“EXPANSION OF THE MOMENT” di Narjes Ghorbani. Testi a cura di Valeria Brignani e Amin Zarif.

“EXPANSION OF THE MOMENT” di Narjes Ghorbani. Testi a cura di Valeria Brignani e Amin Zarif.

NARJES GHORBANI

Il potere del colore e del segno sono le peculiarità distintive del lavoro della pittrice iraniana. Tonalità intense avvolgono ed evidenziano un tracciato sinuoso indice dello scorrere dell’esistenza. La ricerca dell’artista Narjes Ghorbani è introspettiva, viscerale ed energetica. Colore sofferto, colore amatoPittura come vita, portavoce di ragionamenti e sentimenti.

Ho contribuito con un mio scritto al catalogo della mostra. Grazie ad Eileen Ghiggini per avermelo chiesto.


LA BREVE VITA

Il precipitare da una mano che, anziché accogliere, abbandona non può che finire male. Come lo scontro imprevedibile di un sasso lanciato lontano da noi, in quell’oscurità di acque profonde che tutto vorrebbe far dimenticare celandolo agli occhi.

SOGNI INFRANTI

Ma quell’impatto violento, come ogni conflitto, è trattenere il respiro ed è l’apnea di un cuore infranto, di una bomba sganciata su una città, dei bruschi risvegli, delle delusioni e delle unghie spezzate, ossa rotte e menzogne svelate. Sogni derisi. Ho sempre vissuto ogni addio come una paralisi. Perché ogni abbandono, ogni precipitare, ogni conflitto ferma il tempo che smette di scorrere lungo quella linea retta, che trasforma il domani in ieri, il dolore in cicatrici e il desiderio in memoria.

ACCOGLIERE L’IMPERFEZIONE DI UNA MELA BACATA

Nel 1957 il fisico teorico John Archibald Wheeler diede un nome a quei tunnel nell’Universo in grado di collegare due punti spazio-temporali diversi e lontanissimi. Ciò che era conosciuto sui libri con il nome “ponte di EinsteinRosen”, John Archibald Wheeler lo ribattezzò con il per nulla aulico wormhole o cunicolo di quel verme che, simbolicamente, attraversa una mela, divorandola, anziché percorrerla lungo quello scorrere in superficie e che tutti possono vedere. Un tarlo che scava una voragine permettendo all’oscurità di penetrare nella materia. Un sasso che precipita generando un moto perpetuo di cerchi concentrici. Una mano che si ritrae da un’altra rendendo tangibile l’assenza.

LA RIVALSA DEI COLORI

Un buco nero profondissimo in cui perdersi, per ritrovare le foto che abbiamo cancellato dal cellulare, i nomi dimenticati e i volti fuori fuoco, i sogni di una bambina, le sventure da raccontare con il sorriso sulle labbra, la saggezza delle scritte sui muri, la rivelazione dei biglietti caduti dalle tasche e ritrovati da uno sconosciuto, i giochi colorati e sparpagliati nella nostra cameretta, che risorgono e si stagliano, come stelle, nel lutto infinito che l’essere adulto vorrebbe imporre.

NARJES GHORBANI

Davanti all’opera di Narjes Ghorbani il tempo ha ricominciato a scorrere. Perché quelle linee nere ossessive fanno precipitare giù, sempre più giù, fino al fondo di quel buco nero in cui gli opposti si incontrano e coesistono. In quell’altra dimensione in cui la saggezza del presente non dimentica l’indomita arte di sognare, tipica di quelle anime pure che escono dal tracciato di una cornice, per esempio. Quell’esplosione di colore improvvisa e inaspettata che emerge dal subacqueo, dal sotterraneo e dal taciuto ed irrompe in un sorriso luminoso. Davanti all’opera di Narjes Ghorbani ho capito che la sola forza che abbiamo per sconfiggere l’oscurità è l’immaginazione. Non è forse nella natura stessa della speranza, l’arte di immaginare il bene quando intorno sembra trionfare il male? Perché credere ancora nell’amore, in mezzo alla ferocia, è un atto creativo.

Dove c’è arte c’è speranza, ho pensato.

16. Ding Dong, the witch is dead | IL GRANDE ROGO DEL ’25

16. Ding Dong, the witch is dead | IL GRANDE ROGO DEL ’25

There is no place like home.

Dorothy, The Wizard Of Oz

Mosca, novembre 2041


«Conosci i tuoi nemici» pensa l’agente nascosto nell’ombra, studiando i membri della band che è appena scesa dal palco, intanto che ripongono gli strumenti nei foderi, scambiano battute e commenti su accadimenti ridicoli, stappano birre e non smettono di sorridere un instante. Prova pena per loro.
Una bollita di quarant’anni vestita come un clown con un gatto morto in testa, un dirigente che da troppe settimane non si fa la barba, un padre di famiglia stempiato e una ventenne dall’aspetto ordinario che indossa vestiti più vecchi di lei.
«Che accozzaglia di perdenti» conclude l’agente, chiedendosi a quale categoria di sconfitti appartengano. Grazie alla sua esperienza sul campo ha individuato tre tipologie di “rivoluzionari” che tra colleghi distinguono in uomini di latta, spaventapasseri e leoni fifoni.


