Se fare la spesa al discount è un’arte, scegliere tra le infinite sottomarche, sconosciute o imitazioni che siano, è insidioso come scrivere una poesia. Discount or Die , nato come un blog per condividere esperienze e creare un archivio collettivo su ciò che c’è di orrido e sublime nei discount e nell’universo delle sottomarche, in Italia e non solo, è da oggi la guida alla galassia dell’hard discount. Qualità, prezzo, reperibilità, gusto, confronto, analisi. Scaffale dopo scaffale, barattolo dopo barattolo, Valeria Brignani ha raccolto il grand tour di tutti quelli che non solo non sono schiavi del brand, ma mediano, ogni giorno, tra i propri gusti e le proprie tasche. Discount or Die è un diario collettivo e scanzonato nel quale si incontrano ricette, pensieri, aneddoti e consigli per gli acquisti.
NARRATIVA
Fiera / Una lingua morta
Userai le cose fino a quando non saranno consumate.
Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme
per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte.
Suoneranno come una lingua morta e dimenticata
le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile.
E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta,
la saggezza del grembo, la verità dei sospiri
e per i capelli color degli spettri
che hai tagliato a quella bambola
che ti avevano regalato da bambina.
Non chiederai scusa per quella domanda
che ti fai sempre all’arrivo del treno
con gli occhi in bilico sul binario.
Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta
che ha il respiro di tutte le femmine della storia.
Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre,
mangiando solo per mandar giù vino scadente
e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati.
Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati,
il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.
Ti chiameranno: fiera.
Non dite a mia mamma che io sono Wolverine, Aprile 2017
Don’t tell my mom è uno story show ideato da Matteo Caccia che, prima della pandemia, veniva ospitato dal Pinch sui Navigli a Milano, il primo lunedì di ogni mese. Le regole sono semplici: bisogna raccontare qualcosa di vero che non vorresti far sapere a tua madre, deve durare 5 minuti e non vale leggere.
Questo è il mio intervento di un lunedì sera di Aprile del 2016.
È dieci giorni che manca la mia adorata gattina di nome Ombra. Ed ogni volta che sento un rumore penso sia lei che è tornata e mi viene un infartino. Abito al piano terra e può entrare ed uscire quando vuole, perché ho deciso che fosse giusto favorire la sua autodeterminazione. La gattaiola simbolo della sua capacità di scegliere con chi e dove vuole vivere. Il fatto che sparisca spesso e volentieri per giorni e giorni, mi fa pensare di non essere la madre migliore del mondo. Sono quel tipo di madre troppo libertaria e troppo poco autorevole forse. E infatti, se non fosse sterilizzata, sarei contenta di sapere che va in giro a copulare e a fare strage di cuori… perché è bellissima. Ma non è così, lei va in giro perché le ho permesso di essere indomita e selvatica.
Fatto sta che ho capito – ogni volta che sento un rumore e penso che sia lei – quel meccanismo delle madri che prendono a schiaffi i figli che attraversano a cazzo la strada. Ora comprendo gli occhi di rancore e giubilo di mia madre, che mi accoglieva sveglia in salotto quando tornavo da adolescente a notte fonda barcollando o vomitando perché avevo preso freddo.
È che io ci credo proprio a questa cosa dell’autodeterminazione. E così come non voglio che la paura mi imponga di imbrigliare la mia indomita gattina, così non voglio che la paura mi impedisca di uscire da sola, far tardi e prendere i mezzi pubblici di notte.
Da sola.
Ubriaca la maggior parte delle volte.
Il problema principale del prendere i mezzi pubblici di notte, da sola e ubriaca per tornare in quel di Tradate in provincia di Varese, da Milano.. è che a causa dell’industria automobilistica e dei poteri forti legati all’industria petrolifera, i mezzi pubblici fanno letteralmente cagare – e non uso questa espressione a caso – e l’ultimo treno è intorno alle 22 che mi porta però fino a Saronno e da lì prendere il bus sostitutivo che fa tutta la provinciale e tutte le fermate della linea ferroviaria. Dopo mezzanotte non ne parliamo… Perché non c’è neanche più il treno fino a Saronno e il bus parte direttamente da Milano Cadorna, per due ore di terrore o noia suprema a seconda di chi sono i miei compagni di viaggio.
Una breve parentesi. Mi chiamo Valeria Disagio perché quando lavoravo nel sociale a contatto con parecchi casi umani, dovevo “censirli”, ma sebbene nei moduli che dovevo compilare ci fosse spazio per il nome e il cognome, per questione di privacy non potevo mettere il cognome e così pensando che i miei superiori non avessero gradito se io avessi scritto… che ne so… Matteo il tossico, Federico l’ubriacone o Paola la ritardata… ho optato per un generico e giornalistico “disagio”. Quindi c’era Matteo Disagio, Federico Disagio e Paola Disagio. La cosa fece molto ridere i miei capi che da allora mi chiamarono così, anche per altro motivazioni che non sto qui a spiegarvi… Ma tutti possono essere Disagio. Un ragionamento analogo l’ho fatto per i miei compagni di viaggio del bus sostitutivo notturno.
Perché non è la nazionalità o il livello di istruzione che fanno l’emarginato. Non importa se proviene da un Paese più o meno maschilista o più o meno alcolista o più o meno devastato dalla guerra… ciò che ti rende un emarginato è il sacchetto.
Fate attenzione. Avete presente quei sacchetti enormi fatti di concentrato di petrolio purissimo, bianchi o azzurri, senza logo? Non li producono dall’86 probabilmente e non ho davvero idea di dove li recuperino. Fatto sta che se vedete uno con un sacchetto gigante, di notte, su un bus sostitutivo notturno, compatitelo o temetelo. Ed è di una gang di sacchettini, sacchettesi, sacchettari…. Non so come definirli… che vi voglio raccontare.
Perché una bella notte in cui tranquilla sedevo sul mio bus sostitutivo, mi sono imbattuta in un gruppo di 5 sacchettesi giovani e alle prime sbronze. Elemento che incrementa in modo esponenziale il fattore coglionaggine. Dico che sono giovani e alle loro prime sbronze perché bevevano Keglevich alla fragola. E chiunque abbia uno stomaco sa benissimo che non è possibile sbronzarsi per più di una volta per generazione con la Keglevich alla fragola.
Ad un certo punto però, i nostri sacchettari al gusto fragola e vomito, mi notano e cominciano ad avvicinarsi. Ed io dentro di me maledico quella mia stronzissima fissazione per l’autodeterminazione che mi ha portato da sola, di notte, su un bus sostitutivo notturno e ripasso come un mantra le tre tesi dell’autodifesa femminista.
Sì, perché ho una bottiglia di birra in mano e penso che potrei difendermi spaccandola e puntandola alla giugulare, ma no…
Le tue stesse armi possono essere usate contro te stessa
Il manuale di autodifesa femminista sconsiglia l’uso di armi, perché è più facile essere disarmate prima di riuscire ad usarle. Non è proprio da tutti spaccare una bottiglia e puntarla alla gola di qualcuno. Metto via la bottiglia nella borsa sperando che non l’abbiano notata e vedo una cosa che mi ricorda la seconda tesi del manuale di autodifesa femminista.
