Prima di entrare nel supermercato passo circa quindici minuti in macchina.
Ho scritto un racconto ikigai in cui parlo della metropolitana, di Adolf Hitler, di Lebensraum, di shrinkflation e di mirtilli. Il racconto è stato pubblicato su Specularia.
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Che tutto strida
Prima di entrare nel supermercato passo circa quindici minuti in macchina.
Ho scritto un racconto ikigai in cui parlo della metropolitana, di Adolf Hitler, di Lebensraum, di shrinkflation e di mirtilli. Il racconto è stato pubblicato su Specularia.
Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amato. Pittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.
Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.
Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.
Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.
Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.
Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.
Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.
Dove c’è arte c’è speranza, ho pensato.
There is no place like home.
Dorothy, The Wizard Of Oz
Mosca, novembre 2041
«Conosci i tuoi nemici» pensa l’agente nascosto nell’ombra, studiando i membri della band che è appena scesa dal palco, intanto che ripongono gli strumenti nei foderi, scambiano battute e commenti su accadimenti ridicoli, stappano birre e non smettono di sorridere un instante. Prova pena per loro.
Una bollita di quarant’anni vestita come un clown con un gatto morto in testa, un dirigente che da troppe settimane non si fa la barba, un padre di famiglia stempiato e una ventenne dall’aspetto ordinario che indossa vestiti più vecchi di lei.
«Che accozzaglia di perdenti» conclude l’agente, chiedendosi a quale categoria di sconfitti appartengano. Grazie alla sua esperienza sul campo ha individuato tre tipologie di “rivoluzionari” che tra colleghi distinguono in uomini di latta, spaventapasseri e leoni fifoni.
I leoni fifoni credono di essere i re delle foreste, o ambiscono ad esserlo, ma sono così vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontare il mondo là fuori e, fin tanto che stanno chiusi in questo piano della realtà, possono sognare la rivoluzione ed illudersi di avere un briciolo di importanza e potere. Lo stesso potere che vorrebbero, ma che subiscono, fuori da queste mura e, proprio come nel Mago di Oz, basta lo schiaffo di una giovane donna con le treccine ed un vestito a quadretti che vuole difendere il suo piccolo cane, per smascherare la loro farsa. Essi infatti non sono avvezzi e non tollerano la disobbedienza o il pensiero critico, in quanto non li hanno mai esercitati e vissuti in prima persona, per assenza di coraggio.
Gli spaventapasseri, al posto del cervello, hanno paglia che prende fuoco facilmente. Perdenti, sconfitti ed emarginati in un mondo che obbliga all’eccellenza, si rintanano qui dove non devono far la fatica di pensare, studiare, informarsi e prendere decisioni perché tanto ci sono i leoni fifoni che spiegano loro come vivere, cosa mangiare, come vestirsi, che musica ascoltare, quale battaglia combattere e quale ignorare. Bastano pochi semplici slogan facili da imparare a memoria, grazie alla rima baciata e alla metrica da inno dei tifosi, per dar loro dei riferimenti certi che non saprebbero però argomentare né mettere in discussione. Privati dal sacco che contiene quella paglia, si disperdono con la prima folata di vento, pronti ad obbedire al padrone di turno che li plasma a suo piacimento. E così svolazzano, pronti a prender fuoco, seguendo le correnti.
E poi ci sono gli uomini di latta che hanno rinunciato al proprio cuore per il troppo dolore, le delusioni e le lamiere di sogni infranti che pungono e lacerano il petto ad ogni battito. Meglio smettere di credere, amare, sperare e partecipare perché dove ci sono gruppi sociali c’è il potere e dove c’è il potere c’è ingiustizia. E no, non esiste possibilità alcuna di rompere questo schema e creare una socialità libera dall’oppressione, i giochi di potere, la competizione tra leoni fifoni e l’utile stupidità degli spaventapasseri e allora è meglio strapparsi il cuore e rimanere in ascolto di quel vuoto che può essere colmato dall’ebbrezza, il cinismo e la provocazione.