I leoni fifoni credono di essere i re delle foreste, o ambiscono ad esserlo, ma sono così vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontare il mondo là fuori e, fin tanto che stanno chiusi in questo piano della realtà, possono sognare la rivoluzione ed illudersi di avere un briciolo di importanza e potere. Lo stesso potere che vorrebbero, ma che subiscono, fuori da queste mura e, proprio come nel Mago di Oz, basta lo schiaffo di una giovane donna con le treccine ed un vestito a quadretti che vuole difendere il suo piccolo cane, per smascherare la loro farsa. Essi infatti non sono avvezzi e non tollerano la disobbedienza o il pensiero critico, in quanto non li hanno mai esercitati e vissuti in prima persona, per assenza di coraggio.


Gli spaventapasseri, al posto del cervello, hanno paglia che prende fuoco facilmente. Perdenti, sconfitti ed emarginati in un mondo che obbliga all’eccellenza, si rintanano qui dove non devono far la fatica di pensare, studiare, informarsi e prendere decisioni perché tanto ci sono i leoni fifoni che spiegano loro come vivere, cosa mangiare, come vestirsi, che musica ascoltare, quale battaglia combattere e quale ignorare. Bastano pochi semplici slogan facili da imparare a memoria, grazie alla rima baciata e alla metrica da inno dei tifosi, per dar loro dei riferimenti certi che non saprebbero però argomentare né mettere in discussione. Privati dal sacco che contiene quella paglia, si disperdono con la prima folata di vento, pronti ad obbedire al padrone di turno che li plasma a suo piacimento. E così svolazzano, pronti a prender fuoco, seguendo le correnti.


E poi ci sono gli uomini di latta che hanno rinunciato al proprio cuore per il troppo dolore, le delusioni e le lamiere di sogni infranti che pungono e lacerano il petto ad ogni battito. Meglio smettere di credere, amare, sperare e partecipare perché dove ci sono gruppi sociali c’è il potere e dove c’è il potere c’è ingiustizia. E no, non esiste possibilità alcuna di rompere questo schema e creare una socialità libera dall’oppressione, i giochi di potere, la competizione tra leoni fifoni e l’utile stupidità degli spaventapasseri e allora è meglio strapparsi il cuore e rimanere in ascolto di quel vuoto che può essere colmato dall’ebbrezza, il cinismo e la provocazione.

E Dorothy? In quel film c’era anche una Dorothy con le sue scarpette rosse e l’amaro compito di svelare le illusioni del Mago di Oz e aprire le porte della Città di Smeraldo…
Non le capita di picchiare una Dorothy da tantissimo tempo. Non è che gli importi molto poi, al Tutore della Serenità protetto dal suo esoscheletro dai riflessi metallici, ma a volte è così noioso stare lì accucciati nel buio ad aspettare di massacrarli che, per passare il tempo, si diverte ad immaginarli come i personaggi di quel vecchio film. In fin dei conti sia il leone fifone, che lo spaventapasseri o l’uomo di latta, sotto i colpi del suo manganello, piangono tutti allo stesso modo. Eppure non riesce a capire a quale categoria appartenga quella ragazza dall’aspetto ordinario.


L’agente visualizza nel dispositivo occhio-orecchio il rapporto su quella che viene identificata come Dorotea D., classe 2018, ex dipendente della Woland Corporation e scopre che alcune note relative al soggetto sono secretate. La sua posizione all’interno della gerarchia dei Tutori della Serenità, però, gli concede di accedere solo ad alcune delle informazioni criptate. Sono delle istruzioni circa l’imminente operazione. Le legge e le cancella.
“Massacrare Dorotea D. chirurgicamente senza rompere ossa o lasciare danni permanenti, concentrare i colpi sul volto, ma senza sfregiarla irreversibilmente”.
L’agente non si fa domande e chiude il collegamento con il dispositivo occhio-orecchio. Nulla di quello che accadrà potrà essere registrato.
Mancano pochi secondi al via e l’agente guarda per l’ultima volta quella ragazza a cui dovrà rovinare quel faccino acqua e sapone. Dorotea, proprio come la Dorothy di quel vecchio film…
«Nient’altro che una coincidenza» pensa l’agente, prima di scagliare il manganello dietro alle ginocchia della ragazza.

15. Il  nostro nome è un segreto | IL GRANDE ROGO DEL ’25

15. Il nostro nome è un segreto | IL GRANDE ROGO DEL ’25

«Sei pronta DeeDee?» mi aveva chiesto Fausto, sulla soglia della sala riunioni della Woland Corporation, togliendomi il berretto e spostando i capelli di lato, per mostrare la metà del mio cranio che mi avevo rasato – proprio come in quelle vecchie foto di Guenda – quella notte stessa. 