Tu sei l’arma
Per questo s’intende che un “NO” risoluto o una determinata postura possono essere sufficienti a volte per scoraggiare un’aggressione. Io però non sono troppo lucida e penso che il mio corpo sia per davvero un’arma e comincio a ripetere “sono un’arma, sono un’arma… le mie mani sono un’arma… le mie mani hanno gli artigli… si io sono un mutante… sì, cazzo… io sono Wolverine” e infatti prendo le mie chiavi di casa, infilo ogni chiave tra le dita e così divento Wolverine. O almeno credo. Ma le chiavi strette così in mano fanno un male boia e no, non credo di riuscire ad artigliare qualcuno che le chiavi della cassetta della posta. Allora penso alla terza tesi, la più estrema: è statisticamente provato che delle donne si siano salvate da un’aggressione rendendosi sgradevoli e non appetibili – passatemi il termine sebbene il concetto in sé faccia davvero schifo – dal punto di vista sessuale.
CERCA DI FAR SCHIFO AL C***O
E allora eccomi lì, un minuto prima ero Wolverine e il minuto dopo sono pronta ad alzare le braccia al cielo e urlare “Ho la candida e prude da morire” o nel caso più estremo farmi la cacca addosso. Ma per fortuna i sacchettesi sono scesi alla fermata prima della mia. Io sono tornata a casa ho controllato che la mia gatta fosse dentro e ho chiuso la gattaiola. Perché il mondo è quel posto orribile in cui una donna deve essere disposata a farsi la pipì addosso per poter girare da sola.
E niente… non dite a mia mamma che io sono Wolverine.
EDIT: ho smesso di prendere il bus sostitutivo notturno da anni, ma in compenso sono stata scippata da una gang di teenagerz, in pieno giorno, in treno.
EDIT 2: Ombra, la mia gattina, ha deciso di non tornare più. Mi piace credere che abbia trovato una coinquilina più attenta e premurosa di me. A lei avevo dedicato questo.
POSSO VIVERE ANCHE SENZA DI TE | Un mio racconto per “Abbatto i muri – Al di là del buco”
Racconto originale qui
Mi scrive Valeria. Lei dice:
l’altro giorno ho letto questo articolo su Repubblica e mi sono innervosita molto. Il non avere un compagno viene trattato come una sorta di patologia. L’essere sola, non come una scelta, ma come una difesa perché hai troppo sofferto. Di reazione ho scritto il racconto che allego. Non mi vengono in mente altri spazi in cui vorrei vederlo pubblicato. L’ho scritto di getto, a mano, senza praticamente cancellare nulla. L’ho trascritto nei ritagli di tempo che riesco a rubare a lavoro. Spero ti piaccia, spero possa trovare spazio nel tuo bellissimo mondo che seguo, leggo, ri-leggo perché mi fa pensare e perché fa dei pensieri parole. Con suprema-giga-interstellare stima, Valeria
E io le rispondo che non solo il racconto è bello ma che condivido il fastidio che quell’articolo le ha provocato. Possibile che le scelte delle donne debbano sempre essere trattate con disprezzo o con una strana pietas, la stessa destinata alle “zitelle” di una volta, con pioggia di stereotipi sessisti conseguenti?
Godetevi il racconto di Valeria e grazie per le meravigliose parole di stima che mi hai rivolto.
I’m unclean, a libertine. Without you I’m nothing
Placebo
Formulò la frase stiracchiando il suo corpo indolenzito per traverso lungo la diagonale di quel letto che aveva appena finito di dividere con un uomo, conosciuto la notte prima.
Lo aveva osservato dormire dopo essersi liberata dal suo abbraccio. Non aveva mai scopato prima di allora senza riconoscere come familiare il tocco delle mani sul suo corpo. La forma e il sapore dei baci. Il ritmo e la melodia del piacere dell’altro. Aveva sempre amato. Amato molto. Intensamente. Con abnegazione e fede. Era la prima volta che usava un profilattico per proteggere sé stessa dall’altro.
Quel rapporto senza esplicitazione del seme le era parso un gioco, una messinscena, bambini che giocano a prendere il thé con tazze invisibili e biscotti trasparenti.
«È tutto qui» la meccanica del desiderio e del piacere a lungo scambiata per sentimento ora si svelava in tutto il suo inganno come la scenografia di una messinscena. Medesimo era il calore. Medesimo il piacere e la complicità. Per questa notte si erano appartenuti. Si erano dati. Si erano lasciati cadere all’indietro e avevano trovato braccia decise ad attutire il tonfo.
Si guardò allo specchio appoggiato alla parete – non aveva ancora trovato il tempo né la voglia di ancorarlo al muro – posò una mano in mezzo alle gambe. Era ancora bagnata. Aperta e vorace degli spasmi del grembo. Eppure voleva che lui se ne andasse il prima possibile.
Sopportò il rituale delle chiacchiere davanti ad una colazione raffazzonata. Non faceva la spesa da settimane. Lui mangiò molto, pure quella fetta biscotatta che lei non era riuscita a finire. Così come il thé che aveva lasciato raffreddare nella brutta tazza recuperara ad un mercatino dell’usato. Uscirono a piedi.
Prima di uscire lui l’aveva guardata rivestirsi. Sorridendo. Il suo sguardo l’aveva fatta sentire bella. In quegli occhi vi era una forma di gratitudine. Quel “grazie” non detto la fece infuriare. Ma lui le si era avvicinato e aveva posato le labbra sulle sue e quel calore l’aveva accesa nuovamente. Quelle labbra, quella lingua e quei denti con cui aveva danzato durante la notte.
Una volta giunti alla macchina, si abbracciarono e in quell’abbraccio si placò. Quel calore uguale a qualsiasi altro corpo. Sorrisero e si promisero di rivedersi al più presto. Mentivano entrambi. Quando l’auto svanì all’orizzonte, lei si rese conto di non ricordare il suo nome; sapeva solo come si faceva chiamare sui social network. Un nome idiota. Scoppiò a ridere nel parcheggio attirando l’attenzione di alcuni vicini di casa. Era di buon umore. Tirò fuori le cuffie dalla borsa per ascoltare della musica. Sfogliando la cartella dei file del lettore mp3 decise che non aveva voglia di qualcosa di preciso. Selezionò la riproduzione casuale delle tracce. Non lo aveva mai fatto prima.
Tornando a casa cambiò le lenzuola canticchiando una canzone. Si fece un lungo bagno e studiò il proprio corpo nudo immerso nell’acqua. Aveva numerosi lividi. Un ematoma nero a forma di sigaro nella parte interna del braccio. Un altro livido ricordava l’impronta di un bacio all’interno della coscia. Gli stinchi erano coperti di sfumature violacee. Succedeva sempre così quando andava ai concerti. Beveva fino a perdere la cognizione del dolore e si spingeva fino in prima fila sfidando i gomiti e le spinte del pogo esasperato. Quando era ragazzina era troppo magra e timida per spingersi così sotto il palco. Timorosa di farsi male. Di mani inopportune e di cadute sgraziate. Ora si faceva sollevare sulle braccia dei suoi amici. Più volte era caduta. Si era spaccata un incisivo. Si era fatta male. Eppure a rivivere quei momenti, ciò che provava, non era dolore ma una forma di amore che non può ferire. E le bastava. Un amore sincero e carnale. Un amore fatto di parole urlate al soffitto. Di sudore. Di musica a volumi sbagliati. Di spazi piccolissimi o vasti e fatiscenti. Sporchi e colorati. Liberi. Cessi inagibili. Birracce calde in lattine da mezzo litro e prontamente rovesciate a battezzare la continua nascita di sogni e piccole rivoluzioni. «Ce li stanno portando via tutti, pezzo dopo pezzo…» pensò ricordando le immagini delle divise, degli scontri e della resistenza fatta di cassonetti ed eroi solitari arrampicati sui tetti.
