti dei Primi Uomini era più importante assemblare armi anziché coltivare la terra o aggiustare il tempio, dovevano essere temibilissimi. Pensò ai suoi simili, alla sua famiglia che lo aveva seguito e che si fidava ciecamente di lui, si chiese come confessargli che forse non avrebbero superato l’inverno, ma fu ancora la luce dell’autunno a svegliarlo il giorno dopo. Un autunno caldo a dir la verità, come non se ne ricordava da molto tempo… ma lo sciamano, lo sciamano aveva detto che…

E così convocò tutta la sua stirpe attorno al focolare. Parlò del freddo e dei nemici. Più dei bruti che del freddo, poiché l’ostilità della Natura e la collera della Dea era qualcosa che faceva tremare fino al midollo spinale, mentre questi nemici… i nemici… possono essere respinti costruendo muri e fabbricando armi, per esempio, e così ordinò loro di abbattere ancora più alberi e di costruire delle barricate. E nessuno obiettò perché se persino i più forti e impavidi della stirpe temevano questi invasori… beh, sì, dovevano essere davvero davvero terribili. I forti dopotutto avevano parlato e chi erano loro per poter mettere in dubbio ciò che proferivano?

Passarono giorni e giorni in cui tutta la stirpe, con abnegazione ed obbedienza, abbandonò ogni attività che non fosse necessaria alla difesa di quel nulla che avevano e chiamavano vita. Nessuno arava i campi o faceva conserve con quei frutti che cadevano marci sulla terra. Nessuno pregava o intonava canzoni per le persone amate. Tutti erano impegnati nella costruzione delle barricate e nell’abbattimento degli alberi.

No, non vogliamo morire qui in questa valle. E forse tutto questo non basta… Torneremo dal saggio. Dobbiamo sapere se vivremo abbastanza da rivedere la primavera. Dicevano.

E così affrontarono quel viaggio che già era stato percorso solo poco tempo prima. Arrivarono nel tempio dei saggi della collina ad Occidente e presto si accorsero che la diffidenza era diventata ostilità, ciononostante ancora una volta il vecchio li invitò a sedersi attorno al fuoco. Questo volta però, senza offrir loro il liquore di cenere e inchiostro. Pareva stremato da notti insonni, dai succhi gastrici e le ulcere che lo affamavano e lo pungolavano.

Siamo qui per la medesima ragione che ci ha spinto a disturbarvi in passato. Vogliamo sapere se sopravviveremo a questo inverno, nonostante il freddo e i nemici. Chiese il figlio del capo stirpe, intanto che gli altri della delegazione, ad occhi bassi, tremavano al pensiero della risposta del vegliardo.

Sarà un inverno estremamente duro. Sarà un inverno tanto lungo quanto gelido. E i nemici… gli invasori sono pronti a sferrare il loro terribile attacco ad istanti. Rispose lo sciamano agli uomini che si chiusero nelle spalle come le dure e spinose foglie di un cardo selvatico attorno al suo frutto. Durante il viaggio di ritorno non parlarono neppure, ma appena arrivati nelle loro case fatte di legna e relitti trovati nel letto del fiume, decisero di scrivere anche ai villaggi vicini per avvisarli del pericolo imminente. Ma che l’inverno fosse alle porte era scontato, pensarono, non c’è bisogno di dire agli uomini e alle donne che ogni autunno è seguito dall’inverno, quando ci sono dei nemici pronti a portarci via tutto ciò in cui crediamo! Il grosso problema erano gli invasori… questi bruti da cui era necessario difendersi ad ogni costo. Da soli non avrebbero mai potuto farcela. Era urgente allertare tutte le valli e tutti i villaggi e forse persino chi era rimasto nella metropoli. E poi abbattere ancora alberi e alzare altre barricate. E così alcuni degli uomini – gli eletti – armati di motosega, buttarono giù tanti alberi quante dita avevano complessivamente nelle mani e nei piedi. Cinquantanove, fra pioppi e conifere, vennero abbattuti. Cinquantanove e non sessanta, poiché quello più giovane e mingherlino della stirpe aveva perso l’indice l’autunno precedente tra la sua motosega e il tronco di una quercia.