«Chi è Guenda?» avevo chiesto, sfiorandogli il tatuaggio con inciso quel nome, con le dita.
«Una che è morta» aveva risposto. 
«Suonavamo insieme – proseguì – vivevamo insieme, dormivamo insieme e facevamo sesso, sogni, progetti insieme, ma poi ha deciso che era meglio morire piuttosto di realizzare quei sogni con me, fare sesso con me, vivere e suonare con me» disse forzando uno dei suoi sorrisi da clown stronzo, ma fallendo nel tentativo di sembrare divertente. 
«Forse perché, per lei, io non ero abbastanza speciale e d’altronde nulla lo era per la mia Wendy. O meglio, era tutto così straordinariamente bello o doloroso per cui, alla fine, ogni cosa risultava troppo difficile da gestire. Per Guenda era tutto troppo o troppo poco e ha deciso di non essere niente».
Nel dirlo si era alzato dal letto per poi tornare con una vecchia rivista cartacea in mano. Sulla prima pagina che faceva anche da copertina, ed era della medesima carta sottile e ingiallita di ogni pagina, vi era un collage di foto tra cui spiccava l’immagine di una ragazza sul palco rasata a zero per metà cranio e con lunghissimi capelli rossi che le cadevano giù fino alla spalla destra. Urlava in quello che doveva essere un vecchio dispositivo voce – un microfono – che fino agli anni Venti era stato usato per amplificare la voce durante le esibizioni in diretta di musica suonata dal vivo. 

«Sei sicura di quello che stiamo facendo, DeeDee?» mi aveva domandato con il rasoio in mano.   
«DeeDee?» chiesi.
«DeeDee. Non ti piace come soprannome? Ne avevamo tutti uno, ai tempi. Il cognome era qualcosa che non ci apparteneva davvero e se lo si usava era per storpiarlo in qualche modo grottesco e unico. 
Ho avuto amici e amanti con cui ho vissuto, suonato e lottato per anni e ne ignoravo il nome e il cognome, perché smettevamo di essere il figlio dell’operaio o il figlio del banchiere. Smettevamo di essere quello che viveva nelle case popolari o nel quartiere residenziale. Non eravamo più lombardi o siciliani. Eravamo parte di una famiglia tribale che non teneva conto di chi fosse tuo padre e che lavoro svolgesse tua madre. E così avevamo nuovi nomi. Nomi che raccontavano qualcosa di te e, la maggior parte delle volte, raccontavano qualcosa di molto imbarazzante, divertente ed epico. 

Io ero Fausto detto Panatta, eppure non ho mai giocato a tennis in vita mia, ma quando avevo circa quindici o sedici anni, mi capitò di trovare questo borsone sull’autobus – raccontò mimando con le braccia nude l’ingombro di quella borsa e guardando il vuoto tra le mani, come se fosse ancora in grado di vederla, lì, sotto i suoi occhi –  pieno di vestiti puzzolenti e una racchetta. “Il tennis è roba da ricchi” penso, e cerco di barattare quella roba per del fumo al parchetto del paesino di merda in cui vivevo. Da lì gli spaccini hanno cominciato a chiamarmi Panatta, “Panatta che vuole un panetto di fumo” chiosarono e basta, quel nome non me lo sono più staccato di dosso, come un odore, come una pisciata territoriale riconoscibile senza bisogno di parlare» 
«Ti chiami Dorotea D.? DeeDee! Come Dee Dee Ramone o come le iniziali incise sul tuo dispositivo occhio-orecchio aziendale che indossi con tanta fierezza? Nessuno lo saprà, perché è un nostro segreto. Qualcosa che sappiamo io e te e che nessuno all’infuori della nostra famiglia tribale, può vedere o comprendere»
«Oppure DeeDee, come Dorotea Disastro? Sembra il nome perfetto per una poetessa punk o per una cantante di una band» avevo azzardato. 
«Bellissimo! Dorotea Disastro detta DeeDee! Ho fatto proprio bene ad assumerti, sei brava!» disse prendendomi la faccia tra le mani e scoccando un bacio rumoroso sulla fronte, cominciava a piacermi questo… toccarsi. 

 «Guarda! Questa era la mia di band al completo» aveva detto, indicando due pagine piene di foto e parole all’interno di un’altra fanzine ingiallita.
«Noi eravamo i This machine: Guenda alla voce, Giulio alla chitarra, io alla batteria e Monica al basso».
«Ma è lei la donna della metro, quella con la gallina, sai? Come è possibile? L’ho incontrata proprio prima di venire da te!» gli dissi incredula. 
«Incredibile! Non è cambiata di una virgola allora e il fatto che tu l’abbia incontrata proprio oggi, venendo qui da me, non può essere una coincidenza! Il fato sta cercando di dirci qualcosa – disse alzandosi in piedi sul letto, calpestando le riviste e alzando le mani come durante le meditazioni – Cosa hai da dirmi, destino? Perché hai messo questa enfant prodige dell’analisi dei sentimenti e quella rimbambita kamikaze di Monica sulla mia strada? Quale mistero si cela dietro a tutto ciò, dammi un segno, crudele e oscuro destino ma, soprattutto, quale ruolo ha quella scatoletta di mousse per gatti?»
«Posso sapere cosa stai facendo e a chi stai parlando?» chiesi.
Fausto mi guardò perplesso e un po’ deluso. 
«Dobbiamo lavorarci su questo, ok? Questo tuo essere così respingente ad ogni cosa che non può essere misurata e calcolata, mannaggia, sei così… seria. Dovevi vederti! Era una scena divertente e del tutto priva di logica, tu che entri in casa mia con una scatoletta di pesce sintetico frullato in mano, tutta zuppa come una gattina randagia e quell’espressione da monitor del parchimetro!»

Lo stava facendo ancora. Si stava prendendo gioco di me. Imitò persino il mio volto e la mia rigidità espressiva, dicendo “miao”. Ed  io provai qualcosa che ai tempi mi era difficile spiegare e capire. Qualcosa che mi riportò all’infanzia e agli scherzi che mi faceva mio padre o a mia madre che mi metteva la crema balsamica sul petto per calmare la tosse, ma mi faceva il solletico e ridevo, ridevo forte nel vedere ridere mia madre e anche quella sera, davanti a Fausto nudo che diceva “miao” imitando la mia espressione di qualche ora prima, lo feci… mi mise a ridere anch’io! E non riuscivo a smettere. Più cercavo di trattenere questa violenza che mi sconquassava il petto e mi toglieva il respiro, mi deformava la faccia fino a far male e mi faceva lacrimare, piegandomi su me stessa in cerca di placare quella che dall’esterno assomigliava ad una danza tarantolata o corrente elettrica che attraversa il corpo folgorato da un fulmine. E più ridevo, più Fausto persisteva nel portare in atto la messinscena, dire “miao”, muovere la sua mano stretta in un pugno come zampette di un gatto,  fingere di lavarsi la testa e il muso. Mise fine al mio tormento, strusciandosi su di me, facendo le fusa, mordendomi il collo e trasformando lo scherzo in un gioco per grandi, con la voglia di darmi e ricevere ancora piacere dipinta negli occhi e scolpita in mezzo alle gambe.  Ormai la luce dell’alba illuminava tutta la stanza e l’intera città, svelando ciò che avevo perso negando il sentire del ventre, i battiti della notte, la verità dei sospiri e del proprio sudore mischiato a quello di un altro. 

Mi svegliai ancora ubriaca, con la testa rasata ed un’idea. 
il grande rogo del '25

14. REPORT#6 – Mosca. Doppia D come Dorotea Disastro | IL GRANDE RODO DEL ’25

Noi camminiamo lungo i binari del treno e riposiamo sui gasdotti
il nostro fiato è il fumo nero di una ciminiera,
la nostra stella polare è la luce gialla di un lampione.
2016, Lungo i binari del treno, Kalashnikov collective 
(orig. “По трамвайным рельсам” by Yanka Dyagileva 1987)


«Sei pronta DeeDee?» mi chiede Panatta.

«Sì, sono pronta» rispondo e salgo su quel palco davanti a così tante persone ammassate l’una sull’altra da ricordare il brulicare del piccolo popolo nella vita batterica dell’humus del sottobosco. Una massa calda e percorsa da battiti, vibrazioni, ronzii, respiri, condensa, puzze, ruvidità, attriti e morbidezza, umidità e ossa dure, giunture spigolose e denti che sembrano candidi sassi. Salgo sul palco del concerto illegale che farà la nostra storia e la storia della musica, perché è dagli anni Venti che non si assiste ad un fenomeno, anche solo paragonabile, in quanto a numero di partecipanti e ore suonate dal vivo di seguito. 

In ogni data del nostro tour, lungo 6 stagioni, abbiamo portato con noi chiunque avesse voglia di seguirci o fosse in possesso di uno strumento. C’è chi ci ha seguito con batterie realizzate con pentole e pezzi di elettrodomestici, chitarre ottenute da scatole di legno ed elastici ben tirati, strumenti a fiato ottenuti dai desueti tubi di scappamento di automobili abbandonate e chi ci ha seguito suonando la propria voce o perché non aveva mai visto Mosca o chi non voleva interrompere un discorso iniziato sotto il palco e allora, così come era venuto, è salito sul camper perché certi discorsi non si possono interrompere a metà. 

Abbiamo percorso migliaia di km su strade distrutte dalle piogge e dal gelo. Pozzanghere ghiacciate che, come in un contagio, si diffondono di crepa in crepa fino a far sparire il manto stradale. E fango, fango e alberi a perdita d’occhio per ore e ore. 

Il nostro contatto russo ha pochi denti in bocca, un sacco a pelo, una spazzola e delle pedine di scacchi avvolte nello stesso asciugamano che dovrebbe usare per lavarsi. Con i denti che gli sono caduti, a causa della carenza di vitamine ed eccesso di alcol tipico di queste lande, ne ha fatto un ciondolo che porta al collo. 
Ci ha accompagnato per le prime settimane del tour oltre i confini dell’Antica Russia e poi si è fatto lasciare a piedi, nel nulla, con la promessa di ritrovarci a Mosca 5.0 per la data conclusiva del tour. Prima di congedarsi, ci ha fatto tre raccomandazioni:

  1. Non fidarsi mai degli sbirri, che non ha mai accettato di chiamare Tutori della Serenità, perché violenti e corrotti
  2. Non sostare più di 15 minuti all’aria aperta di notte con oggetti metallici in mano, o addosso, per evitare che ci si appiccicassero alla pelle nottetempo
  3. Stare attenti agli orsi

«Come? Come possiamo proteggerci dagli orsi? E quali orsi?» aveva chiesto allarmato Giulio. 
«Non rimanete mai a secco e non passate la notte in autostrada. Gli orsi hanno lunghi artigli, capaci di dilaniare le lamiere» aveva concluso, allontanandosi coi piedi nel fango oltrepassando quel confine di neve sporca, pozzanghere e bottiglie rotte, dirigendosi verso un nulla siderale fatto di alberi neri, candida neve e molto probabilmente orsi dai lunghi artigli capaci di dilaniare lamiere. 
«Si sta sicuramente suicidando – aveva commentato Giulio – cerchiamo se ha lasciato un biglietto da qualche parte. Viktoooor – aveva urlato con voce strozzata – Viktoooor, torna indietro!» continuava ad urlare con mezzo busto fuori dal finestrino, intanto che la carovana che si era creata dietro al camper di Monica cominciava a farsi impaziente e a ululare feralmente: “Viktoooor! Viktooor!” tra i clacson e il fragore dei coperchi di pentola adattati a charleston e le botti di legno come grancasse. 
Viktor si era girato e aveva sorriso con quei due denti che gli rimanevano in bocca e aveva urlato qualcosa che non eravamo stati in grado di comprendere. Lo avevamo dato per disperso eppure è lì, sotto il palco, con la sua aria stropicciata e gli occhi buoni nascosti dalla malinconia di quei lineamenti così marcati dagli anni. 
Viktor aveva avuto una band piuttosto nota e molto attiva nell’ultimo decennio del secolo precedente. Sebbene non avesse dovuto, come i suoi predecessori, sfidare la censura esplicita del regime comunista che reputava il punk, per esempio, effetto collaterale e marcio del sistema occidentale e, ubiquitariamente, di essere anche troppo critico nei confronti dello Stato, Viktor aveva avuto a che fare con la Russia pre-rivoluzione del Buonsenso.

Un Paese che viveva nel culto della personalità del proprio presidente, in cui a giornalisti troppo curiosi e oppositori politici accadevano strani incidenti con il veleno, i Pride assomigliavano al massacro delle foche sulle coste della Namibia e un collettivo punk, di nome Pussy Riot, venne condannato a tre anni di reclusione e lavori forzati per “teppismo premeditato realizzato da un gruppo organizzato di persone motivate da odio o ostilità verso la religione o un gruppo sociale” a causa di una performance situazionista all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore, in cui nessuno si fece male se non le tre donne protagoniste del concerto improvvisato.  Viktor detto “Grob” (che vuol dire “bara” in russo), un vecchio punk di appena 50 anni, nato nell’orribile cittadina mineraria di Mončegorski in cui si estraeva e si lavorava il Nichel destinato al mondo interno, che era cresciuto ascoltando i gruppi imbrigliati dalla dittatura del proletariato, perseguitato dall’ossessione per il controllo della Russia patriarcale e capitalista e infine insterilito dall’attuale sistema del Buonsenso della Woland Corporation & Co.  eppure è lì, con la sua collana di denti e una bottiglia di vodka in mano che urla “Davai, davai, porco dio!”. Glielo abbiamo insegnato noi, sebbene le bestemmie non abbiano più molto senso nell’epoca della razionalità laica, in cui nessuno fa guerre in nome di un dio o di un’ideologia.

Nessuno opprime, schiaccia, stupra o si arma per invadere i confini e bombardare le città. 

 Abbiamo illuminato le nostre città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere ovunque, perché i nostri occhi servano solo ad ammirare quella sezione di tramonto inquadrata dalle finestre del nostro salotto. Non abbiamo bisogno di pregare o bestemmiare perché non esistono angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle. Nessuno abbandona auto, infrage vetri o taglia gomme. Non esistono vicoli bui in cui aver paura o ideali per cui immolarsi.  

Non abbiamo bisogno di un dio da ringraziare per il tramonto di questa sera. Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, perché in questo momento storico è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare. Abbiamo vissuto sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli. 

Non abbiamo bisogno di bestemmiare perché nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi. 

Nell’epoca del buonsenso non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico. 

Ed è grazie a Woland se non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede. 

Abbiamo dimenticato lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che finivano comunque sotto la terra, ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano. 

Ed è merito dell’algoritmo se, adesso, ciò che fa male è illegale. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco e misurare l’esistenza di dio, della sua parola noi non ne facciamo la nostra legge.

Eppure continuiamo a farlo. Preghiamo e bestemmiamo. Ci inventiamo rituali e cerimonie. Celebriamo ogni cosa che amiamo, malediciamo tutto il resto. Ed io, in questo momento solenne che precede ogni concerto, prego il fuoco affinché possa bruciare le mie bugie.

Mi chiamo Dorotea Disastro e vi chiedo di perdonarmi, se potete.


"Il grande rogo del '25" è un romanzo in progress scritto, letto e montato da .

Musiche di Heimat Der Katastrophe. 

La canzone iniziale e finale è un'interpretazione di "Lungo i binari del treno / По трамвайным рельсам" by Yanka Dyagileva cantata da me ai tempi dei "tour scemi" (cit.) in Russia insieme ai Kalashnikov Collective. Esperienza che, ovviamente, ha ispirato buona parte di questo romanzo.

Se volete sapere qualcosa di più sui "tour scemi in Russia" trovate tutto il reportage qui.
valeria disagio

13. Muori, muori mia adorata! | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Yeah, I’ll be seeing you in hell

1983, Die, die my darling, MISFITS

Seguimi in questo tunnel di rovi, di rampicanti e macerie dove i baci sono morsi che sbranano il dolore. 

2016, L’amore in tempi dispari, KALASHNIKOV COLLECTIVE

Il ginocchio di Fausto sfiorava il mio. Ed io ricambiai spingendo il mio, contro il suo con una maggiore pressione perché sapevo che ciò era sconsigliato e inappropriato. Pochi centimetri di pelle a contatto che parlavano un linguaggio che solo noi potevamo comprendere. Fausto abbassò il volto per nascondere un sorriso sconveniente. Ed io spinsi ancora più forte la mia gamba (ora, persino la coscia) contro la sua, perché era qualcosa che non avevo mai fatto prima e il mio corpo, in quei centimetri di pelle, esercitava un potere che io non avevo mai sperimentato. Come il mio ginocchio contro il suo, così i nostri corpi nudi sotto i palmi delle nostre mani e quei baci che assomigliavano a morsi, pronti a sbranare voracemente quella che era stata la mia, e la nostra vita, prima di quella notte , quella stessa vita che però si ERA FATTA strada, ostinata e inamovibile, insieme alla luce del giorno.  

Avevo già fatto sesso, certo, ne avevo fatto quanto basta, eppure stavo sperimentando la sensazione più erotica della mia vita, in quella pressione del mio ginocchio contro il suo, nella sala d’attesa dell’ufficio dell’assistente del signor Woland in persona e della sua squadra di lavoro. 

La nostra “presentazione” del progetto per la conquista del segmento di pubblico, che rifiutava di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma di musica digitale della Woland Corporation, aveva fatto parecchio rumore… nel vero senso del termine. Così tanto rumore da arrivare ai piani altissimi dell’edificio e, da lì a pochi istanti, avremmo dovuto parlarne direttamente con la squadra di lavoro che, non solo era a capo della delegazione di Milano, ma lavorava a stretto contatto e si relazionava direttamente, ogni giorno, con Michail “Huxley” Woland in persona. 

Avevamo ottenuto ciò a cui nemmeno i più alti livelli potevano ambire. Arrivare al nucleo, alla testa pensante dell’edificio dai vetri dei colori del cielo, era qualcosa che neanche Fausto aveva mai vissuto o sperato di poter vivere nell’intero arco della sua carriera. Ed era nervoso. Era eccitato, ancora. Ed io come lui, sebbene nell’ultima notte passata insieme non avessimo fatto nulla di eccezionale se non ubriacarci, ascoltare musica e fare sesso. 

Ma ciò che rendeva tutto così sconveniente, sbagliato ed “emotivo” era l’averlo fatto perché lo desideravamo e senza pensare alle conseguenze e ai vantaggi che bere, fare sesso, ascoltare musica e raccontarci i nostri più intimi pensieri, avrebbe generato nelle nostre vite a breve, medio o lungo termine. 

Non avevamo fatto foto e non avevamo immaginato le possibili reazioni delle nostre comunità elettriche. Fare sesso con un utente con il seguito che vantava Fausto, mi avrebbe portato ad un aumento di fedeli e seguaci, mi avrebbe catapultata nel mondo di quelli che la gente imita e assume a figura di riferimento e statistica. Documentare l’aver fatto sesso con lui, avrebbe aumentato il mio punteggio sociale, eppure non mi aveva minimamente sfiorato il pensiero di interrompere ciò che stavo vivendo per estrapolarne un istante ad uso e consumo del mio pubblico. Non avevo pensato a didascalie buffe e profonde da associare alla nostra esperienza comune. Non sentivo nessuna voce interiore che narrava il presente, immaginando poi come sarebbero suonate quelle parole nel report sociale quotidiano sul mio diario digitale. Avevo vissuto e basta… senza lasciare traccia. 

Me ne ero resa conto solo dopo aver riattivato il mio dispositivo occhio-orecchio, ed essermi accorta, che tanti mi avevano cercato non vedendo più la mia testimonianza di essere viva. Avevo mangiato e cosa? Avevo fatto esercizio fisico? Quanti chilometri o a quale frequenza cardiaca? Quante calorie o oggetti di cultura e intrattenimento avevo consumato? 

Uno scatto alla copertina e una serie di stellette per giudicare, con un semplice tocco delle dita, il lavoro di mesi o anni di un altro individuo. Avevo comprato dei vestiti o provato una nuova acconciatura grazie ad un simulatore virtuale? Non esisteva testimonianza del maglioncino nero abbinato alla camicia verde smeraldo che avevo indossato la mattina, guardandomi allo specchio. E i miei esami del sangue senza asterischi? Scatto. Esami del sangue con qualche infausta diagnosi? Scatto e foto-ritratto nel letto di ospedale. Perché senza la reazione di un pubblico, il fatto non sussiste. Perché da quando abbiamo rinunciato alle emozioni e le passioni, è solo l’approvazione o la contestazione degli altri a misurare la nostra gratificazione e miseria. Perché se non lo racconti, non lo hai vissuto. Se non lo fotografi non lo ricorderai. Se non lo comunichi, non lo senti. 

Eppure io avevo ascoltato Fausto per delle ore. I suoi ricordi, le sue emozioni, il suo vissuto di quell’epoca che ricordavo solo nei racconti epici, frammentari e distratti di quel fantasma dell’uomo che doveva essere stato un tempo mio padre. Ai tempi non sapevo neanche se fosse ancora vivo. Il mio genitore che non avevo mai chiamato papà…

Non avevo rapporti con i miei genitori da quasi sette anni. Da quando, compiuti i sedici, avevo abbandonato la casa in cui ero cresciuta e preso una stanza in dormitorio, secondo quanto stabilito dalla legge.   Sotto il regime del buonsenso nessuno è obbligato moralmente o legalmente a mantenere un rapporto con la coppia genitrice se, statisticamente, la relazione non rappresenta un vantaggio per tutte le parti coinvolte. Ma ciò non accade quasi mai e, come una malattia genetica, nonostante tutte le precauzioni di igiene pedagogica adottate, gli errori dei genitori si riversano sui figli che a loro volta contaminano di aspettative, bisogni puerili di affetto, affermazione, rivalsa e approvazione irrazionale ogni altro legame. 

Staccare il cordone ombelicale non ha mai avuto così tanta importanza come nell’epoca post-pandemica in cui fummo tutti costretti ad accettare che, per tornare alla vita, dovevamo liberarci della zavorra. 

Vecchi, malati, indigenti, disoccupati, tossici, disturbati, alienati, handicappati, depressi cronici, stupidi dal QI infimo… Senza di loro, spazzati via dal virus, dal rifiuto di vaccinarsi o dall’interruzione dell’erogazione di qualsiasi servizio sanitario e assistenziale statale, che troppo spesso si dava per scontato, venne rianimata un’economia attaccata ad un polmone artificiale che prometteva, senza alcun buon senso, il benessere di molti a discapito di tutti. Senza stolti, fragili e malati a pesare sulle spalle di noialtri sani studenti e lavoratori dalle eccellenti prestazioni, si vive decisamente meglio. 

Durante i miei studi universitari ho dato un esame di Storia del sentimentalismo con un focus sulla “disperazione”. Non mi fu difficile immedesimarmi in un mio coetaneo degli anni Venti, ma mi sembrava così assurdo che così pochi avessero preferito una razionale interruzione della propria vita, in nome di una non computabile speranza che qualcosa sarebbe cambiato nelle loro vite, migliorandole. Loro, di certo, non potevano sapere che Woland avrebbe rivoluzionato, salvandole, le nostre esistenze. 

Ma uno come Fausto, per esempio, che aveva studiato in una scuola pubblica in cui i docenti non insegnavano la storia più recente che andava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, passando per gli anni di piombo, per arrivare a tangentopoli – argomenti che la politica considerava divisivi – perché , buona parte di ciò che era accaduto in quegli anni, non aveva ancora una verità ufficiale (o pronunciata dai tribunali) che potesse essere raccontata. E allora ecco che la storia finiva con la vittoria della democrazia al referendum del ‘46 ed un breve cenno su chi, quella democrazia, l’aveva conquistata, costruita e rivendicata. 

Fausto poi aveva frequentato l’Università statale e cercato un impiego, rendendosi conto di essere in ogni caso scavalcato da chi, grazie ad un percorso accademico e formativo a pagamento, era più preparato per il mondo del lavoro, più inserito, più colto, più bravo a scrivere una lettera d’impiego e a sostenere un colloquio.

Fausto aveva passato i primi 10 anni dopo il diploma di laurea a collezionare contratti di lavoro precari, mal pagati e non specializzati, che gli avevano fatto dimenticare quel poco che aveva appreso durante gli studi. Era riuscito ad ottenere un contratto decente, che di anni ne aveva trenta e un ruolo decisionale solo a 35 anni. 

«E per voi donne era anche peggio» mi aveva detto quella notte, confermando il frutto dei miei studi per quella tesina sulla disperazione. «Attorno ai 30 anni, dopo oltre 10 anni che lavoravo e studiavo, mi è arrivata una lettera da quello che un tempo era l’ente provvidenziale, grazie alla quale appresi che avrei dovuto lavorare fino a 79 anni. Ed era stato così anche per Giulio, che lavorava con gli anziani non autosufficienti che al tempo venivano ancora tenuti in vita e c’era gente come lui, per l’appunto, che veniva impiegato per nutrirli, lavarli, farli andare persino in bagno» mi aveva raccontato.

«Era una strana epoca la vostra. Mi stai dicendo che il protocollo DEATH ( Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene) non veniva applicato?» avevo chiesto. 

 «Negli anni Venti, prima della pandemia, il protocollo DEATH era soltanto l’acronimo di Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene ed era uno strumento di misurazione per valutare la gravità dello stato di salute di un individuo e la sua autonomia nello svolgere le attività quotidiane. Non era come oggi, col sistema attuale, in cui se un individuo non è in grado di vestirsi, mangiare, camminare, andare in bagno e lavarsi in autonomia, allora viene eseguita la sentenza e quindi c’era bisogno di persone come Giulio che se ne occupavano e, se non fosse stato per Woland, l’aspettativa era quella che avrebbe dovuto farlo fino agli ottant’anni e badare così a suoi coetanei!» 

Follie democratiche che ci siamo lasciati alle spalle. Ora, disabili permanenti, malati terminali e anziani non autosufficienti vengono accompagnati con dolcezza, verso una morte liberatrice. Non ha alcun senso obbligare loro ad un’esistenza di sofferenze e umiliazioni, sovraccaricare di fastidi e imporre sacrifici alle famiglie e costi per lo Stato ed i contribuenti. Senza neanche bisogno di prelevare una singola goccia di sangue o materiale organico, inoltre, un potente programma di calcolo è in grado di individuare, facendo interagire tra loro le due sequenze di DNA di chi desidera un figlio, le  possibili malattie genetiche invalidanti o la tendenza a gravi patologie prima ancora del concepimento. 

«Assurdo! Vivevi in un’epoca priva di senso. E lo Stato? Come giustificava questa follia? Voglio dire, come poteva risultare credibile nell’emanare leggi che obbligavano una carcassa ambulante a dover prendersi cura, per lavoro, di altri soggetti inutili al benessere comune?» avevo chiesto, pur sapendo la risposta. Sapevo molto bene che, ai tempi, il mondo era in mano a uomini (soprattutto) e donne che avevano superato da tempo l’età del ritiro e che, avidamente (anche l’avidità era frutto del sentimentalismo dopotutto), partivano dal presupposto che la propria condizione di privilegio, come essere in buona salute, l’accessibilità all’assistenza e alle cure mediche, fare un lavoro intellettuale con la possibilità di delegare a schiere di schiavi ed assistenti, fosse applicabile ad ogni strato e classe della società. No, per loro non sarebbe stato un problema lavorare, in quelle condizioni, fino agli ottant’anni. E poco importava se non avevano formato degli eredi capaci di proseguire il loro lavoro, perché fintanto che fossero stati in vita, avrebbero costituito una minaccia e, una volta morti, non avrebbero avuto alcun interesse sulle sorti dell’azienda che gestivano, dell’ente di cui erano presidenti, della cattedra universitaria che occupavano, del ruolo amministrativo per cui erano stati eletti e così via. Egoisti e avidi che non vedevano al di là della propria ricchezza terrena da proteggere con tutto il potere che erano in grado di esercitare. 

La vera svolta della rivoluzione di Michail “Huxley” Woland fu quella di smascherare l’avidità liberale, in quanto frutto corrotto di un sentimentalismo irrazionale. Che le masse proletarie fossero manipolabili attraverso l’emotività su cui facevano leva i cosiddetti populisti non era una novità, ma che persino i vertici del mondo fossero messi su di un patibolo e svestiti delle proprie corazze, privati di quel potere abusante e distruttivo, liberati dalla gerarchia che li proteggeva indebolendo il tessuto sociale, era qualcosa che raramente si era visto prima; ad accezione delle grandi rivoluzioni che però erano partite dal basso e poi fallite per motivi, purtroppo, maledettamente emotivi e irrazionali.

L’epoca che aveva preceduto la pandemia era stata decisamente assurda e disperata. Di tutte le storie che mi aveva raccontato Fausto quella notte, l’unica sensata era stata quella di Wendy che aveva deciso di ammazzarsi.