…C’era una volta una brava scrittrice, Valeria Brignani, che esordisce con un bel romanzo, “Casseur”, e dopo cinque anni conclude il secondo romanzo. E allora? Se lo autoproduce: va in copisteria, paga il conto, vende il volume al prezzo politico di cinque euro, se lo promuove da sola. Con un book trailer sofisticato e incisivo, nulla di simile mai visto a Varese, che propone ad un pubblico rigorosamente under-30 le atmosfere del romnanzo. E al suo arrivo a Varese, lancia, con un banchetto, anche altre autoproduzioni di giovani intelligenti. Editori spiazzati (soprattutto quelli che pubblicano a pagamento), mondo culturale lasciato dietro anni luce, piccole nicchie parnasiane “te saludi”, come dicono nella vicina (e sbrigativa) metropoli…
Autore: Valeria Disagio
“Amor di libro è giovane” Varese News – 10 Giugno 2010
“-Ritorno all’ordine- per la scrittrice Valeria Brignani” Varese Report – 9 Giugno 2010
“Laveno, kermesse per giovani (e negligenti) lettori” Varese Report – 7 Giugno 2010
“Il collo di Henry Rollins” VivaMagazine – Giugno 2010
“Donne…”
“Sì, donne… maledette.”
“Te l’ho detto sono solo menate da donne. Tu non hai colpa, non doveva prendersela con te. Non bisogna assecondare i loro isterismi. Avrà bevuto troppo o forse le dovranno venire le mestruazioni…”
“Ma piangeva e urlava e quando è così non si può ragionare con lei. Non c’è discorso logico o razionale. Ci sono solo lacrime. Lacrime e accuse.”
Matteo è incazzato più che altro perché ha dovuto aspettare quaranta minuti in un cazzo di parcheggio gelido. Loro due a litigare chiusi in macchina e lui fuori dal locale che aveva chiuso. Una sigaretta dietro l’altra e una voglia incredibile di andare sotto le coperte. Quaranta minuti a vedere le loro sagome nella macchina che gesticolavano e urlavano e l’espressione impotente di lui. Impotente… così privo di potere che lei se ne andata lasciandoli a piedi in una zona industriale dispersa nella periferia di Milano.
“Lei fa così, si è incazzata e mi ha detto di scendere dalla macchina. Ha preso e se ne è andata… Ma vedrai che torna indietro.”
Tommy e Teo per non morire di freddo decidono di avviarsi a piedi verso casa. Casa: 44 chilometri di provinciali in piena notte. Tommy non vuole chiamare un taxi, è convinto che Elisa tornerà indietro. “Mica è così stronza… E’ arrabbiata, ok, ma non lo farebbe mai di lasciarmi a piedi a Milano in piena notte. Non penso potrebbe arrivare a tanto.”
Che Elisa sia una mega stronza, Teo lo pensa da anni, ma non dice un cazzo. Tommy è innamorato e ogni volta che ci ha provato è andata a finire che litigavano. Una volta Tommy è arrivato a spintonarlo e ad accusarlo di essere segretamente innamorato di lei.
Teo aveva riso e lo aveva mandato a fare in culo. “Tu sei completamente pazzo”.
Inutile dire che Elisa aveva gioito e goduto immensamente sapendo che alla fine li aveva separati. I due amichetti. Gli amici del cuore. Il trionfo finale era dovuto al fatto che la ragione della separazione fosse lei. Si sentiva una fottuta divinità. Tommy e Teo che si picchiano per me. L’estremo sacrificio, Tommy che manda a ‘fanculo Teo in suo onore.
Teo è burbero e orgoglioso, ma ha preferito chiedere scusa a Tommy piuttosto di darla vinta a lei. Elisa, la puttana. Da allora l’argomento “Elisa” è un tabù. O meglio Teo non può parlarne. Tommy invece non parla d’altro in quelle rarissime occasioni in cui riescono a stare un po’ soli. Lei è sempre in mezzo alle palle. Teo si limita ad annuire ad ogni stronzata e a catalizzare l’attenzione sulle tette, l’unica cosa di cui non si può parlare male di Elisa. Non è politicamente corretto guardare le tette della ragazza del proprio amico, ma è l’unico modo per passare una serata intera con lei, senza saltarle addosso e metterle le mani al collo.