La sera, con il vasto terreno borchiato dai moncherini degli alberi e le barricate costruite ammassando così tanta spazzatura da oscurare la luna, si sentivano già più sereni e decisero di ubriacarsi e brindare alla loro unione… quegli uomini forti, coraggiosi, in mezzo al dominio della selvatichezza e delle bestie, che insieme erano pronti a dominare la Dea e a vivere fino alla primavera. Eroi che avevano in mano la vita e la sopravvivenza di donne, vecchi e infermi! Eroi pronti a combattere contro nemici tanto terribili che neanche la fantasia sarebbe stata in grado di partorire. Si ubriacarono e festeggiarono, ma tutti gli strumenti musicali erano stati distrutti e le poesie dimenticate, perché nessuno le recitava da troppo tempo. E senza musica e senza poesia, si arrangiarono come potevano: picchiarono i loro bastoni contro le lamiere e urlavano cori semplici e ripetitivi. Sbam sbam sbam… e il più anziano partiva con una filastrocca inquieta a deridere i nemici e il freddo inverno con volgarità e violenza. Sbam sbam sbam… e i più giovani e meno coraggiosi che lo seguivano e così le donne e i bambini che trovavano buffa la rima baciata! Sbam sbam sbam…. E quel rumore senza poesia esplose nell’eco della gola, giungendo persino alle orecchie dei vecchi nella città ad Ovest del torrente inquinato.

Ma poi arrivò la notte e le temperature si abbassarono e il buio faceva paura.

Dobbiamo tornare da loro. Dissero, ma dovettero constatare che era rischioso partire e lasciare le donne sole con gli invasori, che senza dubbio, si nascondevano dietro alle vette più prossime al loro villaggio. E come fare?

Andremo noi, dissero le più giovani della stirpe, annoiate da quei cori ed escluse dalle decisioni. Prima dello stato di emergenza perenne erano impegnate a coltivare la terra, nella cura della comunità e nei rituali propiziatori. Svolgevano le loro mansioni come investite di una missione e lo facevano cantando versi e poesie tramandate da millenni, ma contaminate dal loro essere, dal loro vivere, dal loro sentire… Nulla a che vedere con quei rozzi cori oggettivi e privi di personalità che da ore e ore ammorbavano la valle. I versi delle donne erano i canti delle lupe e delle bestie della foresta. I canti di tutte le donne che avevano vissuto quei boschi e quelle terre. Erano i medesimi canti… eppure allo stesso tempo diversi, perché non potevano più piangere come le mondine del secolo passato. I fiumi erano inquinati e nessuno più affondava le gambe nel fango per coltivare il riso. Quello non era più il loro mondo, ma della stessa natura erano le ingiustizie e la voglia di essere felici e quindi, quelle poesie, andavano fatte proprie. Perché i versi del passato, se non vengono incastonati dalle emozioni del presente, restano vane formule vomitate da preti e soldati. Tristi figuri che trovano piacere nel sentire la propria voce amplificata in una gelida eco, del cui senso solo pochi eletti sono davvero a conoscenza. Sbam sbam sbam….

A parlare fu una ragazza di nome Dorothy Gale e le sue parole vennero accolte da un silenzio sbigottito. Quel silenzio si trasformò in una volgare risata che coprì i brontolii degli stomaci svuotati dall’assenza di cibo. Eppure i frutti marcivano sulla terra e le piante nei campi soffocavano tra le erbacce.

Non avete molta scelta: o lasciate la difesa del villaggio e l’approvvigionamento della legna per l’inverno a noi o ci lasciate andare a parlare coi saggi della collina Ovest. Rilanciò la ragazza con la voce tremante di collera e orgoglio. Ed aveva ragione… con un rapido gioco di sguardi i più forti del clan si accordarono: no, non potevano di certo lasciare il futuro in mano a quelle braccia deboli, quelle teste sognanti e quei cuori acerbi – erano così emotive quelle ragazze… così maledettamente emotive e sensibili!

