To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

To the heroism of the Resistance Fighters… parliamo dei VISITORS!

[Articolo originale qui]

«Mio caro giovane amico» disse Mustafà Mond «la civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà o eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata come la nostra nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed eroico. Bisogna che le condizioni diventino profondamente instabili prima che l’occasione possa presentarsi. Dove ci sono guerre, dove ci sono giuramenti di fedeltà condivisi, dove ci sono tentazioni a cui resistere, oggetti d’amore per i quali combattere o da difendere, là certo la nobiltà e l’eroismo hanno un peso…» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

La verità ha il suono di uno schiaffo e si presenta come pelle verde e squamosa, sotto un travestimento ben riuscito. Il ricordo comune è quello di un segreto difficile da mandar giù, come ratti ingoiati ancora vivi e scalpitanti, dalla bella e spietata Diana e il suo make-up da top model. Un ricordo indelebile: quel volto sfregiato che svela un orribile rettile, con gli occhi rossi e le pupille a fessura. Per chi è stato bambino nei primi anni Ottanta, quello dei Visitors, è un incubo pop difficile da dimenticare. Ma è stato proprio il desiderio di esorcizzare quella paura infantile e/o la ricerca di una manciata di ore di puro intrattenimento trash e nostalgico, che hanno creato un’occasione di riflessione inaspettata. Tutto inizia con un reporter d’assalto che racconta una guerra. Una battaglia combattuta con armi convenzionali a cui siamo abituati: bombe, fucili, proiettili ed elicotteri militari. Ci sono vittime e ci sono carnefici. I due schieramenti sono ben evidenti. Ed è proprio lì, in tutto il suo mistico orrore, che si presenta per la prima volta l’immensa navicella spaziale dei visitatori. La prima di tante che andranno a proiettare un’ombra minacciosa sulle principali città del mondo. Eppure i Visitatori sono venuti in pace. La loro voce è fredda e metallica, ma parlano la nostra lingua. Parlano a noi. Uno per uno. In ogni angolo della Terra risuona il conto alla rovescia, verso l’alba di una nuova era o verso l’ultima alba che vedremo, pigola spaventata la tipica teenager americana che “non vuole morire senza averlo mai fatto”.Gli alieni hanno scelto nomi “terrestri” perché i loro sono troppo complicati da comprendere e memorizzare. Solo nomi di battesimo, semplici e comuni, senza cognome e senza titolo. Sono John, Peter e Diana. Come il nostro vicino di casa o il collega con cui ci si fuma una sigaretta prima di un turno in fabbrica. I Visitatori sono venuti da noi a causa del sovraffollamento del loro pianeta di origine.

Come può l’umanità far fronte al problema del rapido incremento demografico? Non molto bene. I fatti dimostrano che in quasi tutti i paesi sottosviluppati la sorte dell’individuo medio è considerevolmente peggiorata nell’ultimo mezzo secolo. La gente si nutre peggio. È diminuita la quantità di beni pro capite. E in pratica ogni tentativo di migliorare la situazione è andato a vuoto, per la pressione continua dell’incremento demografico. Ogni qual volta si fa precaria la vita economica d’una nazione, il governo centrale è costretto ad assumersi nuove responsabilità, per il benessere generale. Deve elaborare nuovi programmi per far fronte alla situazione critica; deve imporre nuove restrizioni alle attività dei soggetti; e se, come probabile, dal peggioramento delle condizioni economiche consegue agitazione politica, o ribellione aperta, il governo centrale deve intervenire, a tutela dell’ordine pubblico e della propria autorità. Ritorno Al Nuovo Mondo (Brave New World Revisited) Aldous Huxley, 1958

Le risorse del loro pianeta si stanno esaurendo, al contrario della Terra che ne è ricca. Scopriremo ben presto che quelle “risorse” non sono altro che acqua e carne. Siamo nel 1984 e risulta piuttosto inquietante – una sorta di oscuro presagio – il fatto che a distanza di trent’anni esatti, nella realtà, carne ed acqua siano effettivamente diventate delle emergenze ambientali e sociali. I Visitatori vogliono prosciugare le risorse idriche della Terra ed “importare” il bestiame, cioè l’uomo, per nutrirsene. Esaurite le risorse della Terra, invaderanno un altro pianeta. E così via… perché nonostante abbiano la consapevolezza che il loro tenore di vita sia ingestibile, distruttivo e parassitario, preferiscono aggredire, schiacciare e sfruttare l’”altro” piuttosto che rimettere in discussione loro stessi. 

 La Storia ha però insegnato – a questi grossi rettili antropomorfi – che nell’epoca moderna una guerra manifesta non è quasi mai la scelta migliore. Le guerre sono lunghe, costose e fiaccano gli animi dei cittadini già inquiete per la crisi. Il modo migliore per ottenere ciò che vogliono, è fare in modo che siano gli stessi uomini – l’anello debole del sistema Universo – a fabbricare le catene della propria schiavitù. Abbiamo detto che i Visitatori parlano la stessa lingua dei terrestri ed infatti promettono loro soldi, lavoro ed una cura per il cancro. In cambio prendono in gestione le fabbriche della Terra, scelgono una schiera di giornalisti come portavoce ed istituiscono il club de “Gli amici dei Visitatori”, una falange paramilitare a metà strada tra i Boy-Scout e la Gioventù Hitleriana. 

Hanno quattro dita e un pollice, condividiamo lo stesso percorso evolutivo, dice l’antropologo che comincia a farsi troppe domande sui Visitatori. L’uomo ha notato che hanno la pelle fredda, non mangiano cibo cotto, non vengono punti dalle zanzare e al loro passaggio fanno innervosire gli animali.Sembrano come noi, ma sono diversi. La loro è soltanto una maschera rassicurante,denuncia la biologa che raccoglie un campione della loro pelle “umana”… Spariranno nel nulla. Dall’oggi al domani. Prima nelle università, poi nei laboratori di ricerca ed infine persino i medici negli ospedali. Li prendono uno ad uno. Loro e la loro sconveniente predisposizione a farsi domande. Ma devono farlo  senza destare dissensi, perché il popolo deve continuare ad amarli. I Visitatori hanno bisogno di essere legittimati anche in ambito affettivo. E non c’è nulla come mostrare la propria debolezza per giustificare una presa di posizione autoritaria o un’aggressione violenta. Perché se ci sono delle vittime, ci sono dei cattivi. I giornalisti di regime urlano ai quattro venti che una fantomatica congiura degli scienziati minaccia la stabilità e la pace. Gli scienziati fanno diventare tristi i nostri amici Visitatori! I Visitatori sono buoni! Portano lavoro e portano progresso!Ingrati! Ecco così che gli uomini di scienza diventano detestabili e sconvenienti dal punto di vista sociale. Sono terroristi. Vanno segnalati e tenuti sotto controllo. Non vanno invitati alle feste. Vanno allontanati e disprezzati persino i parenti più stretti o i vicini di casa.

«Ogni cambiamento è una minaccia alla stabilità. Questa è un’altra ragione per cui siamo poco disposti a utilizzare nuove invenzioni. Ogni scoperta nel campo della scienza pura è sovversiva in potenza; anche la scienza deve essere trattata come un possibile nemico. Sì, anche la scienza.» Il Mondo Nuovo (Brave New World), Aldous Huxley, 1932

È come nel ’38 a Berlino, dice il sopravvissuto all’Olocausto che ospita una famiglia di scienziati fuggiaschi. Li nasconde agli occhi di quel nipote buono a nulla, membro de “Gli amici dei visitatori”. Il ragazzo ha aderito in cambio di armi, una divisa e quel poco di potere, che usa per cercare di far sua la figlia vergine dello scienziato. Al rifiuto di lei segue la vendetta: la famiglia viene denunciata e deportata. Le guardie però, troveranno soltanto il vecchio con la kippah sul capo che intona un canto sacro. 

Insieme alla repressione, arriva la propaganda. Grandi manifesti che tappezzano le strade e che ritraggono i Visitatorisorridenti nelle loro divise ed una grossa scritta “OUR FRIENDS”. Faccio solo il mio lavoro, si difende la giornalista che fa da eco al volere degli invasori. Ho sentito questa frase decine e decine di volte durante il processo di Norimberga, la accusa un collega.E poi c’è la resistenza. Disorganizzata, raffazzonata e per nulla incisiva, ma c’è… e ha il volto di una vecchia che scaglia una molotov nella navicella del nemico. Ha il volto di una giovane leader pasionaria che deve decidere, minuto per minuto, quali saranno le sue azioni. Nessuno le ha spiegato come si fa… eppure lei prende il comando e guida la rivolta. Ed è in questa – qualcuno direbbe – epica ed eroica battaglia che scopriamo però quanta paura, quanta vigliaccheria e quante morti inutili può portare con sé la lotta all’oppressore. Persino in un telefilm degli anni Ottanta! Nessuno dei membri della resistenza è convinto di fare la cosa giusta. Nessuno si sente un eroe o parte di qualcosa di epico. La paura è tale da spingere uomini forti ed intelligenti ad atti vili e codardi. Nessuno ha la certezza che le proprie azioni, il proprio sacrificio o il correre dei rischi, avranno poi un’effettiva ripercussione positiva per la lotta… eppure vanno avanti, spinti da qualcosa che è difficile spiegare…

Viene per esempio, spontaneo chiedersi quanto “eroica” possa sentirsi quella giovane e bella ragazza, nel momento in cui sacrifica il proprio corpo e la propria sessualità, per estorcere informazioni sensibili al nemico reso vulnerabile a affabile durante il post-coitum. O quanta nobiltà ci sia nella crudele – ma utile – morte dell’anziana signora che viene uccisa come un cane in uno scantinato, durante un’azione di sabotaggio. Come c’è ben poco di poetico nel “terrorista di professione” che porta disciplina e tecnica, a quella che era una manciata di uomini e donne disperati. Eppure ogni singolo atto, nella sua confusione o nella sua miseria apparente, porterà gli uomini alla vittoria e alla libertà. Così, come tanti puntini collegati tra loro che conducono ad un disegno più ampio. Un disegno che il singolo individuo forse, non può comprendere nella sua interezza.E c’è quella frase… all’inizio di ogni puntata: 

All’eroismo dei combattenti della resistenza – passata, presente e futura – dedichiamo con rispetto questo lavoro. 

E quella V, rossa, dipinta con la vernice spray. La “V” della vittoria degli uomini liberi.

Morte ai lucertoloni!

Circa i fatti di Parma nella sede della RAF: come riparare 4 crepe prima che qualcosa si rompa per sempre.

Circa i fatti di Parma nella sede della RAF: come riparare 4 crepe prima che qualcosa si rompa per sempre.

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Nel settembre del 2010 in via Testi a Parma un numero imprecisato di individui (da 4 a 6) ha preso parte attivamente e/o come spettatore ad uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza, che da poco aveva compiuto diciotto anni.

La violenza è avvenuta su un soggetto totalmente incosciente, condizione che pare impossibile possa essere stata causata soltanto dal (poco) vino che lei ricorda di aver bevuto. Al momento dello stupro era incapace di dare il suo consenso o di opporre resistenza fisica o verbale. Lo sappiamo perché i suoi stupratori hanno ripreso la scena con un cellulare. Quello che si vede in quel video non lascia alcun dubbio in merito alla natura della violenza di cui sono colpevoli. Colpa, già di per sé terribile, aggravata dalla volontà di infierire attraverso la penetrazione coatta di un fumogeno.

Non avremmo voluto entrare così nel dettaglio; questo elemento tuttavia è importante dal momento che quell’oggetto, o meglio, la parola con cui viene identificato –fumogeno-nei mesi successivi allo stupro è diventato il nomignolo dispregiativo con cui la vittima è stata chiamata. La ragazza del fumogeno non poteva davvero immaginare che i fatti di quella notte, mai denunciati per paura, vergogna o per incolmabile voglia di buttar tutto alle spalle e dimenticare; fossero diventati un fenomeno “virale”.

Quel video è stato visto da decine e decine di persone, guardato e riguardato fino a farlo diventare il simbolo della loro prevaricazione e della sua umiliazione, un osceno spettacolino di cui ridere o vantarsi.

E fin qui tutto male. Anzi malissimo… Eppure il peggio deve ancora arrivare, perché in via Testi a Parma non c’era un pub, una discoteca o un’abitazione privata e neanche un bosco oscuro e minaccioso o un vicolo buio e degradato di un quartiere pericoloso. In via Testi c’era un edificio come ce ne sono tanti nel nostro Paese. Quei blocchi tutti uguali che si confondono uno con l’altro… questo era diverso perché in quel blocco banale di cemento armato c’era la sede della RAF (la Rete Antifascista di Parma) ed i soggetti coinvolti in questa storia di orrore e violenza sono uomini e donne che appartenevano o frequentavano la RAF.

E qui qualcosa si rompe.

PRIMA CREPA

Siamo convinti che il fascismo non sia un’esclusiva della Storia identificabile nel ventennio del regime in Italia. Crediamo anche che i fascisti non siano soltanto i nostalgici di quell’epoca, perché il fascismo non è solo un partito, un regime del passato o una fazione politica a cui unirsi o contro cui lottare. Il fascismo è prima di tutto un’attitudine, un modo di pensare, agire, lottare e odiare. È fascista chiunque usi la propria forza per normalizzare e uniformare le diversità e opprimere le minoranze. È fascista chiunque usi la debolezza altrui per imporre con la violenza la propria volontà. È fascista chi discrimina in base alla sessualità, il genere, il corpo, la spiritualità, la religione, la specie o l’età.

Non possiamo oggi parlare di antifascismo senza condannare ogni sessismo o specismo, perché la lotta per la liberazione della donna e dell’uomo è una guerra per la libertà in difesa degli oppressi, degli animali e della Terra. Una guerra contro la disperazione, l’ignoranza e il potere che opprime.

Uno stupro è sempre e comunque un atto fascista, anche se chi lo commette si dichiara antifascista.

L’antifascismo non è soltanto un coro da urlare in “curva” o una toppa da cucire sul bomber. Essere antifascista è pensare e agire antifascista.

Chiunque stupra è un fascista e noi lo combattiamo in quanto fascista e stupratore.

Chiunque respira, si muove e parla dalla nostra parte della barricata, che si permette di avere atteggiamenti fascisti verrà combattuto in quanto fascista e stupido vacuo pezzo di merda.  

E nei giorni, settimane, mesi successivi alla violenza? La ragazza non denuncia alla polizia, non parla con nessuno; il video continua a girare, tutti lo guardano eppure nessuno VEDE la violenza. Gli uomini attorno a quel tavolo sui cui giaceva inerme la ragazza continuano a frequentare cortei, concerti, spazi occupati e autogestiti… E ridono, parlano, bevono birre, escono con ragazze, stringono nuove amicizie; nonostante giri un video in cui “fanno sesso” con una donna che sembra morta. Non pensano sia sbagliato e nessuno glielo fa capire. La ragazza non ha chiari ricordi, ma sa che quel gruppo di persone le ha fatto qualcosa di brutto, qualcosa che ha percepito come una violenza,e vuole sapere il perché di quel nome, vuole sapere perché i “compagni” di Parma (e non solo) la chiamano Fumogeno. È un amico a dirglielo, un amico che le dice: «è per quel video che gira, per quello che è successo quella notte…»

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SECONDA CREPA

Se una donna o un uomo percepiscono un atteggiamento come fastidioso o violento è una molestia.

Se una donna o un uomo sono palesemente alterati perché sotto l’effetto di alcol o droghe non possono dare un consenso. Senza consenso è stupro.

Può capitare di sentirsi degradati o violati dopo un rapporto sessuale, anche se inizialmente abbiamo dato il consenso. Non sapere cogliere o ignorare i segnali del malessere altrui è violenza.

Se una donna prova piacere durante un rapporto sessuale, lo esplicita. La totale passività a volte è sintomo di un malessere che non riesce ad essere espresso. Il silenzio non equivale ad un consenso. Senza consenso è stupro.

Riprendere un rapporto sessuale senza consenso è violenza. Diffondere un video girato durante un rapporto sessuale (e a maggior ragione uno stupro) senza il consenso dei soggetti coinvolti è violenza.

E non importa se in altre situazioni abbiamo dato il consenso per rapporti di natura intima, sessuale o sentimentale. La violenza troppo spesso avviene all’interno di mura: muri domestici, muri di relazione e muri di appartenenza ad un gruppo sociale e ciò non la rende meno grave. Così come la moralità (intima e politica) di una donna non deve costituire un attenuante al sopruso di un uomo. Se non diamo il consenso e percepiamo una parola, un atteggiamento o un rapporto come degradante o violento è stupro.

E questo dovrebbe essere scontato per chi si dichiara antifascista e quindi anti-sessista.

Chiunque non comprenda questo e non distingua la differenza tra una donna che gode e gioca ed una donna che subisce una violenza, verrà combattuto in quanto fascista, maschilista e orribile vacuo pezzo di merda.

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Lo stupro – ridotto ad un ridicolo spettacolo ad uso della miseria umana di uomini e donne a cui mancano non solo le basi teoriche, ma anche semplicemente il cuore e la testa di capire – sarebbe così rimasto impunito. Un peso schifoso ad esclusiva della vittima, che nel frattempo crolla emotivamente e viene travolta da una spirale di autolesionismo e disperata ricerca di affetto e calore; una spirale verso il basso, fatta di scelte sbagliate, di relazioni tossiche e merda intuibile e/o prevedibile anche senza bisogno di cercare su Google “disturbo post-traumatico da stress dopo una violenza sessuale”. Lei, sola, in balìa dei suoi demoni // gli altri, gli stupratori (e spettatori dell’orrore), in mezzo a noi.

Ma nell’agosto del 2013 un ordigno rudimentale scoppia a pochi passi dalla sede di Casa Pound a Parma e partono delle indagini che come prevedibile, vanno a colpire il movimento anti-fascista e anarchico parmense e delle zone limitrofe.

C’è chi dice che sia stata una soffiata, c’è chi dice sia stata proprio Casa Pound a fare la segnalazione o forse è stato il normale iter delle indagini. Poco importa il come, ciò che conta è il fatto che gli inquirenti sono venuti in possesso di quel video – che gli stupratori avevano realizzato e diffuso – e di un nominativo: il nome e il cognome di colei che troppi hanno chiamato la ragazza fumogeno.

Sola, con i suoi demoni, e un numero imprecisato di carabinieri che le fanno domande per ore e ore. Le chiedono quali sono i suoi rapporti con quel gruppo di uomini e donne che si trovano nella sede della RAF, le chiedono se li frequenta, se sono suoi amici, se sono suoi compagni.

No, non li frequenta.

Perché non li frequenta? Ha forse litigato? Le hanno fatto qualcosa? E lei ci è mai stata in via Testi? E cose le è successo in via Testi? Poi tirano fuori il video e glielo mostrano. E ancora domande. È lei nel video? Chi c’erano quella notte in via Testi? Iniziano a fare dei nomi. Lui c’era? E questo? Sicura che non ci fosse anche quest’altro? Alcuni sono stati identificati nel video. Si sentono delle voci. Di chi sono quelle voci?

Dopo ore interminabili vengono fuori i nomi di persone che lei ricorda nella sede della RAF il giorno dello stupro. E quanti… quanti di noi sarebbero realmente in grado, al di là delle nostre saldissime convinzioni, di reggere?

TERZA CREPA

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Chiunque si dichiari “anarchico” dovrebbe rifiutare lo Stato, le sue Istituzioni e disconoscere la giustizia dei tribunali perché legale non equivale a giusto. Gli anarchici, quindi, non dovrebbero cercare di correggere i torti subìti rivolgendosi a chi le leggi le fa, le impone e punisce chi non le rispetta. Questo perché l’anarchia è auto-organizzazione ed auto-gestione, con il fine supremo del bene comune che dovrebbe superare l’interesse individuale.

Ma se per mantenere e garantire il bene di un gruppo, bisogna schiacciare altri individui, mettere a tacere il malessere e voltare le spalle agli ideali? Possiamo ancora definirci anarchici?

Se rifiutiamo quella legge sorda e cieca che viene imposta dall’alto e punisce chi non obbedisce, possiamo replicarne il modello imponendo la sterilità della teoria, a discapito dell’imperfezione dell’empatia, del buonsenso e dell’umanità?

Chi parla con la polizia è un infame e nei nostri posti non ci deve mettere piede”

E allora chiediamoci perché i primi a VEDERE la violenza in quel video, che tanti compagni e compagne anarchiche avevano guardato, sono stati carabinieri e magistrati. Perché una ragazza che ha subìto una tale violenza si è trovata sola e impreparata “in mano” alle forze armate, addestrate e formate per gestire queste situazioni a loro vantaggio? Dove siamo state in quei tre anni che vanno dallo stupro al giorno in cui due pattuglie sono andate a cercare la ragazza a casa della sua famiglia?Perché al posto di diffondere il video, umiliarla, organizzare assemblee CON gli stupratori non è stato fatto muro attorno alla ragazza? Perché per salvare il gruppo si è deciso di abbandonare chi davvero aveva bisogno?

“Le persone fragili indeboliscono il movimento perché possono essere manipolate da sbirri e fasci”.

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Crediamo invece che il movimento sia debole se non è in grado di accogliere e proteggere i deboli e gli oppressi. Crediamo che il movimento si indebolisca se si arrocca su teorie di purezza e integrità, senza essere capace di accogliere (e formare e informare) anche chi non obbedisce alle Sacre Scritture del rivoluzionario perfetto. Siamo fermamente convinte che non sia questo il momento di fare un processo all’integrità politica di chi ha subìto la violenza degli stupratori (prima) e dello Stato (poi), perché il suo agire non può far passare in secondo piano la condanna dello stupro e della violenza sessista perpetuata da chi si dichiara compagno, anarchico e antifascista. Se dobbiamo fare un processo politico allora facciamolo anche a chi ha stuprato e condiviso quel video, a chi l’ha chiamata fumogeno e facciamolo soprattutto a noi stessi. Noi per prime dovremmo metterci sul banco degli accusati e chiederci che cazzo avevamo in testa quando non abbiamo voluto prendere posizione perché “è stata violentata, MA…”

Durante quell’interrogatorio avvenuto anni dopo lo stupro, è stata redatta dai Carabinieri una deposizione, firmata dalla ragazza, con i nomi di chi lei si ricordava quella sera in via Testi. Tra questi nomi è stata tirata in causa una persona che ha dichiarato di essere all’estero all’epoca dei fatti e che poi è stata prosciolta dallo Stato. Degli altri nominati e convocati dalle Forze Armate come persone informate sui fatti, 4 uomini sono poi stati accusati e ora a processo (di cui uno all’estero che risulta irreperibile), perché identificabili nel video.

Ricordiamoci che stiamo parlando di una persona che non ha mai denunciato e non aveva nessuna intenzione di farlo, ma che si è trovata a doversi costituire parte civile di un processo per reato di stupro di gruppo. Non per un atto politico, non per un’azione del movimento, ma per violenza carnale con una manciata di aggravanti dal momento in cui era priva di sensi quando è avvenuta. A cui si aggiungono quattro persone accusate di favoreggiamento che, secondo gli inquirenti, hanno mentito per coprire gli stupratori o minacciato la vittima per indurla a negare la violenza subìta. Sono innumerevoli i messaggi di minacce e di insulti sessisti con cui è stata bombardata da quando sono partite le denunce. Troppe sono state le occasioni in cui è stata cacciata con violenza, senza la possibilità di essere ascoltata, da spazi occupati e autogestiti.

Per quanto si possa reputare grave il fatto di trovarsi “collusa” con la giustizia, non crediamo che la sua debolezza sia tanto grave da giustificare quello che è stato fatto nei suoi confronti. Per “vendicare” chi era stato convocato dalle Forze Armate o proteggere gli stupratori, infatti, è stata messa in moto una macchina spietata che si è alimentata di voci assurde, minacce e persino aggressioni fisiche nei suoi confronti.Nel darle dell’infame, nel trattarla da infame, è passato il messaggio che è più grave denunciare uno stupro che stuprare. Che sebbene lo stupro fosse avvenuto all’interno di uno spazio politico, risultava difficile prendere posizione perché lei ha fatto questo, detto quello e perché lei è… E noi non crediamo che chi la condanna per aver parlato con le Forze Armate, voglia questo. Speriamo vivamente che il movimento sia abbastanza maturo e lucido per distinguere le due cose e contestualizzare i fatti. Condannare la violenza senza se e senza ma e poi, in un’altra sede e coi giusti modi*, riflettere sul perché si siano creati i presupposti di ciò che è successo.

*I GIUSTI MODI: quanti di noi le hanno scritto o chiesto la sua versione? Quanti di noi l’hanno minacciata con messaggi anonimi o su Facebook per poi bloccarla e non darle la possibilità di parlare? Quanti di noi hanno diffuso le “voci” messe in circolo dagli accusati senza mettere in discussione la fonte? Quanti di noi hanno reputato più grave la presunta infamia di uno stupro? Quanti di noi attaccano la Giustizia dei tribunali per poi formulare le proprio accuse con le loro carte e i loro metodi? Quanti hanno chiesto di vedere il video perché “altrimenti non ci crediamo”? Ed è così che pensiamo di gestire la nostra giustizia all’interno degli spazi?

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QUARTA CREPA

Alla base dell’antisessismo ci dovrebbe essere la forza di condannare qualsiasi forma di violenza ai danni delle donne in quanto donne. Ciò non significa difendere una donna per partito preso, ma condannare ogni stupro anche se fatto da “compagni”, amici o uomini che amiamo. Anche ai danni di una donna che reputiamo esecrabile, meschina o nemica. Anche se ci ha fatto del male. Una femminista non insulta un’altra donna per il suo aspetto fisico, per le sue preferenze sessuali o per i suoi appetiti erotici. Una femminista non usa espressioni violente e maschiliste ai danni di un’altra donna. Per quanto siano nobili le motivazioni, la violenza sessista (fisica e verbale) è per noi condannabile, inaccettabile e ci batteremo duramente contro di essa. 

Concludiamo.

Se anarchici vogliamo creare una socialità-altra all’interno dei nostri spazi libertari, rivendichiamo le nostre idee e i nostri corpi, rifiutiamo il ruolo delle istituzioni in ogni sua forma, combattiamo il braccio armato dello stato, tanto da chiamare lucidamente infame colui che denuncia un compagno; non possiamo che chiederci ora cosa abbiamo fatto negli anni in cui avremmo dovuto cercare le modalità di tutelare una vittima, coscienti del nostro ruolo, prima della macchina giudiziaria, prima della meraviglia di fronte al crollo emotivo di una donna. Sei anni di silenzio.

Eppure sapevamo bene che l’omertà è da sempre fedele compagna della violenza maschile.

Come possiamo definire libertario un luogo in cui può avvenire una violenza tanto grave da essere definita stupro, anarchico colui che perpetua atteggiamenti che condanniamo nella società patriarcale, fascista, omertosa e violenta?Come possiamo oggi definire questi spazi liberati e noi liberi?

Ciò che è accaduto a lei poteva succedere ad ognuna di noi. Messa da parte la teoria astratta, la marzialità di un codice e il superomismo celodurista che preferiamo lasciare a predicatori, soldati e bulli, non possiamo che essere orgogliose di lei e della sua forza, oggi, perché ciò che ha vissuto avrebbe forse annientato molte di noi. Quell’incredibile forza che sta dimostrando nel voler rivendicare il diritto a frequentare i nostri spazi e il suo coraggio davanti all’oscenità perpetuata nell’aula di Tribunale, dove si ritrova – davanti agli occhi dei suoi stupratori – a rivivere ogni istante, ogni sensazione, ogni ricordo legato a quella notte e alla sua vita intima passata e presente.

Ed è con la sua stessa forza, nella nostra unione, nella nostra voglia di lottare in nome della gioia, dell’ironia e della rivolta contro l’esistente che rivendichiamo la stessa urgenza che è dell’essere punk. Ci sarà il tempo dei comunicati ben scritti e dei percorsi a lungo, lunghissimo termine atti a rivoluzionare i nostri mondi – li stiamo già facendo così nell’intimo così come nei nostri spazi – ma ora è tempo delle parole urlate, della follia sgangherata dei tre accordi suonati con tutta la nostra forza, della bellezza imperfetta delle nostre anime in subbuglio, perché da sempre il punk ci ha insegnato ad usare il cuore, la testa per mettere in discussione e contrastare ogni tentativo di oppressione e subordinazione alla norma.

Ed oggi ci alziamo in piedi, ritti come chiodi che scintillano nella notte delle belle cose, insieme, contro la violenza avvenuta quella notte in via Testi, la vergogna di quel video diffuso e l’orrore di quel nomignolo. Contro il suo abbandono e l’incapacità di vedere il disagio di una donna. Contro l’omertà e il muro di silenzio. Contro i modi e il linguaggio adottati nei suoi confronti. Contro chi l’ha processata, condannata e punita basandosi su voci e fatti incompleti e di parte. Contro chi l’ha minacciata, aggredita, allontanata dagli spazi occupati usando la violenza…

Ed è contro tutto questo che aprendo la bocca è uscito questo urlo.

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“La via per Berlino” è un racconto di Silvia Ballestra del 1991, che solo un anno più tardi è diventato un romanzo dal titolo “La guerra degli Antò”, da cui poi è stato tratto l’omonimo film del 1999 per la regia di Riccardo Milani. «Verso le diciannove di ogni sera, il nostro Antò finiva di cenare; (in genere mangiava cose tristi: salumi da poco prezzo, pizze congelate, paste al pesto o condite con sughi già preparati. Cenava solo, naturalmente».

La storia racconta l’epopea di Antò Lu Purk e dei suoi amici Lu Zombi, Lu Zorru e Lu Mmalatu. Tutti e quattro punk, tutti e quattro di Montesilvano (PE), tutti e quattro con lo stesso nome: Antonio per l’appunto. Lu Purk è “quello che se ne va” da Montesilvano, dall’Abruzzo, da mamma, nonna e zii alla volta di Bologna, mentre gli altri decidono di restare perché, come dice Lu Zorru in una scena: «Ci vuole coraggio ad andare, ma ci vuole anche coraggio a restare a Montesilvano!» Continua a leggere

DISSAPORE.COM – Personalissimo anatema contro gli ALL YOU CAN EAT

DISSAPORE.COM – Personalissimo anatema contro gli ALL YOU CAN EAT

Non si tratta di essere snob. Personalissimo anatema contro i ristoranti All you can eat

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Mi verrebbe voglia di prendermi a schiaffi da sola per ciò che sto facendo e cioè accostare una meravigliosa pagina di letteratura italiana (tratta da “La Storia” di Elsa Morante), a quello che sto per scrivere, ovvero il mio personalissimo anatema contro un’espressione e un fenomeno sociale specifico: ALL YOU CAN EAT.

Sono quei ristoranti dove con pochi e indeformabili euro possiamo prendere tutto ciò che ci riesce di mangiare, prendi quello che vuoi quante volte volte vuoi.

Se ne è già parlato anche qui su Dissapore, è proprio alla domanda con cui si chiude il post (“Ci si riempe lo stomaco senza svuotare il portafoglio, il solo metro è la dismisura, l’unica categoria è l’enormità. Ma resta un pregiudizio a frenare il successo del modello all you can eat in Italia, il pregiudizio che in questi ristoranti si mangi male. Solo un pregiudizio?” ) che rispondo con il brano tratto dal romanzo di Elsa Morante.

Non ho provato tutti i ristoranti che praticano il cosiddetto ALL YOU CAN EAT, ma qualcuno sì. A Milano, come in Inghilterra così come in Giappone. E la risposta, per la mia umile esperienza è che sì, si mangia male, ma non è della qualità del cibo che sto parlando, o almeno… non solo!

Parlo della modalità, del rituale e del fenomeno antropologico che consiste nel servirsi da sé, quando si sa che ciò che si mangia è gratis o costa poco. Io, che sto sempre dalla parte degli ultimi e mi sono fatta le ossa recensendo birre spuzze e formaggi che diventano blu, posso permettermi di giudicare l’avventore medio di un ALL YOU CAN EAT.

Perché posso farlo?

Perché non ho un’attitudine snobistica nel farlo e perché, a costo di risultare impopolare, se mi dovessero offrire una cena sceglierei comunque un ristorante cinese di provincia (coi suoi buffi e graziati regalini, tanto fragili quanto di cattivo gusto), rispetto a un qualsiasi locale blasonato. – Io sono uno di voi! –

[continua]

DISSAPORE.COM – Il Seitan fatto in casa come in una barzelletta

DISSAPORE.COM – Il Seitan fatto in casa come in una barzelletta

Fare il seitan a mano: c’erano una drag queen, un metallaro, uno zombie e un italiano…

 

Questo post potrebbe iniziare come quelle vecchie barzellette dal respiro europeo con il francese, l’inglese, il tedesco e l’italiano, in cui quest’ultimo se la cava sempre e si distingue in quanto a furbizia, creatività e tendenza a rubacchiare e/o mentire.

Perché fondamentalmente siamo un popolo con la capacità a prendersi poco sul serio e abbiamo un profondo senso dell’autoironia e dello sfottò bilaterale. Non abbiamo il senso di grandeur francese, non siamo lord come gli inglesi e non siamo fieri e orgogliosi come i nazionalisti USA-centrici d’oltreoceano.

Basta però che non si tocchi il cibo… Continua a leggere

DISSAPORE.COM – Il tofu che toglie i peccati del mondo

DISSAPORE.COM – Il tofu che toglie i peccati del mondo

Il tofu che toglie i peccati del mondo: cibo santo e cibo del demonio

Lady-Vendetta

La dolce Geum-ja ha scontato tredici anni di carcere per aver confessato il rapimento e l’omicidio di un bambino. Durante la detenzione ha aiutato i deboli, ha assistito il prete del carcere, ha punito i violenti e soccorso i malati. Tanto bella e buona da ricordare la Madonna, diventa difficile comprendere come abbia potuto commettere un tale reato.

Ma infatti non è stata lei.

Geum-ja è innocente. La donna, protagonista di Lady Vendetta (Simpathy For Lady Vengeance) film del regista coreano Park Chan-wook del 2005, nel cui remake americano reciterà Charlize Theron, ha confessato un crimine commesso dall’uomo che amava.

Dopo tredici anni esce dal carcere e il prete, guida spirituale che l’ha seguita durante la detenzione, le porge un piatto con un panetto di tofu.

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DISSAPORE.COM – Pizza, low-cost… in Giappone!

DISSAPORE.COM – Pizza, low-cost… in Giappone!

Giovane, predisposta al martirio, si avventura nella pizza low cost giapponese

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Nella mia umile e limitata esperienza di fondatrice e curatrice di un blog in cui si recensiscono prodotti del discount, ho scoperto una cosa. Chiamatela folgorazione, illuminazione, rivelazione… ciò che conta è che nel momento dell’epifania, io mi sono sentita come Santa Teresa nel pieno di quell’estasi mistico-erotica sapientemente scolpita dal Bernini.

Questa piccola rubrichetta si chiama “Io sto con Murray” e per saperne la ragione – se non l’avete ancora fatto – vi tocca rileggere il primo post con cui ho esordito, qui, su Dissapore.

Quale sarebbe questa verità? Vi chiederete voi ed io ora lo spiego: la sublime arte di legittimare e dare dignità agli ultimi (prodotti del discount, tarocchi, industriali e bruttini per esempio), può essere applicata a qualsiasi ambito della nostra vita. Quando dico “Io sto con Murray”, riferendomi al personaggio di Don DeLillo in “Rumore Bianco”, io sto gridando a gran voce: «Io sto con gli ultimi. Io sto dalla parte dei pariah, dei negletti, degli innominabili…»

Ecco allora, che la mia missione (e la mia predisposizione al martirio) mi porta ora a cercare di raccontarvi, nel modo più dignitoso possibile e con il massimo rispetto del caso, qualcosa che farà rabbrividire i più e cioè…

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LA PIZZA. LOW-COST… IN GIAPPONE!
[articolo originale qui]

La pizza in Giappone ha un nome e un cognome. Quel nome è Salvatore e quel cognome è Cuomo; Salvatore Cuomo: pioniere della pizza nella terra del Sol Levante, ha ormai costruito un impero di ristoranti e bar sparsi qua e là tra Tokyo e Osaka.

La vera pizza napoletana con i migliori ingredienti, in un ambiente famigliare e confortevole, che però io non ho mai sperimentato. Perché? Perché per una margherita “da Salvatore” bisogna preventivare di lasciarci giù circa quindici euro per una pizza grande come un 45 giri di vinile. E poi lo ammetto, sarebbe stato tutto troppo facile cominciare dal migliore.

Invece io, masochista della forchetta in terra straniera, ho deciso di stare dalla parte degli appestati e degli ultimi. Come quella volta in quell’izkaya coreano (un pub in cui si fanno le ordinazioni attraverso futuribili touch-screen installati sui tavoli)… ancora rammento quell’oscena cosa – impossibile definirla pizza – che popola tuttora i miei incubi: Pasta fillo (giuro), una sgommatina di pomodoro, una sforforata di simil-parmigiano e pesto. Sì, pesto! A voler sopperire alla mancanza di basilico fresco. Il tutto rigorosamente carbonizzato. Costo: 3-4 € / Voto: zero assoluto.

O la piccola e kawaii Cheese Pizza, acquistata per meno di 1,50 € in un “combini” (convenience store aperti 24 h su 24). Tenera nella sua rotondità e con quel vezzo, come lentiggini, di cubetti di pomodoro fresco al centro. Meglio addirittura, della più o meno italica Speedy Pizza – ve lo garantisco – con cui abbiamo rovinato orde di tosta-pane nella nostra giovinezza.

Ma tornando a ciò che può essere definito “pizza” in Giappone, l’annosa questione delle dimensioni (della pizza, dei letti e delle stanze d’albergo) è qualcosa che ha caratterizzato buon parte dei miei viaggi nipponici.

Con lo stomaco che brontola ed un atavico bisogno di carboidrati-pomodoro-mozzarella, il mio compagno di viaggio ed io, abbiamo sostato minuti interminabili davanti alle vetrine luminose dei ristoranti che ospitano le repliche dei piatti serviti. Si chiamano replica food, sono fatti di cera e servono, per l’appunto, per dare una dimostrazione dell’offerta culinaria.

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Nei posti filo-italiani che vendono la “vera” pizza napoletana per esempio, sotto la replica viene sempre riportato il diametro della pizza che raramente supera i 25 centimetri. Una rara eccezione: ad Osaka, nel quartiere Umeda, nel ristorante semi-italiano “La Boheme”, abbiamo trovato una margherita di ampiezza dignitosa, ma di spessore criticabile. Costo: 8-9 € (acqua e coperto inclusi) / Voto: 7 + un plauso per il sottofondo musicale di beat italiano degli anni Settanta.

Abbiamo parlato della più grossa ed ora parliamo della più piccola. Siamo sempre ad Osaka nella centralissima Namba. Tra un pachinko rumorosissimo, un negozio di gashapon ed un internet café ecco un locale che vanta pizza e italian soda nel menu. La pizzetta (è il caso di dirlo) è più piccola della mia mano e costa intorno ai tre-quattro euro. Non è male. E la rotella con cui mi è stata servita fa quasi tenerezza.

In Giappone ogni pizza, anche la più piccola, viene servita con tanto di rotella taglia-pizza sortendo, alle volte, un effetto involontariamente comico. Costo: 3-4 € / Voto: 5 (non raggiunge la sufficienza a causa della modestissima dimensione).

Oltre alla rotelle e alle piccole dimensioni, ho scoperto che le pizze giapponesi sono spesso accompagnate da una generosa manciata di mais. Come è possibile vedere in quasi ogni pizzetta confezionata in rivendita nei combini e, addirittura, nell’abominio generato e non creato dal dio della cucina fusion: un buozi (paninetto cotto al vapore cinese) con ripieno di pizza (italiana) e mais!

Altra catena, altra pizza. Con la carta di credito bloccata, gli ultimi giorni del mio secondo viaggio in Giappone sono stati caratterizzati da un’ossessiva oculatezza nella spesa ed una religiosa austerità nei consumi. Decidiamo però di destinare ben tredici euro per assaggiare una pizza (suggerita dagli internauti) ad Asakusa, piccolo e tradizionale quartiere di Tokyo, famoso per il grosso tempio Senso-Ji e per la presenza di membri della Yakuza che ho scoperto adorano terrorizzare gli stolti gaijin (stranieri) come me e il mio moroso, schernendoli per i loro tatuaggi.

Ignorati gli sberleffi degli Yakuza, ci rintaniamo nel ristorante-pizzeria “Miami Garden” e prendiamo una margherita. Microscopica – non aveva ancora imparato al leggere i centimetri effettivi – con quattro grosse foglie di basilico arpionate su quella che dovrebbe essere mozzarella e sugo. Sugo con tanto di soffritto! Costo: circa 13 € / Voto: 4 (a causa del costo eccessivo, della dimensione ridotta e dell’arroganza del sugo sulla pizza).

Terzo viaggio in Giappone. Rinunciamo a questo folle gioco al massacro di trovare una pizza buona ed economica. Vaghiamo per Osaka in cerca di cibo e, come Isacco un momento prima di essere sacrificati, ecco che la mano del padre si ferma e ci grazia… scopriamo Saizeryia! Catena filo-italiana presente in quasi ogni quartiere di Tokyo ed Osaka. Prezzi contenutissimi per piatti decenti e bevande gratis.

Assaggiamo la pizza (ma dai?) ed è buona! Piccola, ma molto molto saporita. Anche questa servita con tanto di rotella in differenti versioni: margherita, acciughe, funghi e calamari. Ed è pure aperto 20 h su 24. Costo: 2,5 – 4 € / Voto: 7 + un plauso per i Ricchi & Poveri, Mario Merola e Domenico Modugno mandati in loop persino al cesso.

Ma è a Koenji che ritrovo la fede in definitiva.

Ad una manciata di fermate della metro dalla centralissima Shinjuku ecco, che nel posto più umile e modesto (come una mangiatoia a Betlemme), mangio la miglior pizza low-cost di tutto il Giappone.

DISSAPORE.COM – La coprofagia da P.P.Pasolini a Bruce Willis…

DISSAPORE.COM – La coprofagia da P.P.Pasolini a Bruce Willis…

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La verità è dura da digerire: ma tutti dobbiamo mangiare la nostra dose di…

Cosa hanno in comune Pier Paolo Pasolini e Bruce Willis? Tralasciando l’evidenza dell’essere appartenenti alla medesima specie e al medesimo genere (uomo – maschio), sono stati entrambi apostoli di una verità alquanto indigesta e cioè che noi tutti mangiamo merda. In senso lato e in senso figurativo.

Come dimenticare il cameo di Bruce Willis in “Fast Food Nation” in cui, incalzato dal direttore del Marketing di una grossa catena di fast food sulla presenza di batteri fecali negli hamburger, dice:

«Sai… penso che ci potrebbe essere un po’ di merda anche in questa carne. Soltanto una piccola quantità microscopica. […] C’è sempre stata merda nella carne. E probabilmente tu la mangi da una vita. Non sta succedendo niente di illegale, ricordati che la carne viene cotta e le griglie sono stata calibrate accuratamente per essere sicuri di uccidere ogni piccola parte di quella robaccia. […] basta cuocerla! È tutto quello che devi fare. […] La verità è dura da digerire: ma tutti noi dobbiamo mangiare la nostra dose di merda».

DISSAPORE.COM – Dalla parte di Murray

DISSAPORE.COM – Dalla parte di Murray

Il packaging da DDR dei prodotti a marchio e Don DeLillo.

birra1Al supermercato ci imbattemmo in Murray Jay Siskind. Nel suo cestino c’erano alimenti e bevande generici, tutti prodotti non di marca, avvolti in involucri comuni, bianchi, dalle etichette semplici. C’era una lattina bianca con la scritta PESCHE IN SCATOLA. C’era una busta bianca di prosciutto affumicato senza la finestrella in plastica per la vista di una fetta campione. Un barattolo di noccioline abbrustolite con un’etichetta sui cui si leggevano le parole NOCCIOLINE IRREGOLARI. Mentre li presentavo, Murray continuava ad annuire alla volta di Babette.

«È la nuova austerità, – disse. – Imballo insipido. Mi attrae. Mi sembra non soltanto di risparmiare i soldi, ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale. È come la Terza guerra mondiale. È tutto bianco. Ci porteranno via i colori per usarli nello sforzo bellico».

Fissava Babette negli occhi, estraendo alcuni articoli dal nostro carrello e annusandoli.

«Queste noccioline le ho già comprate. Sono rotonde, cubiche, butterate, grinzose. Noccioline rotte. Un sacco di polvere in fondo al barattolo. Però sono buone. Ma soprattutto mi piacciono gli imballi in sé. Avevi ragione, Jack. È l’ultima avanguardia. Coraggiose forme nuove. Capaci di scuoterti». DaRumore Biancodi Don DeLillo, 1985.

Il protagonista ed io narrante di Rumore Bianco, romanzo di Don DeLillo, è il fondatore del dipartimento di studi hitleriani in una piccola università nel Midwest degli Stati Uniti. Ha una moglie (la terza o la quarta) obesa ed un collega, Murray Jay Siskind, che si sta battendo per introdurre Elvis Presley come materia di studi del dipartimento di Cultura Popolare Americana.

Tutto è pop, in Rumore Bianco, persino la paura della morte che in un’epoca di consumismo sfrenato (erano i fulgidi anni Ottanta, baby…) può essere sconfitta acquistando ed ingerendo un pionieristico farmaco. Tant’è che buona parte del romanzo è ambientata in un supermercato.

Autoproduzione 2.0 – L’Unità 07/01/2013

Autoproduzione 2.0 – L’Unità 07/01/2013

Kickstarter non è l’unico. Come lui c’è Indigogo, Fundable, Crowdfunder o GreenUnite, per i progetti legati all’ecologia, oppure Appsfunder, per le applicazioni per smartphone e tablet. In Italia abbiamo Musicraiser, piattaforma specifica per band, etichette, organizzatori di eventi e per tutte quelle figure che ruotano attorno alla scena delle cinque note. Che nella musica, spesso, si ricorra all’autoproduzione non è una novità. La cultura del D.I.Y. (Do It Yourself) ha visto i suoi natali nella scena anarco-punk inglese grazie ai Crass, importata nel Belpaese da gruppi come i Kina, perpetuata e rivendicata fino ad oggi da Kalashnikov Collective e molti altri, è sempre stato un grido di battaglia ed una presa di posizione contro le major. Possiamo forse considerare queste piattaforme una forma evoluta del D.I.Y.? Siamo di fronte all’autoproduzione 2.0?

Autoproduzione: È febbre sul web. L’Unità – 7 Gennaio2013

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