La vita, fuori da quei luoghi, era priva di amore.
«Amore, amore, amore…» era così che per anni aveva chiamato il suo compagno. Il suo solo compagno. Con lui aveva sognato di costruire un futuro soltanto loro. Con lui aveva deciso di fare a metà della propria esistenza.
«Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua» ripeté nella mente al supermercato, leggendo gli ingredienti di una confezione di biscotti che nascondevano uova e tracce di latte. Li lasciò sullo scaffale e passò alla confezione accanto. I suoi acquisti erano guidati da una rigidissima serie di regole, ma era la sua norma e soltanto il suo gusto a determinare la scelta finale.
Era la sua quarta o quinta spesa fatta da quando aveva deciso di camminare da sola. Nonostante il flusso la portasse nella direzione opposta. Nella sua testa risuonava ancora l’eco delle barriere imposte ai gusti di lui. Ignorò l’eco. Comprò solo quello che piaceva a lei e immaginò di cucinarlo e mangiarlo da sola nella sua cucina. Passando davanti al reparto degli alcolici tirò dritto per evitare la moralizzante nausea del post-sbornia, ma una volta vicina alla cassa tornò sui suoi passi. Non aveva più alcolici in casa. A parte quella bottiglia di vodka che teneva da parte per un’occasione speciale. Non aveva alcuna idea di quale potesse essere la sua idea di “speciale” eppure la teneva lì. Aspettando.
La musica continuava ad isolarla dal mondo. In mezzo alla ressa di un sabato in un supermercato, si sentiva sola e separata da ciò che la circondava. Galleggiava e si spostava tra una corsia ed un’altra come un fantasma che non poggia i piedi al suolo. Libera dal peso della gravità. Qualcosa attirò la sua attenzione: una coppia a pochi metri da lei stava conversando davanti alle bottiglie di vino. Gesticolavano. Soprattutto le mani di lei. Disegnavano le parabole delle chiome degli alberi sconquassate dal vento. Decise di osservarli senza spegnere la musica. Non voleva origliare. Osservò l’aprire e il chiudersi della bocca di lei e di lui. Scorse la frenesia delle mani di lui nascoste nelle tasche dei jeans costosi, ma strappati e logori artificialmente. La scarpe da tennis di marca. Le ballerine di lei. Quei piedini raso terra che si puntavano contro un muro di rivendicazione. Aveva visto quella scena migliaia di volte. L’aveva vissuta.
Amici a cena. Bisogna scegliere il menu e abbinarci un vino. Cucineranno e puliranno a casa tesi ed eccitati. Berranno molto vino e passeranno una bella serata, nonostante la velata antipatia che lui prova per la ragazza del suo amico. Sparleranno degli assenti. Faranno in modo che non si creino buchi nella conversazione. Si congederanno quando almeno due persone su quattro cominceranno a sbadigliare rumorosamente. «Andiamo a nanna» dirà l’altra lei appoggiando una mano sulla spalla o il ginocchio di lui. I convenevoli dell’ultimo bicchiere, degli ultimi saluti, le ultime promesse. Si impegneranno di vedersi presto. Mentendo.
Quando la coppia del vino giunse al compromesso tanto agognato, lei decise di prendere le stesso bottiglie elette. Le avrebbe bevute la sera stessa. Magari avrebbe potuto invitare anche lei qualcuno a cena. Uno sprono a mettere in ordine. Casa sua era allo sbando. Avrebbe potuto invitare le sue amiche di sempre, quelle con mariti e figli di cui prendersi cura, raccontargli i dettagli pruriginosi della sua notte di eccessi e sesso con… Si ricordò il nome all’imporvviso: Roberto.
Alla cassa si presentò con sei bottiglie di vino, una confezione di biscotti vegani ed una scatola di preservativi. L’uomo della coppia del vino guardò ciò che scorreva sul nastro della cassa e alzò lo sguardo su di lei. Improvvisamente si vide attraverso gli occhi di un altro. Le calze strappate, la gonna molto corta, la maglietta di un gruppo crust svedese e i lunghi capelli corvini ormai grigi sulle tempie. I tatuaggi in vista e le rughe attorno agli occhi. Quarant’anni appena compiuti e tutta la vita davanti.
Lei sorrise alla cassiera, pagò con la carta di credito e uscì sentendosi attraversata dalla corrente elettrica.
«Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua» sussurrò con le labbra al suo riflesso nella vetrina.
Novembre, 2014
SIGNORA VERRUCA
Wendy, vecchi occhi di orzata
manto di pioggia e buccia di salame
naso umido pensantePrecipito insieme a te, goffa, al tuo fianco
che potresti liberarmi di questa mia vita tra le fauci
ma su cui vegli da tre minuti o tre millenni.Ci siamo chiesti cosa fosse il tempo per il cuore di una cagna
con la memoria del fango,
delle infinite foreste,
delle lotte tra branchi,
del canto dei lupi
e dei falò dei primi uomini,
legata a quelle tue zampe inceppate
in un loop di sogni, ringhiare, tuoni e saggezza.Resta ancora qui
perché io non ho i tuoi artigli
o la tua mandibola capace di spezzare ossa,
ma condivido quelle tue gengive insanguinate
a custodia di denti che il tempo ha limato.E questi giorni, in cui ogni ora è preziosa,
ed ogni tua ora basta a restituire furia e fierezza
alla parola “cagna” nei secoli passati e in quelli a venire,
ho bisogno di te come mai prima.Perché non ho ancora imparato a cambiare il pelo
e quella tua pelliccia, che puzza e seduce,
mi è necessaria per essere me stessa in questo mondo.
I MORTIFICATORI | AgenziaX
Horror d’amore, arte e cicatrici
Un noir che trita il tritabile e mischia il mischiabile, anche gli opposti più opposti e opponibili. dalla prefazione di Giovanni Arduino
Chi sono i mortificatori? Perché sono così interessati alle forme d’arte più radicali? Partendo dal presupposto che la pazzia è anche un godimento dei sensi, i loro adepti cercano nuove vittime tra i giovani artisti emergenti, i più sensibili alle sirene dei soldi, del successo e dell’egocentrismo, i più golosi di droghe e perversioni. I mortificatori sono consapevoli che dei soggetti così creativi possono andare in pezzi, appena un grammo di caos penetra nelle loro fragilità.
Il confine che divide l’arte dalla morte è troppo vago, chi potrebbe dire dove uno finisce e l’altro inizia. Per scoprirne il segreto si narra che questa setta misteriosa utilizzi la tortura mascherata da body art.
Leggenda metropolitana o realtà? Toccherà a Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.
Un romanzo che offre le chiavi per capire questi tempi feroci e quali pericoli si nascondono dietro la ricerca forsennata dell’apparire sempre sull’onda degli estremismi mediatici, religiosi o politici, in una società dove di estremo c’è solo la solitudine.
Valeria Disagio (1982) redattrice di fanzine e scatenata cantante di gruppi punk, esordisce giovanissima con il romanzo Casseur. La lotta, l’ebbrezza e la città giardino. Ha gestito un blog da cui è nato il libro Discount or die edito da Nottetempo.
240 pp. • 2019
ISBN 978-88-98922-54-3
Ordinabile tramite sito, in libreria dal 14 febbraio 2019
LA LEGIONE ESTRANEA
The savage mutilation of the human race is set on course
It is up to us to change that
Protest and survive
«DeeDee, vieni qui, beviamo insieme e ascoltami: ora ti racconto una barzelletta»
«Una barzelletta?»Mi chiedi con quegli occhi bestiali che come spilli inchiodano la tua faccia da bambina al muro di cemento alle tue spalle.
«Sì, una barzelletta. La barzelletta dello sciamano e della stirpe dei boschi» Ti rispondo io, in questo dialogo che non è mai avvenuto perché ci sono alcune cose che non sono mai riuscita a dirti.
In un paese lontano-lontano vi era una profondissima gola che era stata scavata da un piccolo torrente. Quel torrente doveva essere stato un fiume rigoglioso di pesci e libellule un tempo. Persino i cervi, le volpi e i corvi andavano a bere quelle sue acque insorgenti, ma poi erano arrivati i Primi Uomini e lì si erano insediati perché il fiume e i boschi davano loro di che mangiare e scaldarsi in inverno. Ad Est e Ovest del fiume c’erano due colline: i Primi Uomini decisero di insediarsi su quella occidentale e di mantenere selvaggia l’altra, per avere sempre legna da ardere e bestie da ammazzare per le loro carni e le loro pelli. Ma è inutile che ti racconti dell’avidità dell’uomo e della violenza dello sviluppo senza progresso. Superfluo che ti racconti che quel fiume sia diventato un torrente e che ne’ alci, lupi o linci popolavano più quei boschi all’epoca di questa barzelletta, perché in quel tempo sulla collina d’Occidente giaceva ossuta e vacua la carcassa di quella che un tempo era la città dei Primi Uomini. Dall’altra parte, invece, un bosco che a fatica cercava di riconquistare il suo regno.
In verità la città non era disabitata, sebbene lo sembrasse, poiché sulla cima si diceva abitasse un vecchio saggio di mille e passa anni. Ne aveva visti di uomini e donne arrivare sulla collina Est, tagliare gli alberi per erigere delle capanne e sognare il risorgimento di una nuova umanità nella valle. Eppure pescavano dal fiume ormai radioattivo solo alghe e mitili deformi, il freddo li faceva ammalare e far diventare di cattivo umore. Chi sopravviveva all’inverno non osava sfidarne ancora la misericordia e abbandonava quelle terre. La collina Ovest e la derelitta città dei Primi Uomini? Troppo ostile e spettrale per pensare di stabilirvici. Le facciate delle case mostravano come in un ringhio le putrelle arrugginite del cemento armato. Tutto ciò che poteva essere bruciato era stato arso e continuava a crepitare in un grande braciere al centro del rifugio dell’antico saggio: una vecchia cisterna sotterranea di quello che doveva essere stato il centro di stoccaggio di combustibili fossili della città. Dal suo tetto tormentato ne usciva un fumo denso e nero che faceva lacrimare e tossire ad avvicinarsi troppo.
Un giorno come tanti arrivò l’ennesima stirpe di disperati, l’ultima di una lunghissima sequenza di gente scappata dalla metropoli sotto assedio, che non aveva nulla da perdere o che aveva perso tutto. Sapevano di quanto potesse essere spietato lì l’inverno; così decisero di fare una bella scorta di legno. L’avrebbero fatta ardere nel grosso focolare al centro del capanno di Eternit e vecchi cartelloni pubblicitari, che avevano raccolto dal letto del fiume ormai quasi prosciugato.
Quel fuoco non passò inosservato.
Iniziarono gli uomini in buona salute, i più forti. Colpo di accetta dopo colpo di accetta ne accatastarono così tanta che non potevano più impilare un tronco sull’altro senza farli rotolare rovinosamente a terra. Ma temevano che non sarebbe stata abbastanza. Bisognava prepararsi al peggio e così decisero di consultare lo sciamano dall’altra parte della valle. Lui è un saggio e ha superato mille inverni, pensavano. Potrà e vorrà di certo aiutarci. E così quello che veniva definito da tutti il capo (per anzianità, forza e solidità dei suoi legami) percorse il colle fino al torrente, lo guadò e ne uscì ricoperto da una grigia melma maleodorante. Si arrampicò fino alla città e proseguì verso l’origine di quel fumo nero e tossico. Scoprì che lo sciamano, il vecchio saggio, non era solo. Altri uomini e donne sedevano attorno ad un fuoco. L’uomo venne accolto con una certa diffidenza. Sebbene il loro tempio cadesse a pezzi, sembravano tutti impegnati e concentrati in qualcosa di severo e importante che a quanto pare, doveva essere più urgente di aggiustare ciò che era rotto… come quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti. Quegli uomini e quelle donne non alzavano la testa dalle viti, dai bulloni, dagli stracci e i chiodi arrugginiti con cui stavano costruendo armi e scudi per difendersi da nemici i cui sguardi nessun occhio aveva mai incrociato.
Il vecchio saggio acconsentì a conceder loro udienza, offrendogli un bicchiere di liquore distillato dalla cenere e l’inchiostro.
Sono qui, vecchio saggio che abiti la valle da oltre mille anni, per sapere se sopravviverò a questo inverno. Gli chiese con grande timore l’uomo del bosco.
L’inverno sarà rigido e lungo, forestiero. E i nostri nemici sono alle porte. Rispose e lo congedò senza permettergli di controbattere o fare altre domande. L’assemblea dei saggi ha parlato, vai ora… ruggì.
L’uomo del bosco tornò sui suoi passi e crollò esausto nella sua branda col terrore di perire per il freddo che di certo sarebbe arrivato. Forse quella sarebbe stata la sua ultima notte nel regno dei viventi. Il freddo o la violenza dei bruti avrebbe messo fine alla sua esistenza? Chi erano questi nemici? Se per i discendenti dei Primi Uomini era più importante assemblare armi anziché coltivare la terra o aggiustare il tempio, dovevano essere temibilissimi. Pensò ai suoi simili, alla sua famiglia che lo aveva seguito e che si fidava ciecamente di lui, si chiese come confessargli che forse non avrebbero superato l’inverno, ma fu ancora la luce dell’autunno a svegliarlo il giorno dopo. Un autunno caldo a dir la verità, come non se ne ricordava da molto tempo… ma lo sciamano, lo sciamano aveva detto che…
E così convocò tutta la sua stirpe attorno al focolare. Parlò del freddo e dei nemici. Più dei bruti che del freddo, poiché l’ostilità della Natura e la collera della Dea era qualcosa che faceva tremare fino al midollo spinale, mentre questi nemici… i nemici… possono essere respinti costruendo muri e fabbricando armi, per esempio, e così ordinò loro di abbattere ancora più alberi e di costruire delle barricate. E nessuno obiettò perché se persino i più forti e impavidi della stirpe temevano questi invasori… beh, sì, dovevano essere davvero davvero terribili. I forti dopotutto avevano parlato e chi erano loro per poter mettere in dubbio ciò che proferivano?
Passarono giorni e giorni in cui tutta la stirpe, con abnegazione ed obbedienza, abbandonò ogni attività che non fosse necessaria alla difesa di quel nulla che avevano e chiamavano vita. Nessuno arava i campi o faceva conserve con quei frutti che cadevano marci sulla terra. Nessuno pregava o intonava canzoni per le persone amate. Tutti erano impegnati nella costruzione delle barricate e nell’abbattimento degli alberi.
No, non vogliamo morire qui in questa valle. E forse tutto questo non basta… Torneremo dal saggio. Dobbiamo sapere se vivremo abbastanza da rivedere la primavera. Dicevano.