E così partirono. Il viaggio fu più difficoltoso delle volte precedenti. Il vento tagliava la faccia e le rocce erano scivolose e l’acqua del torrente sembrava volerle pugnalare come bambole woodoo, ma non volevano fermarsi. Non si sarebbero fermate. Arrivarono al tempio e trovarono la porta sbarrata. Bussarono con tutta la loro forza, ma nessuno era disposto a farle entrare. Solo dopo che si inginocchiarono tutte quante ad implorare piangendo per essere ricevute, si affacciò il vecchio saggio. Su quel volto che loro non conoscevano riconobbero però, come incisi nei muscoli, i segni del più cieco terrore.

Andate via. Disse. Andate via. Urlò. Sta arrivando. Sta arrivando l’inverno più tragico della storia della nostra umanità, sbraitò sputando un dente e parecchia saliva. I nemici… i nemici sono tra noi e distruggono le barricate nella notte e sabotano le nostre armi e ci succhiano il sangue quando dormiamo! E forse anche voi… forse siete voi i selvaggi! Urlò con una voce tanto stridula, da far vibrare i vetri rotti attaccati come denti marci alle finestre del tempio.

Il cuore delle donne della collina orientale si ghiacciò all’istante. Non più sangue pulsante, non più calore. Quella benzina che incendia le emozioni era svanita, lasciando il posto soltanto alla paura, al sospetto e al più feroce spirito di sopravvivenza. Si voltarono di scatto come colpite da una scossa elettrica, mosse da un’unica urgenza: salvare la propria pelle a qualunque costo. Cominciarono a guardarsi l’un l’altra con timore e accusa. Dietro a quegli occhi, come con uno scanner di ultima generazione innestato nel cranio, scorrevano tutte le informazioni inerenti all’operato del soggetto in osservazione. Un registro virtuale che scandagliava i meandri più intimi e oscuri. Ogni buco, ogni ombra nel loro essere ed agire poteva essere una prova del loro tradimento dopotutto.

Gli occhi di Dorothy Gale rimbalzavano come una pallina di un flipper da una all’altra di quelle che, fino a poco tempo prima, erano le sue amiche più care. No, non poteva accettare che una di loro potesse essere una minaccia per la sopravvivenza sua e della stirpe della collina orientale. Eppure il saggio aveva detto… eppure i forti del clan avevano detto… eppure…

Una cornacchia malconcia, noncurante degli oscuri pensieri di Dorothy Gale e delle sue amiche che la profezia voleva nemiche, tagliò in due il cielo e gracchiando magnetizzò il suo sguardo verso l’orizzonte e poi sul tempio: faceva paura. No, non era paura… era schifo e pena. Perché lo avevano lasciato cadere a pezzi? Perché non avevano fatto nulla per aggiustare quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti? Così dava l’impressione di poter essere buttato giù senza sforzo alcuno… anche da… anche da una scorreggia!

Le scappò inaspettatamente da ridere. Erano così tanti giorni che non rideva, quasi fosse una colpa sorridere coi nemici alle porte e la minaccia dell’inverno che pendeva sulle loro nuche.

Il suo sguardo si soffermò sulla porta crollata del tempio. Al suo posto c’era un vecchio cartellone pubblicitario di un film antico… risaliva ad oltre cent’anni prima. Quel film era Il Mago di Oz con Judy Garland e lo aveva visto quando ancora abitava nella metropoli e l’ultimo cinema aperto, lo aveva proiettato in occasione del centenario dalla sua uscita. Uno dei rari momenti di cultura e socialità nonostante l’assedio dell’esercito di difesa. Se lo ricordava. Lo aveva visto due volte di fila, perché la protagonista si chiamava proprio come lei e poiché, ahinòi, di film nuovi non ne uscivano da diverse decadi. Si ricordò all’improvviso la scena in cui Totò, il cagnolino della sua omonima, smaschera la messinscena del temibile Mago di Oz! Truffatore e bugiardo il cui potere si sorreggeva soltanto su trucchi, illusioni e paura. Senza pensarci troppo urlò verso la finestra da cui era spuntato il saggio.