“No, Tommy… amore… sai che il punk mi fa schifo non voglio andarci al concerto. Certo che ci puoi andare… fai quello che vuoi.”
“Sì, Tommy… ci puoi andare. Se preferisci andare con Teo al concerto piuttosto che stare con me… sei liberissimo di farlo.”
Palle. Mai fidarsi di una donna che dice “fai quello che vuoi”. Mai.
Dopo anni di litigi, hanno raggiunto un compromesso: il venerdì si va ai concerti che piacciono a Tommy, il sabato in centro, in qualche bar di merda a bere cocktail zuccherosi con le teste di cazzo abituali.
“Oh Tommy, sono così stanca… finito il concerto andiamo subito a fare nannina, eh?”
Il venerdì a casa a mezzanotte e mezza, massimo. Il sabato fino alle tre in centro a frantumarsi i coglioni e a ghiacciarsi le mani.
“Tommy, potresti essere più socievole con i miei amici. Sei sempre così burbero. Senti… te lo devo proprio dire… ma ai miei amici, Teo, non piace per niente. Deve uscire per forza con noi ogni sabato? Non ha una vita sua e che diamine! E poi mi fissa sempre le tette. Non mi guarda mai negli occhi quando parla… sempre con lo sguardo puntato qua.” E con le mani a conca si sfiora educatamente lo strumento del suo potere. Oh, sì. Quante cose ha ottenuto grazie alle tette.
Tommy e Teo camminano da mezz’ora e di Elisa non c’è traccia.
“Io credo che non tornerà indietro… Chiamiamo un taxi.”
“No aspettiamo ancora un po’.” Tommy continua a chiamare Elisa sul cellulare. Lei non risponde.
Tommy e Teo camminano ormai da un’ora. Tremano e il naso gocciola. Hanno poche sigarette e sanno che presto finiranno. Quando raggiungono un centro abitato e una grossa T di Tabacchi illumina la strada, esultano.
“Sigarette! Sigarette! Sia lode alle sigarette!”Davanti al distributore automatico, svuotano le tasche per racimolare più monete possibile e si comprano un pacchetto a testa.
“Riposiamoci un po’.” Si siedono su una panchina e tirano il fiato.
“Che cazzo di freddo.”
“Mi dispiace Teo, lo so che non ha giustificazioni, ma devi capirla. E’ stressata dal lavoro. Il suo capo è una testa di minchia. Lei poi, mi chiede sempre scusa. Quando fa ‘ste cose poi riga dritto per un po’.”
“Un po’?”
“Sì, lei si tiene sempre tutto dentro e poi ciclicamente crolla. Lei..ha dei… come dire… dei cedimenti nervosi. Poi il giorno dopo mi chiede sempre scusa. E’ mortificata. Piange e io non possa che perdonarla. Lei mi dice che senza di me non può vivere.”
“Lo sai come la penso, lo sai da anni. Io non voglio giudicare e non posso sapere quello che succede tra di voi. Nella vostra intimità. Ma il punto è che non si possono assecondare le loro menate. Te l’ho detto. Dovresti riprendere il controllo della situazione. Ho passato anch’io anni di sottomissione. Anni a cedere ai ricatti morali della Vale… e mi sono detto basta! Meglio solo. Sai… è come una sbronza di superalcolici scadenti. Bevi Whisky del discount tutta la sera e sei fuori di brutto. Ti diverti, fai minchiate e poi il giorno dopo stai che è uno schifo.”
“Stai dicendo che Elisa è una bottiglia di whisky economico?”
“No, sto dicendo che bisogna valutare su una bilancia se ne vale la pena. Se il divertimento e la sbronza “low-cost” giustificano il malessere del giorno dopo. E’ la stessa cosa dell’ecstasy.”
“Da quant’è che ti prendi le pastiglie?!?”
“L’ho fatto un paio di volte con la Vale. Era nel suo periodo -rave-. Non ti dico che merda. Nonostante l’ambiente orribile e la gente di merda che incontravo, mi sembrava di essere a Wonderland”
“L’ecstasy ti fa sentire come a casa di Micheal Jackson?”
“No…” Teo ride e così fa Tommy.
“E’ che ti senti veramente bene e vuoi bene a tutti e ti sembra che ci sia amore e armonia intorno a te. Il giorno dopo stai malissimo, sei depresso e hai la diarrea. Il punto è questo. Se da una parte metto:
-divertirmi in un posto in cui da sobrio non mi sarei divertito.
E dall’altra parte:
-Depressione, malessere e diarrea. Senza considerare i neuroni fottuti…
Ne vale la pena?”
“Direi di no”
Tommy e Teo ricominciano a camminare. Ormai la sbronza è scesa e comincia sentirsi la fatica. Il freddo entra nelle ossa e in giro non c’è un cane. Elisa ormai è a casa sotto le coperte. Dorme serena convinta di avere dato una lezione esemplare a Tommy. Non si ricorda neanche perché avevano cominciato a litigare. Succede sempre così.
“E’ una stronza… ma io non riesco mai a vincere con lei. Io non so come si fa… Io non so come si fa a vincere una battaglia con una donna.”
“Nessuno lo sa.”
Tommy e Teo camminano da un’ora e mezza. Una macchina si accosta. E’ la prima macchina che vedono da quando sono partiti.
“Ragazzi scusate, è da un’ora che giriamo alla ricerca di qualche cartello per l’autostrada. Sapete che direzione dobbiamo prendere?”
Nella macchina ci sono due ragazze. Sono vestite di nero e hanno i capelli ossigenati. Sembrano sorelle o al massimo cugine. Paola e Betty devono andare a Varese e si sono perse. Sono così esasperate, dai minuti interminabili passati a girare e girare a vuoto, che decidono di prendere in macchina due sconosciuti pur di venirne a capo.
Tommy e Teo, godono del calore della macchina e svaccati sul sedile posteriore si sentono benedetti.
“Siete due angeli. Vi paghiamo la benzina…”
“Ma cosa ci fate a piedi in piena notte in mezzo al nulla”
“Oh… guardate, lasciamo perdere. Anzi no. Siete donne e forse potete aiutarci. Vi prego…diteci come si fa a vincere con voi. Cosa deve fare un uomo per ottenere la vostra devozione e la vostra obbedienza?”
Betty ride e fa cenno di stare zitti. Alza il volume dell’autoradio. “Scusate ma questa mi piace troppo…”
Dalle casse esce la voce di Henry Rollins che urla “Rise Above”.
“Uuuuhhh… vi piacciono i Black Flag?”
“Shhhhh”
La canzone finisce e Betty riabbassa il volume.
“Ci piacciono i Black Flag e soprattutto ci piace Henry Rollins. E per rispondere alla tua domanda… Io mi farei sottomettere solo da lui. Solo da Henry Rollins. Diciamo che se dovessi incontrarlo, gli giurerei eterna devozione ed obbedienza.”
“Henry Rollins?”
“Sì cazzo… l’hai mai visto sul palco? Quell’uomo trasuda potere e testosterone. Hai mai visto il suo collo e le vene su quel collo grosso e taurino pompe di sangue quando urla nel microfono?”
“Sì, sì”. Conferma Paola. “Resa Totale di fronte al collo di Henry Rollins”
Tommy obbietta incerto… “Sì, ok… ma se uno non ha il collo di Henry Rollins cosa deve fare?”
“Il punto non è se uno ha, o meno, il collo di Henry Rollins. E’ che tu devi vivere come se ce l’avessi. We got that attitude. Non so se mi spiego.” Spiega Betty.
Paola si gira benevola verso Tommy. “E’ come dire chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Così è più chiaro?”
“I Capelli di Shane (Napalm Death)” VivaMagazine – Maggio 2010
Lo so che mi chiamano il Lino Banfi del Metal. Sono nato basso e robusto. Non ho certo l’aspetto vichingo e virile come gli eroi del Metal. Forse dire che sono robusto è un’inutile bugia: sono grasso. Dannatamente grasso. Colpa della mia mamma. Santa donna. E’ la più brava cuoca che esista sulla faccia della terra. Lei mi cucina tutte le cose che piacciono a me. Sta tutto il giorno a casa a cucinare e io sto con lei. Un po’ nella mia cameretta al pc e un po’ con lei ad aiutarla a piegare le molle. Ho trovato su internet il mio lavoro. Devo piegare molle che mi arrivano per posta e poi rispedirle. Cinque centesimi a pezzo. Sembra una miseria, ma io sono veloce anche se ho le mani cicciotte e le dita tozze. Mani che avrebbero impedito a chiunque di imparare a schiacciare i tasti con agilità sul manico. A tutti, ma non a me. Perché, nonostante le dita a wurstel, io ho dentro di me una forza incontenibile, che non mi fa demordere, il Metal scorre nelle mie vene e rende le mie mani grasse, veloci e spietate. Sono un bravo chitarrista. Ho caricato su YouTube dozzine di video in cui eseguo gli assoli più complicati della storia del Metal. Spero che prima o poi qualcuno mi scopra. I commenti sono quasi tutti positivi, mi fanno i complimenti per il mio chiodo. Alcuni mi dicono di tagliarmi i capelli. C’è da dire che nessuno mi avrebbe voluto in una band. Sono brutto. Ma non m’importa. Non ho amici, non ho mai baciato una ragazza. Conosco un sacco di gente e mi scambio lettere e mail con i frequentatori del forum sul Metal. Sono diventato addirittura l’amministratore. Il mio nickname è Ascia di Sangue. In quel forum… sono un’istituzione. Perché sarò pure un…come si dice… un nerd, ma quando si parla di metal nessuno può competere. Il Metal è la mia vita. Mi piace andare ai concerti. Ci vado sempre da solo. Quando le luci si spengono e viene illuminato solo il palco, la band inizia a suonare e io, in prima fila, col chiodo che mi ha cucito mia madre, sono felice. Le ho fatto vedere un po’ di foto e l’ho accompagnata ad un negozio di stoffe. Abbiamo comprato pelle sintetica e centinaia di borchie che abbiamo applicato con cura e pazienza insieme. Ce l’ho da quasi vent’anni il mio chiodo. E anche se è consumato sui gomiti e non riesco più a chiuderlo (ho messo su una pancia enorme. Troppe bibite zuccherose e gasate, dice la mia mamma.) rimane un pezzo unico. Rimane ciò che mi distingue dagli altri. Il mio chiodo è la mia storia. Il mio vanto. Il mio chiodo e i miei capelli. Lo so che mi prendono per il culo, ormai sto diventando pelato. Ho tutta la parte superiore della testa scoperta, ma non li ho mai tagliati. Mi arrivano fino al fondo schiena. Non mi dà fastidio che gli altri mi sfottano… io non taglierò mai i capelli e mosherò fino alla fine. Fino a quando non mi rimarranno due peli in testa, io continuerò a farli cresce e agitare la testa a tempo di musica durante i concerti. Il capello lungo è una condizione imprescindibile dell’essere Metal. I capelli lunghi e il chiodo. Come Shane dei Naplam Death. Non mi piacciono i Napalm Death. Io sono uno della vecchia scuola del metal, ma lui è un po’ come me. Stesa stazza e anche lui ha pochi capelli in testa. Mica se li taglia. Li tiene lunghi e ricci, separati da una riga in mezzo larga una decina di centimetri. Ha anche una vistosa piazza sul retro, ma a chi importa? Scommetto che lui ha un sacco di donne anche se è grasso e con una calvizia degenerativa. E’ il magico potere del Metal. Anch’io come lui un giorno verrò accettato dalle donne. Qualcuno vedrà i miei video su YouTube e capirà che sono un ottimo chitarrista. E’ successo ad un tizio del forum sul Metal. Era al pronto soccorso e ha conosciuto i membri di una band norvegese. Erano lì perché il batterista si era fatto male. Lui ha detto che suonava la batteria e loro lo hanno invitato a sostituirlo fino a quando il batterista non si fosse ripreso. Ci sono un sacco band tedesche che scelgono i musicisti in Italia. Nel nostro paese è difficile fare metal, perciò… se sei un buon chitarrista o vai a strimpellare due accordi di merda per Biagio Antonacci o emigri. Io spero che qualche band tedesca veda il mio video su YouTube e mi contatti. So che un giorno succederà.
“Tibe e Valeria, la letteratura a Varese suona bene” VareseNews – 9 Aprile 2010
“Amordilibro Giovani, al Santuccio la letteratura si fonde con la musica” VareseNews – 8 Aprile 2010
“Le braccia di Kim Gordon” VivaMag – Aprile 2010
“We’re off the streets now, And back on the road. On the riot trail”
Teenage Riot -Sonic Youth-
C’è stato un tempo in cui musica voleva dire vita. Mi chiamo Melina e ho 30 anni. I miei genitori mi hanno dato il nome di Melina Mercouri, che è stata attrice, cantante e ministro della Cultura nella Grecia democratica. E’ un nome importante. Peccato che la maggior parte delle persone che ho incontrato nella mia vita non avesse la minima idea di chi fosse Melina Mercouri. Melina. Piccola mela. Hanno iniziato all’asilo a prendermi per il culo. Durante l’adolescenza, il mio carattere introverso combinato ad una taglia di tette sotto la soglia della misurazione, hanno fatto di me una persona sola, triste e furiosa con il mondo. Guardavo le mie compagne e mi chiedevo che cosa ci fosse in me che non andava. Nello sguardo dei miei genitori preoccupati, nel ghigno dei cugini e nel rimprovero de nonni e degli zii. Io sono nata storta. Ciò che è certo è che non sono come voi. Io sono diversa da tutti. Ho vissuto i primi 16 anni della mia vita con questa deprimente convinzione. Così è stato fino a quando non ho conosciuto Nilde. I suoi genitori, per lei, avevano scelto il nome di una donna antifascista e comunista nell’Italia della Resistenza. Nilde e Melina. Quando ci siamo incontrate ho capito che non sarei più stata sola. Nilde era meravigliosa. Nilde per il mio compleanno mi regalò Daydream Nation dei Sonic Youth e niente fu come prima.
Ho incontrato Melina che era un disastro sotto ogni punto di vista. Credo di non peccare di superbia nel dire di averla salvata da un suicidio certo. Non sarebbe arrivata ai vent’anni. Ne sono sicura. Di lei, ho subito apprezzata quella sete, quella ricerca estenuante di qualcosa. L’inquietudine e il disagio come scelta di vita programmatica. Il mio merito è stato quello di introdurla nel meraviglioso mondo del rock’n’roll. Perché per quanto assurdo possa sembrare, la musica può salvare una vita. Così è stato per lei. Così è stato per me.
Nilde e Melina si vestono uguali. Nilde e Melina stanno sempre insieme. Nilde e Melina camminano per strada, coi loro anfibietti e le loro borse militari piene di scritte. Nilde e Melina cantano all’unisono e vivono in simbiosi. Nilde e Melina si scambiano i cd e si scambiano i vestiti. Non frequentano nessun altro. Nilde e Melina si completano e si bastano. Niente ragazzi, niente amici, solo loro e la musica.
Cara Nilde, a volte penso che se fossi un uomo potrei amarti.
Mia dolce Melina, niente potrà separarci.
C’è stato un tempo in cui musica voleva dire vita. Quel tempo è destino che finisca. Si arriva ad un punto della propria esistenza in cui le priorità mutano. Relazioni d’amore più o meno insane, incertezze lavorative, i genitori che invecchiano e i nonni che muoiono. Non so come succede, ma capita che la musica diventi solo un sottofondo della ansie e delle preoccupazioni di una vita vissuta con fretta e fastidio. Da quanto tempo Melina non entra in un negozio di dischi? Saranno anni.
Melina ha 30 anni, ha la macchina piena di borse e scatoloni. Piange. Dietro di sé ha lasciato l’ennesimo fallimento in fatto di relazioni amorose. Una casa in cui ha vissuto negli ultimi 2 anni. Un piccolo appartamento di 50 metri quadri che ha condiviso con un uomo che credeva fosse quello “giusto” e l’estenuante sforzo di essere quella che voleva che lui fosse. Fanculo. Per quanto lei si sforzi, non riesce a trovare quella sintonia che caratterizzava il suo rapporto con Nilde. Ha amato molti uomini ed è stata amata, ma quell’eterna insoddisfazione non l’abbandona mai. Arriva ad un punto che si sente come in gabbia. Cos’è che manca? Da quanto tempo non vede Nilde? Troppo tempo. Il loro rapporto si è esaurito in una serie di telefonate mensili in cui ci si lamenta della propria esistenza. Una sorta di rendiconto ciclico eseguito quasi per dovere. Un tempo si divertivano, cazzo. Un tempo ridevano. Cerca il cellulare nella sua borsa e compone il numero di Nilde.
Nilde, con la faccia incollata ad uno schermo della tv, svolge svogliata il suo lavoro: stira. Tutta la sua energia è impiegata a non saltare addosso al suo ragazzo che tira su col naso. E’ ossessionata da quel rumore. Perché non ti soffi il naso una buona volta cazzo? Non sopporta niente di lui. Ogni cosa la esaspera. Il modo in cui strascica le ciabatte quando cammina. Il rumore che fa mentre mangia. Il piccolo Samuele le tira il bordo della maglietta. “Mammamammamammamamma” Urla con tutto il fiato che quei piccoli polmoni possono contenere. Samuele è terrorizzato da una sedia in cameretta. “Ha gli occhi, mamma. La sedia mi guarda.” Nilde non ce la fa più, guarda il suo compagno che vaga tipo zombie per casa, grattandosi i coglioni con la mano nelle mutande. Ha bisogno di una pausa da se stessa. Una piccola vacanza dalla sua vita. Ma come fa con Samuele che strilla e il suo uomo che emette rumori fastidiosi? Non ha voglia di litigare. Prende su la borsa ed esce. Il cellulare… dove cazzo è il cellulare. Ha voglia di sentire Melina. Le cose da un po’ di tempo non vanno benissimo, ma la chiama lo stesso o presto esploderà. Il telefono suona. E’ lei.
Nilde e Melina scelgono come punto di ritrovo quel negozio di dischi in centro dove hanno passato interi pomeriggi in passato.
“Sto di merda”
“Idem”
“Cosa ci è successo? Perché siamo infelici?”
“Uomini, lavoro, figli, genitori, soldi… il solito, no?”
Melina si accende una sigaretta. Ride… “guarda…”
Un poster attaccato alla vetrina le informa che i Sonic Youth suonano la sera stessa.
“Cazzo, io devo tornare a casa c’è da mettere Samuele a letto”
“Merda, il biglietto costa troppo. Non posso spendere tutti quei soldi, devo fare mille cose e i miei ancora non lo sanno che ho rotto con lui. Questa volta avevo giurato che era la volta buona…”
Nilde e Melina si guardano.
“Fanculo. Andiamoci”
Nilde e Melina sono in macchina.
Nilde ha su la maglietta con cui ha dormito, è struccata… E’ uscita così di corsa che non si è neanche preoccupata di guardarsi allo specchio.
Melina ha pianto così tanto che il trucco le arriva alle guance. “Sembro una dark.” e ride.
Non vanno insieme ad un concerto da anni. Mangiano un panino al Mac Donald’s e comprano un cartone di vino spuzzo in un minimarket. Nilde e Melina si ubriacano di Tavernello fuori dal concerto. Quando Kim Gordon sale sul palco rimangono con la bocca aperta e spingono per conquistare le prime file. Fa caldo. Un caldo boia. Sudano e ballano. “Lo sai che ha cinquant’anni o giù di lì?” Kim Gordon danza roteando le braccia. Quelle braccia magre e nervose. Braccia che hanno tenuto in braccio figli. Braccia che da più di vent’anni suonano un basso. “Secondo me lei è felice, cioè… io credo che si possa anche essere madre e adulti ed essere felici. Cioè… dove sta scritto che le responsabilità e le preoccupazioni devono renderci sterili e passive?”
Nilde sbiascica, stanca e sbronza. “Quello che voglio dire è che forse non si dovrebbe mai abbandonare il rock’n’roll. Cioè… bisogna vivere da rockstar.”
Melina, guarda Nilde, la trascina da un gomito. “Sai cosa facciamo? Ora ci compriamo una maglietta del concerto come due adolescenti del cazzo”.
“Rock’n’Roooolll”
Valeria Brignani
VivaMag – Aprile#2010
“Gli zigomi di Diamanda Galas” VivaMagazine – Marzo 2010
Vivo da sola. Il Comune mi ha fatto uno sconto del 30% sulla tassa dei rifiuti. La mia spazzatura è la manifestazione fisica della mia solitudine. Faccio fatica a riempire un sacchetto alla settimana. La tengo per una quindicina di giorni sul balcone fino a quando non sono certa di riempire un intero sacco viola. I primi tempi portavo quel mega sacco riempito solo da una misera busta leggere. Il sacco vuoto mi metteva tristezza se affiancato a quelli dei miei vicini stracarichi e sul punto di esplodere. Mi sentivo come se non esistessi, il non produrre rifiuti come prova della mia inesistenza. Non produco scarti, non vivo. Bevo un caffè la mattina. Riempio di acqua una tazza, due cucchiai di zucchero e due di caffè. Un minuto nel microonde. Una crostatina e la mia colazione muore producendo una singola confezione di plastica di 7cm per 7. A mezzogiorno mangio un toast. Altre due pezzi di plastica che rivestono le sottilette. Bevo un bicchiere d’acqua del rubinetto. Un altro caffè e una sigaretta. A cena mangio una zuppa liofilizzata. Un’altra busta di tretrapack. Questa è la mia spazzatura. Vivo da sola e lavoro in casa, per vivere leggo i libri degli altri. Vivo attraverso le loro storie. Non esco mai di casa. Fumo. La mia spazzatura è arricchita da una quindicina di mozziconi al giorno più svariati grammi di cenere.
Produco poca spazzatura. Il comune mi fa lo sconto del 30% sulla tassa dei rifiuti. La domenica sento i miei vicini di casa mangiare. Sono una famiglia nel vero senso della parola. Un uomo una donna, due figli, due macchine una moto una bicicletta un mutuo e probabilmente le rate degli elettrodomestici. In estate mangiano sul balcone. Io li ascolto. Ascolto il tintinnare delle loro posate e i loro discorsi. Il padre che dice “passami il sale”. La mamma che taglia la carne al figlio più piccolo. Li vedo di raro, ma li conosco. Conosco i loro orari. Sento quando si lavano e quanto ci mettono. Quando escono per andare a lavorare e quando tornano. Sento quando litigano e perché sgridano i figli. Lui è uno fissato col ciclismo, vedo dalla mia finestra che ogni sabato pomeriggio esce con la sua tutina sintetica e torna dopo ore sudato. Sento che si lava. Sento che dice “che fai di buono stasera?” alla moglie. Sento la moglie che canticchi quando stira. Quando mangiano sul balcone, in quelle calde giornate d’estate, a me sembra di essere in campeggio. Quand’ero piccola andavo sempre in vacanza con la roulotte. All’ora di pranzo sentivi tutto il campeggio in silenzio. Sentivi solo il rumore delle posate. Finito il pranzo le donne nei lavatoi lavano i piatti che portano dentro a bacinelle di plastica colorate. Gli uomini leggono il giornale e si addormentano sotto gli eucalipti. I bambini fremono per andare in spiaggia. Le due ore che devono aspettare affinché la digestione faccia il suo sporco lavoro sono interminabili. Sono le più calde della giornata. Il sole, di quelle ore, dicono che sia nocivo. Era bello il campeggio. Mi piacerebbe andarci qualche volta, ma mi spaventa l’idea di vita in “comune”. Una piazzola non basta per creare privacy e i campeggiatori sembrano convinti che si debba per forza stringere amicizia con i vicini di roulotte. Per non parlare della zona tende. Tutti giovani, pieni di fumo che sperano di scopare o trovare altro fumo. Per carità… non è che mi diano fastidio. A me piace la gente. Mi piace osservarla. Ed è come guardare un film o leggere un libro. Considererei fantascientifico e arrogante il desiderio di prendere parte allo show. Io sono una spettatrice. Questo è il mio ruolo. Credo sia una cosa di vitale importanza capire quale sia il proprio ruolo. Conoscersi a fondo. Rispettare la propria natura. Ho passato 25 anni della mia esistenza a cercare il mio ruolo all’interno della società. Non l’ho trovato. L’unica costante era quella di sentirmi a disagio. Fuori luogo. A mio avviso la parola disagio viene usta troppe volte in modo negativo. Il disagio, dal mio punto di vista, dovrebbe essere una condizione imprescindibile del vivere. E’ l’unico modo saggio per stare al mondo. Non accettare lo status quo, non assecondare mai le situazioni. Porsi in modo critico e non adagiarsi mai. Non rispettare le regole di un gruppo. Se non c’è disagio, non c’è io. Sentirsi a proprio agio in un contesto sociale, vorrebbe dire perdere il proprio “io” per diventare un “noi”. Il “noi” non funziona quasi mai.
O almeno, con me non ha mai funzionato. Ne ero in un certo senso rassegnata, ma oggi mi sento così sola che non ho voglia di mangiare, lavarmi, vestirmi. Ho paura che se passerò l’ennesima giornata chiusa in casa (da quanti giorni non esco? Quattro? Cinque?) potrei impazzire. Oggi è Domenica e voglio farmi un bagno, vestirmi bene e mettere il profumo. Uscire di casa per andare non so dove. Una volta fuori dalla porta deciderò. Una volta chiusa a chiave la porta dietro di me, mi verrà sicuramente l’ispirazione. E così accade. Incontro la figlia grande del mio vicino che è tornata dalla messa. E’ insieme alla madre e solo per oggi, decido di fermarmi a scambiare due chiacchiere. Non so neanche come si faccia, ma la cosa risulta più facile del previsto. Io sorrido e annuisco e la signora parla per tutte e due. Ora, rimane da capire, come riuscire a farmi invitare a pranzo. Dopo mesi ad ascoltare il loro rumori dei pasti, mi piacerebbe prendere parte a quella scenetta. Sarebbe come entrare a far parte del proprio serial televisivo preferito. Se mi chiedesse dove vado di bello alle 12 di una domenica qualsiasi, potrei dirle che mi sono accorta di avere finito il pane per i toast e che cerco un supermercato aperto. Ma dopo tanto tempo a nascondermi e ad essere schiva penso che non oserebbe tanto. Per fortuna c’è la figlia e i suoi dodici anni. “Ma tu stai sempre a casa? Non ce l’hai una mamma e un papà?” La madre la rimprovera benevola, ma in fondo in fondo, si vede che è più curiosa della figlia e vorrebbe sentire la risposta. Sono figlia unica e i miei genitori il giorno dopo che sono andati in pensione, si sono trasferiti al sud. Li vedo due volte all’anno. “Abitano lontano. Qui non ho nessuno.” Solo dopo aver pronunciato al frase mi rendo conto di quanto possa suonare triste alle orecchie di una bambina. Ma anche di una madre, con marito, figli, suocere, fratelli, genitori, colleghi… Infatti, in mezzo agli occhi le si forma una profonda ruga di compassione. Per la prima volta le scruto il volto con attenzione. Distolgo lo sguardo dalla punta dei miei stivali, che fisso da diversi minuti, e osservo i suoi zigomi. Non li avevo, mai notati. Ha gli stessi zigomi di Diamanda Galas. Lo stesso mento puntuto. Quegli zigomi e quel mento che mi fanno compagnia da anni intanto che mangio. Ho un poster di Diamanda Galas sul muro sui cui è appoggiato il mio tavolo. Dopo mesi a mangiare con il vuoto di fronte a me, ho pensato di colmarlo con una faccia. Il volto di Diamanda Galas di fronte al mio intanto che mangio. Ogni tanto scambio due parole con lei. “Ho messo troppo sale nell’acqua” o cose del genere. O guardando il tiggì, se sento notizie aberranti, la invidio e le dico cose come “Beata te che non abiti in questo paese.” E lei mi guarda così eterea e così lontana dai fatti terreni. Credo che Diamanda non produca spazzatura. Ma in lei, non è tristezza, è divinità.
Valeria Brignani