E così affrontarono quel viaggio che già era stato percorso solo poco tempo prima. Arrivarono nel tempio dei saggi della collina ad Occidente e presto si accorsero che la diffidenza era diventata ostilità, ciononostante ancora una volta il vecchio li invitò a sedersi attorno al fuoco. Questo volta però, senza offrir loro il liquore di cenere e inchiostro. Pareva stremato da notti insonni, dai succhi gastrici e le ulcere che lo affamavano e lo pungolavano.
Siamo qui per la medesima ragione che ci ha spinto a disturbarvi in passato. Vogliamo sapere se sopravviveremo a questo inverno, nonostante il freddo e i nemici. Chiese il figlio del capo stirpe, intanto che gli altri della delegazione, ad occhi bassi, tremavano al pensiero della risposta del vegliardo.
Sarà un inverno estremamente duro. Sarà un inverno tanto lungo quanto gelido. E i nemici… gli invasori sono pronti a sferrare il loro terribile attacco ad istanti. Rispose lo sciamano agli uomini che si chiusero nelle spalle come le dure e spinose foglie di un cardo selvatico attorno al suo frutto. Durante il viaggio di ritorno non parlarono neppure, ma appena arrivati nelle loro case fatte di legna e relitti trovati nel letto del fiume, decisero di scrivere anche ai villaggi vicini per avvisarli del pericolo imminente. Ma che l’inverno fosse alle porte era scontato, pensarono, non c’è bisogno di dire agli uomini e alle donne che ogni autunno è seguito dall’inverno, quando ci sono dei nemici pronti a portarci via tutto ciò in cui crediamo! Il grosso problema erano gli invasori… questi bruti da cui era necessario difendersi ad ogni costo. Da soli non avrebbero mai potuto farcela. Era urgente allertare tutte le valli e tutti i villaggi e forse persino chi era rimasto nella metropoli. E poi abbattere ancora alberi e alzare altre barricate. E così alcuni degli uomini – gli eletti – armati di motosega, buttarono giù tanti alberi quante dita avevano complessivamente nelle mani e nei piedi. Cinquantanove, fra pioppi e conifere, vennero abbattuti. Cinquantanove e non sessanta, poiché quello più giovane e mingherlino della stirpe aveva perso l’indice l’autunno precedente tra la sua motosega e il tronco di una quercia.
La sera, con il vasto terreno borchiato dai moncherini degli alberi e le barricate costruite ammassando così tanta spazzatura da oscurare la luna, si sentivano già più sereni e decisero di ubriacarsi e brindare alla loro unione… quegli uomini forti, coraggiosi, in mezzo al dominio della selvatichezza e delle bestie, che insieme erano pronti a dominare la Dea e a vivere fino alla primavera. Eroi che avevano in mano la vita e la sopravvivenza di donne, vecchi e infermi! Eroi pronti a combattere contro nemici tanto terribili che neanche la fantasia sarebbe stata in grado di partorire. Si ubriacarono e festeggiarono, ma tutti gli strumenti musicali erano stati distrutti e le poesie dimenticate, perché nessuno le recitava da troppo tempo. E senza musica e senza poesia, si arrangiarono come potevano: picchiarono i loro bastoni contro le lamiere e urlavano cori semplici e ripetitivi. Sbam sbam sbam… e il più anziano partiva con una filastrocca inquieta a deridere i nemici e il freddo inverno con volgarità e violenza. Sbam sbam sbam… e i più giovani e meno coraggiosi che lo seguivano e così le donne e i bambini che trovavano buffa la rima baciata! Sbam sbam sbam…. E quel rumore senza poesia esplose nell’eco della gola, giungendo persino alle orecchie dei vecchi nella città ad Ovest del torrente inquinato.
Ma poi arrivò la notte e le temperature si abbassarono e il buio faceva paura.
Dobbiamo tornare da loro. Dissero, ma dovettero constatare che era rischioso partire e lasciare le donne sole con gli invasori, che senza dubbio, si nascondevano dietro alle vette più prossime al loro villaggio. E come fare?
Andremo noi, dissero le più giovani della stirpe, annoiate da quei cori ed escluse dalle decisioni. Prima dello stato di emergenza perenne erano impegnate a coltivare la terra, nella cura della comunità e nei rituali propiziatori. Svolgevano le loro mansioni come investite di una missione e lo facevano cantando versi e poesie tramandate da millenni, ma contaminate dal loro essere, dal loro vivere, dal loro sentire… Nulla a che vedere con quei rozzi cori oggettivi e privi di personalità che da ore e ore ammorbavano la valle. I versi delle donne erano i canti delle lupe e delle bestie della foresta. I canti di tutte le donne che avevano vissuto quei boschi e quelle terre. Erano i medesimi canti… eppure allo stesso tempo diversi, perché non potevano più piangere come le mondine del secolo passato. I fiumi erano inquinati e nessuno più affondava le gambe nel fango per coltivare il riso. Quello non era più il loro mondo, ma della stessa natura erano le ingiustizie e la voglia di essere felici e quindi, quelle poesie, andavano fatte proprie. Perché i versi del passato, se non vengono incastonati dalle emozioni del presente, restano vane formule vomitate da preti e soldati. Tristi figuri che trovano piacere nel sentire la propria voce amplificata in una gelida eco, del cui senso solo pochi eletti sono davvero a conoscenza. Sbam sbam sbam….
A parlare fu una ragazza di nome Dorothy Gale e le sue parole vennero accolte da un silenzio sbigottito. Quel silenzio si trasformò in una volgare risata che coprì i brontolii degli stomaci svuotati dall’assenza di cibo. Eppure i frutti marcivano sulla terra e le piante nei campi soffocavano tra le erbacce.
Non avete molta scelta: o lasciate la difesa del villaggio e l’approvvigionamento della legna per l’inverno a noi o ci lasciate andare a parlare coi saggi della collina Ovest. Rilanciò la ragazza con la voce tremante di collera e orgoglio. Ed aveva ragione… con un rapido gioco di sguardi i più forti del clan si accordarono: no, non potevano di certo lasciare il futuro in mano a quelle braccia deboli, quelle teste sognanti e quei cuori acerbi – erano così emotive quelle ragazze… così maledettamente emotive e sensibili!
E così partirono. Il viaggio fu più difficoltoso delle volte precedenti. Il vento tagliava la faccia e le rocce erano scivolose e l’acqua del torrente sembrava volerle pugnalare come bambole woodoo, ma non volevano fermarsi. Non si sarebbero fermate. Arrivarono al tempio e trovarono la porta sbarrata. Bussarono con tutta la loro forza, ma nessuno era disposto a farle entrare. Solo dopo che si inginocchiarono tutte quante ad implorare piangendo per essere ricevute, si affacciò il vecchio saggio. Su quel volto che loro non conoscevano riconobbero però, come incisi nei muscoli, i segni del più cieco terrore.
Andate via. Disse. Andate via. Urlò. Sta arrivando. Sta arrivando l’inverno più tragico della storia della nostra umanità, sbraitò sputando un dente e parecchia saliva. I nemici… i nemici sono tra noi e distruggono le barricate nella notte e sabotano le nostre armi e ci succhiano il sangue quando dormiamo! E forse anche voi… forse siete voi i selvaggi! Urlò con una voce tanto stridula, da far vibrare i vetri rotti attaccati come denti marci alle finestre del tempio.
Il cuore delle donne della collina orientale si ghiacciò all’istante. Non più sangue pulsante, non più calore. Quella benzina che incendia le emozioni era svanita, lasciando il posto soltanto alla paura, al sospetto e al più feroce spirito di sopravvivenza. Si voltarono di scatto come colpite da una scossa elettrica, mosse da un’unica urgenza: salvare la propria pelle a qualunque costo. Cominciarono a guardarsi l’un l’altra con timore e accusa. Dietro a quegli occhi, come con uno scanner di ultima generazione innestato nel cranio, scorrevano tutte le informazioni inerenti all’operato del soggetto in osservazione. Un registro virtuale che scandagliava i meandri più intimi e oscuri. Ogni buco, ogni ombra nel loro essere ed agire poteva essere una prova del loro tradimento dopotutto.
Gli occhi di Dorothy Gale rimbalzavano come una pallina di un flipper da una all’altra di quelle che, fino a poco tempo prima, erano le sue amiche più care. No, non poteva accettare che una di loro potesse essere una minaccia per la sopravvivenza sua e della stirpe della collina orientale. Eppure il saggio aveva detto… eppure i forti del clan avevano detto… eppure…
Una cornacchia malconcia, noncurante degli oscuri pensieri di Dorothy Gale e delle sue amiche che la profezia voleva nemiche, tagliò in due il cielo e gracchiando magnetizzò il suo sguardo verso l’orizzonte e poi sul tempio: faceva paura. No, non era paura… era schifo e pena. Perché lo avevano lasciato cadere a pezzi? Perché non avevano fatto nulla per aggiustare quelle quattro profondissime crepe che attraversavano le colonne portanti? Così dava l’impressione di poter essere buttato giù senza sforzo alcuno… anche da… anche da una scorreggia!
Le scappò inaspettatamente da ridere. Erano così tanti giorni che non rideva, quasi fosse una colpa sorridere coi nemici alle porte e la minaccia dell’inverno che pendeva sulle loro nuche.
Il suo sguardo si soffermò sulla porta crollata del tempio. Al suo posto c’era un vecchio cartellone pubblicitario di un film antico… risaliva ad oltre cent’anni prima. Quel film era Il Mago di Oz con Judy Garland e lo aveva visto quando ancora abitava nella metropoli e l’ultimo cinema aperto, lo aveva proiettato in occasione del centenario dalla sua uscita. Uno dei rari momenti di cultura e socialità nonostante l’assedio dell’esercito di difesa. Se lo ricordava. Lo aveva visto due volte di fila, perché la protagonista si chiamava proprio come lei e poiché, ahinòi, di film nuovi non ne uscivano da diverse decadi. Si ricordò all’improvviso la scena in cui Totò, il cagnolino della sua omonima, smaschera la messinscena del temibile Mago di Oz! Truffatore e bugiardo il cui potere si sorreggeva soltanto su trucchi, illusioni e paura. Senza pensarci troppo urlò verso la finestra da cui era spuntato il saggio.
Come fa? Come fa a sapere queste cose? Urlò con una tale forza che non credeva di avere.
Il saggio si scoprì sorpreso nel constatare che, per la prima volta dopo secoli, qualcuno – una ragazzetta per giunta – osava mettere in dubbio le sue verità. Decise di affacciarsi e le rispose.
Abito questa valle da molto tempo prima che i tuoi nonni nascessero ragazzina e so come gira il mondo. Dall’alto della torre del tempio, posso scorgere le vette di tutte le colline e vedo tutti i villaggi che popolano questa gola. Vedo quello che fanno, vedo quanti alberi tagliano e quanto sono alte le loro barricate e capisco quanta paura hanno per l’intonazione dei loro canti. Io ho osservato tutti loro e comprendo l’entità della minaccia che pende sulle nostre teste.
Disse.
«Ma è finita?»
Mi chiedi e giustamente protesti: «ma a me non sembra una barzelletta e non mi fa neanche ridere porcodio»
No, DeeDee, non fa ridere però ti giuro che era una barzelletta. Me la raccontava sempre mio padre e dovrebbe far ridere, come fa ridere un calzino bucato ai piedi di un imperatore o vedere un vescovo ricoperto di porpora e oro inciampare nella sua sottana. Perché dovrebbe far ridere lo smascherare e ridicolizzare il potere di quel saggio che poi, tanto saggio non era. Una pernacchia piena di sputi alla faccia di chi vuole imporre la propria verità, sacrificando la realtà se questa risulta incomprensibile, sgradevole o faticosa. Una barzelletta rivoluzionaria DeeDee, che mi è venuta in mente spesso da quando mi hai raccontato cosa ti hanno fatto. Dopo lo schifo, il dolore, la rabbia e l’odio… mi è tornata in mente la barzelletta dello sciamano e della stirpe del bosco!
Ma da quando mi hai raccontato la tua storia, DeeDee, non riuscivo a gioire per lo smascheramento del falso profeta o l’irrisione del potere, perché vedevo solo la cieca obbedienza e la superstizione del boscaiolo e della sua stirpe. E stavo male perché come nella barzelletta attorno a me vedevo così tanta paura e l’assenza assoluta di umanità e coraggio. Vedevo che l’odio e il terrore atavico verso l’altro, da troppo tempo, erano diventati collante sociale anche da questa parte della barricata… un collante chimico e infiammabile, creato e adoperato per infuocare il braciere di chi detiene il potere. Eppure “noi” avremmo dovuto essere diversi da “loro”…
Non migliori o peggiori, perché questo tipo di valutazione implicherebbe una norma a cui adeguarsi o un dogma a cui obbedire… uno standard che divide i buoni dai cattivi, i santi dai peccatori. E “noi” invece siamo quello che siamo – o almeno credevo – perché ci fanno ridere le barzellette in cui gli dei cadono e i re muoiono. Eppure pare che in quest’epoca cruda e stolta, siamo riusciti a replicare le stesse logiche di quel potere infiammato da paure mitologiche, ignoranza colpevole e bisogno di eroismo. Leggi di accettabilità sociale da cui credevamo di esserci liberati, rintanandoci in queste cattedrali industriali cadenti e in queste strade con le vetrine spaccate. Bestie inferocite e folli di timore e paranoia, che non sanno sopravvivere senza la normalizzazione di un branco.
Quello che ti hanno fatto, DeeDee, ci ha lacerato testa, cuore, pancia e figa… quattro crepe forse irreparabili. Ci ha tolto il sonno, la voglia di sorridere e la gioia dello scopare. Come è stato possibile tutto ciò? Al di là del male e della miseria dell’anima, la verità è che nessuno di noi aveva delle risposte. E non ce le abbiamo nemmeno ora…
Nessuno custodisce il senso e la ragione che spieghino il vuoto marcescente che fingiamo di non vedere. Nessuno di noi può schiudere le labbra per pronunciare quelle parole che rivelano il passato e guidano verso il futuro.
Un’assoluzione, DeeDee… quello che cerchiamo è un’assoluzione per tutti i nostri errori e le nostre mancanze.
Alcuni di noi sono rimasti paralizzati, altri si sono fidati delle parole di pigri sciamani che hanno reso nobile e moralmente degno il voltarsi dall’altra parte e far finta di niente. E poi c’è chi ha deciso che in assenza del perdono, nell’impossibilità di poter far i conti con loro stessi, forse era meglio bruciare la vecchia. Ti hanno fatto diventare una nemica da annientare, per liberarsi dal peso di trovare quelle risposte. E così stanno facendo con noi, che abbiamo osato urlare quelle domande con l’urgenza dei nostri cuori di cagne.
Ma lo sai bene quello che ti hanno fatto e non ha senso ora continuare a ricordartelo, perché ci sono cose che non ti ho mai detto. Non ti ho mai detto, per esempio, di quanto tu ci stia facendo sentire forti. Di quanto tu ci stia facendo sentire parte di un unico e complesso corpo composto da organi vivi e essenziali. Di quanto tu ci abbia ricordato chi siamo e tutto ciò che non vogliamo essere. Tu, DeeDee, purtroppo non puoi vedere il bello che ti circonda e che è sbocciato dove hai versato le lacrime e posato i tuoi piedi. Sono sicura che un giorno i tuoi occhi incontreranno la bellezza e la poesia. Te lo prometto. Nel frattempo però, ti chiedo di portare ancora un po’ di pazienza, perché ti devo raccontare come è andata a finire quella storia strampalata: la barzelletta della valle del torrente inquinato.
Quegli alberi che abbattiamo, cadono per le tue parole. E quelle che vedi dalla tua torre, sono le barricate che abbiamo alzato per le tue profezie. Le armi che abbiamo in pugno, vengono fabbricate dalla perenne minaccia che ci racconti. E la nostra fame, maledetto vecchio – digrignò Dorothy Gale – è il frutto corrotto dei campi che non coltiviamo, così come l’aridità dei nostri cuori è figlia delle poesie che abbiamo dimenticato, per combattere una guerra che tu ti sei inventato! Che tu sia maledetto, tu… che sei vecchio senza cuore ne’ saggezza!
E dicendo questo, prese per mano le sue amiche e insieme fecero ritorno al villaggio della stirpe.
Guardarono con occhi nuovi, i resti del tempio e della città abbandonata, lasciata alla mercé della minaccia perenne. Stronzi, pensarono. Non c’è spazio per la bellezza in una società dominata dalla paura – si dissero senza bisogno di parlare – e non c’è azione, ma solo la difesa di uno status quo, messo in discussione dall’evidenza delle nostre cadute. C’è soltanto l’immobilità dei morti.
Siamo cadute e siamo precipitati, Deedee, senza avere il coraggio di rialzarci. Perché non sappiamo essere liberi. Non ci hanno mai abituato ad esserlo. E la leggi, i dogmi e le norme che abbiamo riprodotto nel nostro piccolo, hanno lo stesso tono di voce dei preti che ci facevano catechismo, dei genitori che volevano un futuro fatto di certezze e di autorità spaventate dalla nostra voglia di sognare.
Dorothy Gale camminava insieme alle sue amiche e si accorse che tra la neve sporca di fango, sbucava un piccolo fiore che sembrava un fantasma. I vecchi della stirpe lo chiamavano il cadavere delle nevi. Ed era il fiore che nasceva prima di tutti gli altri, coi primi soli tiepidi della primavera. L’inverno dunque era già passato? La primavera avrebbe presto destato speranze e germogli, eppure la sua stirpe ancora abbatteva alberi per prepararsi all’inevitabile sfida del gelo. Ancora viveva con il terrore di non sopravvivere! Lo colse e pensò che lo avrebbe portato agli uomini del villaggio. Guardate – avrebbe detto con gli occhi lucidi di amore e gioia violenta – guardate: l’inverno è alle spalle e noi siamo vivi.
E questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà.
BRUCIA LA VECCHIA in #crowdpublishing su Bookabook
Nilde vive coi nonni a Colle Torto, un piccolo paese di montagna con le strade strette, tortuose e ghiacciate sei mesi l’anno. Orfana, vegetariana e solitaria, indossa il lutto per la morte prematura e violenta della madre, di cui non custodisce alcun ricordo all’infuori di una pila di libri consumati, qualche disco e le bugie di nonna Adele e nonno Evaristo. «Mio padre non so chi sia. Credo sia un pezzo di cane che ci ha abbandonate» racconta. Eppure sarà una lettera di quel padre sconosciuto a svelare una menzogna lunga quindici anni e a catapultare la giovane Nilde indietro nel tempo, a quell’inverno in cui Lisa morì per mano dell’uomo che amava. Da qui inizia un viaggio fatto di verità nascoste, vite interrotte, sensi di colpa attraverso gli occhi spietati di una sedicenne a cui tocca il compito di giudicare, condannare e liberare dai peccati quegli adulti responsabili (direttamente o indirettamente) della morte di Lisa Malatesta. Sua madre.
Perché ho scritto questo libro?
Un volta ho letto di un uomo che ha ucciso con un pugno una sconosciuta. Ogni 60 ore una donna incontra la morte per mano di uomo. La narrazione tossica parla di raptus di follia, delitti passionali e persino di “troppo” amore. In Brucia la vecchia racconto tutto ciò che non è amore e delle terribili conseguenze del confondere per tale – da parte dei protagonisti – il bisogno di salvare o essere salvati, la smania di possedere o controllare, i giochi di potere e le dipendenze affettive.
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ANDREAS È MORTO
Ogni sistema esige il suo sangue.
Da LUNGIDAME#03
Abbiamo illuminato la nostra città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere perché i nostri occhi servono solo ad ammirare quella sezione di tramonto dalle finestre del nostro salotto. Qui non abbiamo angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle.
Il tramonto di questa sera: lo hai visto? Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, ti garantisco. Perché qui è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare.
Tutto questo perché Andreas è morto.
E così siamo sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli. Nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi. Qui non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico. Qui non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede. Dimentica lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che ora sono sotto la terra ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano. Qui da noi, ciò che fa male è illegale ed è la scienza che lo dice. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco l’esistenza di dio, della sua parola non ne facciamo la nostra legge.
Tutto questo perché Andreas è morto.
Si sta piuttosto bene da noi, sai? Le regole sono semplici, la risposta in godimento per nulla avara. Basta obbedire e c’è chi pensa, agisce e fatica per noi. Il principio della delega portato a vette di perfezione e raziocinio che quasi abbaglia, come il riflesso d’acciaio di ingranaggi scintillanti e sincronizzati. E lì, da fuori, le gazze ladre vedono solo il magnifico bagliore e non possono che rimanere con la bocca aperta e dire che è tutto meraviglioso. Perché è come una melodia divina quello che questi ingranaggi fanno nel loro ruotare e incastrarsi, ruotare e incastrarsi, in quel moto perfetto e inarrestabile che è manifestazione della giustizia poetica.Loro vogliono il controllo, noi vogliamo gustare e sbocconcellare i frutti della loro fatica. Tutto ciò diventa realtà e quotidianità, fin tanto che noi ci accontenteremo di godere e obbedire. Ed è facile farlo quando vivi in quella che senza troppi giri di parole è la città in cui tutti vorrebbero stare. I nostri edifici pubblici sono colorati e pieni di luce. Le nostre mense aziendali servono, con l’equivalente di un ticket restaurant, un pasto genuino ed equilibrato. Verdure fresche e centrifugati di frutta biologica e di stagione. Nessun tipo di intolleranza verrà ignorata. Nessun tipo di scelta etica verrà osteggiata o ridicolizzata perché siamo buoni e la nostra società si basa su valori di uguaglianza e rispetto per le minoranze. Mettiamo gli asterischi per non escludere alcun genere nei nostri aggettivi e sostantivi che la storia della lingua ha voluto al maschile. Nelle imprecazioni, le rare volte che capita, stiamo attenti che nessuno possa essere offeso o che il suo essere – qualsiasi esso sia – possa avere il peso di un’offesa.
Che le sex worker, per esempio, rivendichino il loro mettere sul mercato il proprio corpo. Fuori da qui, dicono, che si usi la parola “puttana” (ed i suoi sinonimi) per giudicare le donne a cui piace particolarmente scopare, che spezzano il cuore, che ci mettono troppo in fila al supermercato, che danno una multa sui mezzi, che non valorizzano gli altri sul lavoro e nella vita o che sono temute. Quella troia di… Qui, invece, le donne si appuntano una spilletta sul bavero del gilet di ordinanza e puoi leggerlo chiaramente che c’è scritto “io sono una puttana” perché è giusto che si sappia che per noi essere una puttana non è un’offesa. Qui riteniamo giusto condividere con l’intera comunità cosa ci piace farci infilare e dove. E guai… Guai, se qualcuno dovesse sorprendersi nel fantasticare – non senza vergogna e magari con le dita attorno al cazzo – di infilare effettivamente quelle cose in quei determinati buchi.Qui le donne sono al sicuro in case assemblate con pareti di vetro, perché ciò scoraggia gli episodi di abusi domestici e i rapporti non consensuali.
Qui non c’è violenza. Non ci sono stupri e molestie perché piuttosto che educare al rispetto e alla cultura del consenso, tutti (ma proprio tutti) gli uomini al compimento del dodicesimo anno di età, preferiscono autoproclamarsi colpevoli di ogni possibile reato a sfondo sessuale. E se i maschi vengono cresciuti come mostri colpevoli e le femmine vengono educate in quanto fragili vittime prensili – simili alle micro-donne sollevate e sbatacchiate dai giganti post-nucleari di Ken Shiro – ça va sans dire che abbiamo tutti accettato quanto segue: in presenza di un uomo e una donna che si desiderano carnalmente, un testimone imparziale rappresentante ogni orientamento o gusto erotico, certifichi che… Sì, il rapporto sta avvenendo secondo tutti i crismi imposti dal buonsenso e soprattutto dai desideri e dai limiti di lei. Desideri e limiti ben documentati, dopotutto, nero su bianco e magari con qualche autoscatto birbantello, ad uso e consumo dell’intera comunità. Da tempo abbiamo rinunciato al romanticismo e abbiamo preferito la mediazione erotica prima di ogni contatto fisico, perché era davvero difficile per noi capire con la nostra testa, il nostro cuore e il nostro corpo, cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. Abbiamo delegato la nostra passione ed il sesso finalmente, così, è davvero un posto sicuro.
Tutto questo perché Andreas è morto. Andreas είναι νεκρός.
Così come nell’antica Grecia, la nostra società sta mettendo le basi di un nuovo ordine sociale che sorge dal fallimento di chi ci ha preceduto. Era estate e le strade polverose di Atene erano messe a ferro e fuoco delle proteste. L’intera nazione in fermento: cani randagi impazziti per lo scoppio di un petardo buttato, non senza un certo sadismo, da quelli che il controllo lo impongono coi conti, i numeri e le proiezioni finanziarie. Perché tutto è calcolabile e possiamo misurare il coefficiente della nostra miseria a partire da un lungo algoritmo; un codice che parte dagli uomini col vestito buono che agitano strette di mani davanti ai fotografi, scivola tra le dita con la french del capitalismo da front desk e prosegue, tra gli scossoni, per quel dito addestrato a tirare il grilletto e fare SBAM. E poi ci siamo noi che abbiamo votato, depositato soldi nelle banche, goduto nel vedere che per le strade non c’erano più straccioni e pezzenti e spacciatori e sì, quando nonna muore col suo appartamento rivalutato dalla gentrificazione forse ci paghiamo le vacanze, la cucina nuova e il master a Sandra che è precaria, povera ragazza. E quando torno a casa non devo più ignorare quelle mani a cu-cu che chiedono soldi. I miei soldi…
E così Andreas è morto. Andreas che è donna, uomo, vecchio, grassa, fragile, troppo magra, immaturo, non abbastanza ricca o troppo povero, testardo, impulsiva, ideologica e invasata, troppo forte e ostinato, sarcastica e pungente, critico, umile e sincera. Andreas è la contraddizione, l’imprevedibilità, colei che commette errori e la caleidoscopica sorpresa che nessuno potrà mai prevedere. Giovane ingranaggio inceppato, come tutti gli ammazzati sull’asfalto dalla mano armata da un sistema che richiede un sacrificio ogni 15 anni. Ogni 15 anni noi abbiamo bisogno di un martire. Cresciuto ed educato con l’illusione di essere libero. Premiato per il suo libero pensare e amare. Lodato ogni volta che si esprimeva fuori dal coro. Come sei originale Adreas! …e quanta immaginazione! Tu non puoi buttarti via come gli altri. Tu sei speciale. Davvero vuoi passare la tua vita a bere Campari al circolino guardando la partita? Aspettando un marito, il lavoro giusto, il quieto vivere e il compromesso? Davvero ti vuoi accontentare della mediocrità che ti circonda? Così si cresce un ribelle. Portandolo nel palmo della propria mano e facendogli credere di essere unico. Ed eccolo l’escamotage, il trucco criminale… Illudere Andreas di poter essere e dire ciò che vuole. Raccontargli quanto sia nobile battersi per la verità. Spalancargli gli occhi e mostrargli la gabbia in cui nasciamo e inoculargli la voglia di lottare per gli ultimi, gli oppressi… Libera nos a malo perché qui è tutto diverso Andreas, ricorda Andreas che noi siamo i buoni!
Noi siamo i giusti! E i nostri valori sono luce nelle tenebre, costellazioni nella buia vastità del caos cosmico. Fino al giorno… Fino a quel giorno in cui, con uno strattone improvviso, Andreas non si accorgerà di quel guinzaglio a strozzo attorno al collo. Ed egli deciderà di ribellarsi e mordere la mano che lo nutre, sceglierà il randagismo e mostrerà i denti al quello stesso mondo che, finalmente, potrà annientarlo nel sangue, giustiziandolo. Sacrificandolo. Guardatelo ora che brutta fine. Non vorremmo davvero condividerne il destino. Perché nessuno di noi, nessuno, vorrebbe morire insozzato del proprio sangue su un marciapiede tra le merde di cane, i mozziconi di sigarette e gli sputi dei passanti. Nessuno vuole vedere il proprio amico cadere, come corpo morto cade, sotto i colpi di un assassino che mai verrà giudicato e punito; il cui sangue non bagnerà mai le radici arcigne e testarde di quell’albero di chi vorrebbe vendicarne la morte – il suo sacrificio. E nessun padre e nessuna madre vorrebbe vedere il proprio figlio quindicenne ammazzato come un randagio, freddato, dai guardiani del potere e…
E niente, maledizione! Allora è meglio obbedire e godere no? Il principio della delega, ricordi? Loro fanno tutto per noi. E non ci è chiesto di pensare, mettere e metterci in discussione, sognare cambiamenti, sorprendersi, cadere male… Dobbiamo solo godere ed essere grati. Ogni 15 anni Andreas verrà giustiziato per ricordarci ciò che conviene. E allora grazie. Grazie Andreas. E grazie a me, ché sebbene io sia nata coi nomi di Valeria e Francesca, sono quella che alla fine muore.
“E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.”
Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio
NON CHIEDERAI SCUSA
DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE
Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.
Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.
Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.
Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.
L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.
Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?
E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!
Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.
Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?
Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.
“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.
“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.
“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.
Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…
Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.
Ti chiameranno: furiosa.