Come fa? Come fa a sapere queste cose? Urlò con una tale forza che non credeva di avere.

Il saggio si scoprì sorpreso nel constatare che, per la prima volta dopo secoli, qualcuno – una ragazzetta per giunta – osava mettere in dubbio le sue verità. Decise di affacciarsi e le rispose.

Abito questa valle da molto tempo prima che i tuoi nonni nascessero ragazzina e so come gira il mondo. Dall’alto della torre del tempio, posso scorgere le vette di tutte le colline e vedo tutti i villaggi che popolano questa gola. Vedo quello che fanno, vedo quanti alberi tagliano e quanto sono alte le loro barricate e capisco quanta paura hanno per l’intonazione dei loro canti. Io ho osservato tutti loro e comprendo l’entità della minaccia che pende sulle nostre teste.

Disse.

«Ma è finita?»

Mi chiedi e giustamente protesti: «ma a me non sembra una barzelletta e non mi fa neanche ridere porcodio»

No, DeeDee, non fa ridere però ti giuro che era una barzelletta. Me la raccontava sempre mio padre e dovrebbe far ridere, come fa ridere un calzino bucato ai piedi di un imperatore o vedere un vescovo ricoperto di porpora e oro inciampare nella sua sottana. Perché dovrebbe far ridere lo smascherare e ridicolizzare il potere di quel saggio che poi, tanto saggio non era. Una pernacchia piena di sputi alla faccia di chi vuole imporre la propria verità, sacrificando la realtà se questa risulta incomprensibile, sgradevole o faticosa. Una barzelletta rivoluzionaria DeeDee, che mi è venuta in mente spesso da quando mi hai raccontato cosa ti hanno fatto. Dopo lo schifo, il dolore, la rabbia e l’odio… mi è tornata in mente la barzelletta dello sciamano e della stirpe del bosco!

Ma da quando mi hai raccontato la tua storia, DeeDee, non riuscivo a gioire per lo smascheramento del falso profeta o l’irrisione del potere, perché vedevo solo la cieca obbedienza e la superstizione del boscaiolo e della sua stirpe. E stavo male perché come nella barzelletta attorno a me vedevo così tanta paura e l’assenza assoluta di umanità e coraggio. Vedevo che l’odio e il terrore atavico verso l’altro, da troppo tempo, erano diventati collante sociale anche da questa parte della barricata… un collante chimico e infiammabile, creato e adoperato per infuocare il braciere di chi detiene il potere. Eppure “noi” avremmo dovuto essere diversi da “loro”…

Non migliori o peggiori, perché questo tipo di valutazione implicherebbe una norma a cui adeguarsi o un dogma a cui obbedire… uno standard che divide i buoni dai cattivi, i santi dai peccatori. E “noi” invece siamo quello che siamo – o almeno credevo – perché ci fanno ridere le barzellette in cui gli dei cadono e i re muoiono. Eppure pare che in quest’epoca cruda e stolta, siamo riusciti a replicare le stesse logiche di quel potere infiammato da paure mitologiche, ignoranza colpevole e bisogno di eroismo. Leggi di accettabilità sociale da cui credevamo di esserci liberati, rintanandoci in queste cattedrali industriali cadenti e in queste strade con le vetrine spaccate. Bestie inferocite e folli di timore e paranoia, che non sanno sopravvivere senza la normalizzazione di un branco.

Quello che ti hanno fatto, DeeDee, ci ha lacerato testa, cuore, pancia e figa… quattro crepe forse irreparabili. Ci ha tolto il sonno, la voglia di sorridere e la gioia dello scopare. Come è stato possibile tutto ciò? Al di là del male e della miseria dell’anima, la verità è che nessuno di noi aveva delle risposte. E non ce le abbiamo nemmeno ora…

Nessuno custodisce il senso e la ragione che spieghino il vuoto marcescente che fingiamo di non vedere. Nessuno di noi può schiudere le labbra per pronunciare quelle parole che rivelano il passato e guidano verso il futuro.