E Dorothy? In quel film c’era anche una Dorothy con le sue scarpette rosse e l’amaro compito di svelare le illusioni del Mago di Oz e aprire le porte della Città di Smeraldo…
Non le capita di picchiare una Dorothy da tantissimo tempo. Non è che gli importi molto poi, al Tutore della Serenità protetto dal suo esoscheletro dai riflessi metallici, ma a volte è così noioso stare lì accucciati nel buio ad aspettare di massacrarli che, per passare il tempo, si diverte ad immaginarli come i personaggi di quel vecchio film. In fin dei conti sia il leone fifone, che lo spaventapasseri o l’uomo di latta, sotto i colpi del suo manganello, piangono tutti allo stesso modo. Eppure non riesce a capire a quale categoria appartenga quella ragazza dall’aspetto ordinario.
L’agente visualizza nel dispositivo occhio-orecchio il rapporto su quella che viene identificata come Dorotea D., classe 2018, ex dipendente della Woland Corporation e scopre che alcune note relative al soggetto sono secretate. La sua posizione all’interno della gerarchia dei Tutori della Serenità, però, gli concede di accedere solo ad alcune delle informazioni criptate. Sono delle istruzioni circa l’imminente operazione. Le legge e le cancella.
“Massacrare Dorotea D. chirurgicamente senza rompere ossa o lasciare danni permanenti, concentrare i colpi sul volto, ma senza sfregiarla irreversibilmente”.
L’agente non si fa domande e chiude il collegamento con il dispositivo occhio-orecchio. Nulla di quello che accadrà potrà essere registrato.
Mancano pochi secondi al via e l’agente guarda per l’ultima volta quella ragazza a cui dovrà rovinare quel faccino acqua e sapone. Dorotea, proprio come la Dorothy di quel vecchio film…
«Nient’altro che una coincidenza» pensa l’agente, prima di scagliare il manganello dietro alle ginocchia della ragazza.
Chi sono i mortificatori? Ascolta l’audiolibro scritto e letto da Valeria Disagio 👉 https://spoti.fi/3wpqYpR
“I Mortificatori” è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte, per poi rieducarli a furia di supplizi e schiaffoni.
O.S.T. “Awake Arise Silence” by MARTHE
Ti ho visto arrivare alle prime luci dell’alba. Hai indossato un lungo cappotto su quei pantaloni ridicoli del pigiama. Ti sei vestito di corsa. Non hai avuto il tempo di lavarti il viso e con gli occhi ancora cisposi hai guidato fino a qui. Hai chiamato tua madre. Lo fate quasi tutti. Tornate bambini incapaci di affrontare la realtà ma adesso che sei qui la tua mamma è più un impiccio che altro, sebbene tu faccia fatica ad ammetterlo.
Non ti servono le sue mani sulle spalle, le sue parole di conforto poco sincere che non riescono a nascondere il biasimare e recriminare i tuoi errori o il tuo troppo sentire. Perché se sei qui, si sa, è perché ami troppo o forse sei troppo distratto. E l’una e l’altra cosa (o addirittura entrambe) alimentano e giustificano quel sacrosanto sguardo severo, che solo tua madre sa destinarti.
Ti sei pentito di averla chiamata, vero? Vorresti farla scomparire ora, e non dover rispondere alle sue domande, ma adesso è troppo tardi. Ti sei spaventato e l’hai chiamata e lei è venuta subito da te, all’alba, perché è così che fanno di solito le madri. Corrono in tuo aiuto, facendoti notare però il costo che ciò comporta. Te lo dirà come una cosa da nulla, ma farà in modo che quell’informazione colpisca forte e nel punto giusto. Che ha dovuto lasciare solo, per esempio, quell’uomo che un tempo chiamavi “padre” ma che da anni non ricorda più il tuo nome o quanti anni hai. Quell’uomo, suo marito nonostante la malattia, a cui si dovrebbe risparmiare l’inevitabile agitazione che seguirà al suo risveglio in un letto vuoto. Reggerà il suo cuore per il tempo necessario di mettere a fuoco quel biglietto, scritto a caratteri molto grossi, che tua madre ha lasciato attaccato sullo specchio del bagno, per avvisarlo della sua assenza? Lo ha lasciato solo a causa tua, della tua disattenzione e del tuo troppo sentire. Un momento di debolezza, ma fa niente. Possiamo risolvere anche questo problema. Lo faremo insieme, perché da adesso ci siamo io e te e nessun altro. Lo sai. E, intanto che corri verso di me, cominci ad accettarlo e crei una distanza fisica accelerando il passo. Perché quella che ti cingeva le spalle con un braccio, non è più quella donna che era il tuo tutto, ma è una vecchia che non sa più esserti utile.
Lasciala dietro di te, cammina più in fretta e parlami ora con parole che sono razzi colorati che si stagliano, fumando, tra il bianco opprimente del cielo e l’urgente candore che accieca della neve in montagna. In quest’alba in cui tutto attorno sarebbe gelo e deserto, anche se fosse la notte di San Lorenzo. Allunga la distanza tra un piede e l’altro perché forse è meglio non farti sentire da lei, tua madre, intanto che fai la tua confessione. Ogni parola che dirai potrà essere usata contro di te, è così che si dice, vero? Perché è così che fanno, le madri e gli sbirri.
Avvolto in un vecchio asciugamano da spiaggia che risale alla tua infanzia, porti il corpo di un gatto. O forse è un piccolo cane, ancora non riesco a capire ma so, dall’espressione dei tuoi occhi, che se è lì tra le tue braccia è perché pensi di poterlo salvare ed io sono qui per questo. Ora parlami. Confessa la tua colpa e cerca l’assoluzione da questa donna, fino ad ora sconosciuta, che ti accoglie con un sorriso privo di condanna e occhi buoni di chi può perdonare e che, ancora non lo sai, sarà la donna più importante della tua vita nei prossimi sette giorni. Perché sette? Perché questa è la regola. Oltre non reggete.
È stato un attimo di distrazione. Ho lasciato la finestra aperta e lei – inclini leggermente l’involto per mostrarmi il musetto di una gatta bianca, nera e rossa di sangue – deve aver cercato di catturare una lucertola, forse, o un uccellino – no, lei non ne ha di colpe anche se una parte di te è in collera per la pena che ti sta causando – ed è caduta dal terzo piano. Di solito c’è la rete, ma avevo steso il bucato e… Shhhh, non permettere al panico di strozzarti le parole in bocca perché quello che dirai adesso, potrebbe dannare la tua anima o salvare la vita di quella creatura che stringi tra le braccia. Quello che racconterai adesso diventerà la verità con cui dovrai fare i conti, forse, per il resto della tua vita.
«Trascina una zampa e sanguina da un orecchio, potete salvarla? L’ho portata immediatamente qui, appena me ne sono accorto. Mi sono distratto un attimo…»
Non è vero. Non è stato un attimo, ma accetto che tu mi voglia, e ti voglia, raccontare questa bugia. Fa parte delle regole del gioco, lo fate per poter sopravvivere. Una legge fondamentale per non rompervi in mille pezzi a causa di quel peso che grava sul cuore, lo sterno e lo stomaco di chi, come te, avendo la responsabilità di una creatura-altra viene a meno di quel patto, attentando alla sua vita. Un tradimento a tutti gli effetti. Non dovevi far altro, in fondo, che prenderti cura di lei. Ma hai fallito ed adesso sei qui davanti a me con una gatta in fin di vita tra le braccia, i pantaloni del pigiama con dei disegnini scemi e un cappotto nero che non basta a non farti sentire freddo.
«Ho bisogno del tuo nome, del tuo numero di telefono, del codice fiscale e del nome della tua gattina»
«Io sono Carlo»
«Piacere Carlo, non ti preoccupare, hai fatto bene a portare qui…»
«Circe, lei è Circe e…» a pronunciare il suo nome, quella gatta in fin di vita che stringi al petto, emette un debole miagolio e questo, per te, è decisamente troppo. Piangi. Ed insieme alle lacrime butti fuori tutta l’adrenalina che ti ha fatto guidare fino a qui, da me, senza la consapevolezza di schiacciare la frizione per cambiare la marcia, di premere sull’acceleratore durante i rettilinei, di manovrare lo sterzo per assecondare le curve e frenare agli stop o davanti alle strisce pedonali che, per fortuna, a quest’ora sono deserte.
Schiaccio un pulsante sulla mia scrivania per chiamare chi sbrigherà le ultime scocciature burocratiche, ma sarò io a farti firmare questo foglio che tu non leggerai in cui, dopotutto, mi autorizzi a salvare la vita della tua Circe. Davvero non hai il tempo e la testa, ora, per leggere ogni piccolo carattere stampato su questo foglio e, d’altronde, sappiamo entrambi che non hai altre alternative od opzioni, se vuoi che Circe torni a sedurti con la sua morbida pelliccia, dormendo sul tuo petto intanto che guardi la televisione sdraiato sul divano, lo stesso petto che Circe infilza con quei piccoli uncini on demand, in cerca di cibo ogni mattina. Quel petto che ora non avverte più il calore del suo corpicino, in questo momento di distacco, in cui io sfilo Circe dalle tue braccia e l’accolgo tra le mie, per portarla in ambulatorio e tu non riesci a guardare e resti a contemplare quel freddo, umido vuoto che è la sua assenza. Gli occhi persi. Ti stai chiedendo se questo è un addio.
Ho visto due uomini sconosciuti lottare per una mela. Ma forse era un principio. Poiché la mela è finita per terra a rotolare sul cemento umido del mercato coperto di La Spezia.
Il ladro prendeva a sberle il derubato. Il derubato colpiva con un ombrello il ladro. Eppure quella mela restava lì, per terra, tra le pozzanghere che brillavano di gasolio e piscio di ubriachi. Anche quando sono arrivate le guardie e il ladro di mele è scappato, correndo, inseguito dalla volante.
E la gente che guardava l’uomo braccato, aggrappandosi a quei cocktail troppo viscidi tra le mani, inalando e sbuffando vapore al gusto di cannella e bourbon sintetizzato, sarebbe stata capace di indovinare, immaginare che in fondo era stata rubata (e scagliata sul cemento) una mela rosa? O forse era un principio.
“I Mortificatori: horror d’amore, arte e cicatrici” è un thriller dalle tinte piuttosto violente ed orrorifiche, ma divertente. Ambientato in una piccola città di provincia, tra artisti, artistoidi, punx, sociopatici e leggende metropolitane che ruotano attorno a una setta che si narra rapisca artisti talentuosi distrutti dall’egocentrismo, dalla depressione o dagli eccessi e ne simulino la morte – a 27 anni – , per poi rieducarli a furia di torture, supplizi e schiaffoni. Leggenda metropolitana o realtà?
Toccherà ad Orso Marcuse, hikikomori appassionato di film horror e piante carnivore, scoprire se sono proprio i mortificatori i mandanti del rapimento dell’amata e inquieta Adele, pony express di professione e mina vagante per vocazione.
Davvero ho scritto un altro romanzo? Sì, mannaggia e – guarda un po’ – sto cercando una casa editrice che voglia pubblicarlo.
Keywords: cyberpunk, sci-fi, distopia, punk, marketing, multinazionali, guerra civile, dominio, punx, ex blocco sovietico, camperismo, galline e orsi, digiuno intermittente, comunità elettronica, post-apocalisse, carcere, il Mago di Oz, tour, musica, Franti, il protocollo D.E.A.T.H., Dead Kennedys, Brave New World, Aldous Huxley, Woland, Pornoriviste, Wretched, Bikini Kill, This machine kills fascists, Wendy O’ Williams, Karl Popper, Kafka (la band HC), analisi dei sentimenti, il diavolo di Bulgakov, metriche di vanità, Baltika, Pussyriot, Misfits, Egor Letov, Graždanskaja oborona, Polizia, Doom, Via Gola, Negazione, Nerorgasmo, Zygmunt Bauman, Finkbrau, Drunkards, Crass, Discharge, Butyrka, carcere in fiamme, rivolta, Kalashnikov Collective.
A volte mi chiedo dove sia l’uomo che temevo
e che mi ha cresciuto
con Jesus Christ Superstar e Colpo Grosso
prima che cominciassi a fumare e decolorarmi i capelli,
secondo una costellazione pedagogica tutta sua,
fatta di sorsi di brandy, di leggendarie bugie
per cui la mia voce era quella di Astrifiammante,
–Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen–
(La vendetta dell’Inferno ribolle nel mio cuore)
ma che non mi permetteva di credere
a quella favola hollywoodiana
del ricco che salva la puttana
(non esistono i principi azzurri e nessuno ti verrà a salvare, diceva),
in quel vecchio che rifiuto di vedere malato.
Quell’uomo, mio padre, esiste ancora
celato in quella sete di vino a buon prezzo e voglia di lottare,
in quell’assuefazione alla vita
che ha sostituito i tre pacchetti giornalieri di Diana Blu morbide.
Resiste nel negarmi la sua paura
allo stesso modo in cui decideva cosa era adatto al mio sentire
e cosa i miei occhi non dovevano vedere
dietro alla sua mano di ulivo capitozzato,
tra gli sbuffi rossi di polvere del suo sangue al confino.