Un’assoluzione, DeeDee… quello che cerchiamo è un’assoluzione per tutti i nostri errori e le nostre mancanze.

Alcuni di noi sono rimasti paralizzati, altri si sono fidati delle parole di pigri sciamani che hanno reso nobile e moralmente degno il voltarsi dall’altra parte e far finta di niente. E poi c’è chi ha deciso che in assenza del perdono, nell’impossibilità di poter far i conti con loro stessi, forse era meglio bruciare la vecchia. Ti hanno fatto diventare una nemica da annientare, per liberarsi dal peso di trovare quelle risposte. E così stanno facendo con noi, che abbiamo osato urlare quelle domande con l’urgenza dei nostri cuori di cagne.

Ma lo sai bene quello che ti hanno fatto e non ha senso ora continuare a ricordartelo, perché ci sono cose che non ti ho mai detto. Non ti ho mai detto, per esempio, di quanto tu ci stia facendo sentire forti. Di quanto tu ci stia facendo sentire parte di un unico e complesso corpo composto da organi vivi e essenziali. Di quanto tu ci abbia ricordato chi siamo e tutto ciò che non vogliamo essere. Tu, DeeDee, purtroppo non puoi vedere il bello che ti circonda e che è sbocciato dove hai versato le lacrime e posato i tuoi piedi. Sono sicura che un giorno i tuoi occhi incontreranno la bellezza e la poesia. Te lo prometto. Nel frattempo però, ti chiedo di portare ancora un po’ di pazienza, perché ti devo raccontare come è andata a finire quella storia strampalata: la barzelletta della valle del torrente inquinato.

Quegli alberi che abbattiamo, cadono per le tue parole. E quelle che vedi dalla tua torre, sono le barricate che abbiamo alzato per le tue profezie. Le armi che abbiamo in pugno, vengono fabbricate dalla perenne minaccia che ci racconti. E la nostra fame, maledetto vecchio – digrignò Dorothy Gale – è il frutto corrotto dei campi che non coltiviamo, così come l’aridità dei nostri cuori è figlia delle poesie che abbiamo dimenticato, per combattere una guerra che tu ti sei inventato! Che tu sia maledetto, tu… che sei vecchio senza cuore ne’ saggezza!

E dicendo questo, prese per mano le sue amiche e insieme fecero ritorno al villaggio della stirpe.

Guardarono con occhi nuovi, i resti del tempio e della città abbandonata, lasciata alla mercé della minaccia perenne. Stronzi, pensarono. Non c’è spazio per la bellezza in una società dominata dalla paura – si dissero senza bisogno di parlare – e non c’è azione, ma solo la difesa di uno status quo, messo in discussione dall’evidenza delle nostre cadute. C’è soltanto l’immobilità dei morti.

Siamo cadute e siamo precipitati, Deedee, senza avere il coraggio di rialzarci. Perché non sappiamo essere liberi. Non ci hanno mai abituato ad esserlo. E la leggi, i dogmi e le norme che abbiamo riprodotto nel nostro piccolo, hanno lo stesso tono di voce dei preti che ci facevano catechismo, dei genitori che volevano un futuro fatto di certezze e di autorità spaventate dalla nostra voglia di sognare.

Dorothy Gale camminava insieme alle sue amiche e si accorse che tra la neve sporca di fango, sbucava un piccolo fiore che sembrava un fantasma. I vecchi della stirpe lo chiamavano il cadavere delle nevi. Ed era il fiore che nasceva prima di tutti gli altri, coi primi soli tiepidi della primavera. L’inverno dunque era già passato? La primavera avrebbe presto destato speranze e germogli, eppure la sua stirpe ancora abbatteva alberi per prepararsi all’inevitabile sfida del gelo. Ancora viveva con il terrore di non sopravvivere! Lo colse e pensò che lo avrebbe portato agli uomini del villaggio. Guardate – avrebbe detto con gli occhi lucidi di amore e gioia violenta – guardate: l’inverno è alle spalle e noi siamo vivi.

E questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà.