Brucia la Vecchia: Attitudine punk, femminismo e memoria del cuore si mescolano nel nuovo romanzo di Valeria Disagio.
Forse non tutti conoscono Valeria Disagio, cantante in svariati gruppi punk, autrice ma anche artista in senso ampio potremmo dire. Dopo svariate attese finalmente ho messo le mani sul suo nuovo libro: Brucia La Vecchia.
In questo nuovo libro, edito da Bookabook tramite crowdfunding, Valeria ci porta in un piccolo paese di montagna per conoscere Nilde. La protagonista è una giovane dall’animo complesso che vive con i nonni. Quel che ancora non sappiamo, e nemmeno Nilde sa, è che la sua vita è stata costruita su un dolore immenso ma anche sulle menzogne.
Ed è in una sera d’estate che prende vita l’avventura di Nilde alla ricerca della verità. Così la ragazza si ritroverà in città a scavare tra i ricordi di quattro persone diverse, mentre lei stessa scava dentro di sé. Farà bene a scavare? O la scoperta della verità sarà traumatica? Non ci resta che seguire Nilde avventurarsi dentro la pancia della città e della memoria.
Si parla anche del mondo, della nostra società, di donne e di tradizioni. E di come tutto venga consumato, fagocitato dalle leggi della società per bene. Quella borghesia perfetta, quel capitalismo che ci strappa dalla natura e da noi stessi: anche questo sarà il percorso di Nilde.
E in un finale non scontato scopriremo anche noi la verità e potremmo dire metaforicamente: Brucia la vecchia. Facendo sempre il tifo per questa giovane alla scoperta della vita.
Valeria nasce un lunedì di pioggia del novembre del 1982 a Varese. Diventa “Valeria Disagio” sull’orlo estremo tra l’adolescenza e l’età adulta. Ha esordito giovanissima con il romanzo “Casseur: la lotta, l’ebbrezza e la Città Giardino”. Poi ha perso parecchio tempo nella precarietà del lavoro e nell’inquietudine politica. Ha scritto molti racconti, pamphlet e poesie. Ha gestito un blog – da cui è nato il libro “Discount or die” edito dalla Nottetempo -, ha curato fanzine e cantato in collettivi punk. Ha intenzione di continuare a fare tutto questo…
Ciao Valeria… Dobbiamo chiamarti “Disagio” o come?
Ah, Disagio va benissimo! È uno pseudonimo nato per puro caso, ma ormai mi ci sono affezionata! Dice molto di me e di come mi pongo nei confronti di ciò che mi circonda! Non volevo usare il mio cognome su Facebook e allora ho messo l’appellativo che usavo quando lavoravo nel sociale e dovevamo mappare l’utenza ma senza violarne la privacy. Allora al posto dei cognomi mettevo “disagio” come cognome…. Lorenzo Disagio, Silvia Disagio…. E così via. Col passare del tempo, il fatto di sentirmi a disagio rispetto a ciò che mi circonda, per me è diventato un manifesto. Qualcosa che ha costruito la mia identità e personalità in risposta agli stimoli e le bastonate esterne.
Vuoi raccontarci del tuo rapporto con la scrittura?
Ho sempre scritto. Da quando ho imparato a farlo. All’inizio era una valvola di sfogo. Ho iniziato a scrivere per rabbia perché i miei non mi avevano fatto entrare ad una festa di Radio Lupo Solitario perché ero troppo piccola! E per me, ai tempi, Radio Lupo solitario era tipo la cosa più meravigliosamente incredibile del mondo. Ricordo che io e la mia amica Oriana, sentendo tutte le pubblicità dei negozi di Gallarate, andavamo in pellegrinaggio lì, credendo che fosse davvero il centro del mondo e l’ombelico del punk-rock! In ogni caso, scrivere, è qualcosa che ho sempre fatto. In forme diverse. In modalità diverse. Dallo sfogo emotivo è diventato qualcosa che ho imparato ad addomesticare e controllare e che mi fa star bene. Mi diverte fare. Una sorta di puzzle o rompicapo quando si tratta di una scrittura “strutturata” come per canzoni che devono stare in una metrica o se devo inventare un claim / payoff per lavoro o se devo stare in un determinato numero di caratteri per i social. La narrativa, invece, è un altro discorso. Lì non ci sono limiti. Io ho delle vaghe idee in testa. Un concetto o qualcosa che vorrei raccontare. Mi metto lì davanti ad un foglio e so che ad un certo punto comincerò a scrivere e la storia verrà fuori un po’ come in un processo automatico e sensibile. Che rapporto ho? Vorrei poterlo fare sempre e in modo regolare. Con tutto il tempo che serve, ma purtroppo al momento o scrivo per lavoro o scrivo la sera (o di notte) dopo 9 ore in ufficio.
Il tuo esordio letterario è stato con il romanzo “Casseur: la lotta, l’ebbrezza e la Città Giardino”. Che ricordi hai di quel libro e di quel periodo della tua vita?
Ho dei ricordi assurdi e confusi. Ero così giovane e “Casseur” era nato per caso, assemblando tutto il materiale che avevo scritto praticamente dai 15 ai 18-19 anni. Dopo molto, per strani incroci del destino, è stato pubblicato che ne avevo 23 o 24. In verità volevo scrivere un libro da regalare alle mie amiche a Natale per raccontare i nostri 18 anni (la fine delle scuole superiori, il G8 di Genova e i primi drammi di cuore…). Lo mandai ad un collettivo di lettori, “iQuindici”, una costola dei Wu Ming e loro se ne innamorarono. Dopo averlo proposto ad una serie di piccole case editrici che ai tempi erano sensibili a certi temi e certe pratiche (come il copyleft), hanno trovato un editore che me lo ha pubblicato. Le cose non sono andate benissimo dal punto di vista umano con l’editore (cosa che mi accade ciclicamente!) e quindi ho interrotto i rapporti professionali e umani. Ai tempi credevo davvero che avrei fatto la scrittrice di lavoro e che pubblicare un romanzo fosse il primo passettino di un futuro certo e stabile nel mondo dell’editoria. La critica aveva reagito in modo molto positivo. Ma poi, finita l’università, ho passato anni e anni a lottare contro la precarietà professionale, casini personali e pur non avendo mai smesso di scrivere, purtroppo, ho relegato la scrittura ai rari ritagli di tempo che riuscivo a salvare dal delirio della quotidianità. Sentendomi magari in colpa perché rubavo il tempo alla gestione della casa o ai rapporti con le persone che avevo attorno. Però ho continuato a fare parecchie cose, sempre a caso! Fare cose a caso è la mia cifra stilistica!
Tempo dopo hai trasferito la scrittura sul web (il blog “discount or die”) ma poi è nato anche un libro/guida cartaceo sui prodotti da discount. Vuoi parlarcene?
Ecco… “Discount or die” è la prova più lampante e concreta di come, spesso, le cose mi accadano senza che io le vada a cercare. Il blog è nato come una goliardata tra amici. Ai tempi ero super squattrinata e studiavo copywriting e scrittura creativa allo IED (mi sono potuta permettere lo IED solo grazie a dei soldi ricevuti come risarcimento per la tragica morte di mio nonno in un incidente!) e ad una certa c’era questo art director della Ogilvy che ci ha fatto una lezione sul concetto di invertising, ovvero un nuovo modo di concepire la pubblicità ai tempi dell’internet. L’idea è quella che in un’epoca in cui siamo tutti connessi non ha più senso dire che ciò che vendo è bello o buono o santo, perché tanto i “consumatori” – concetto che lui rifiutava, per giunta. Così come rifiutava tutto il gergo militare o di guerra che si usa nella pubblicità o nel marketing – parlano tra di loro, creano comunità virtuali di scambio reciproco e prima di comprare cercano sul web il parere dei loro “pari”. Ed è per questo che oggi la pubblicità ti deve vendere un bel pacchetto di valori e elementi identitari, associandoli ad un prodotto. Far innamorare di un prodotto o meglio, di un brand, perché quel brand parla di noi, di quello che proviamo, di quello che sentiamo, di quello che vorremmo essere. E allora lì mi sono detta: basta vergognarsi di essere poveri e precari, rivendichiamo il discount e il nostro rifiuto (nato anche dalla necessità) di credere che spendere tanto sia necessariamente figo! Basta con la ricerca affannosa della ricchezza a tutti i costi e della realizzazione personale attraverso l’accumulo di carta-moneta! Poi, ai tempi, gestivo insieme al mio compagno un cineclub con baretto annesso e ci divertivamo a recensire birre di merda o snack assurdi proveniente dal mondo delle sottomarche.
E le fanzine? Ricordo quella fotocopiata che girava per Varese… Come si chiamava? “Nihilismi”!
Oh, merda… manco mi ricordo come e quando sia nata! Sicuramente eravamo al cineclub Domenica Uncut e sicuramente eravamo ubriachi. Poi il giorno dopo mi sveglio e la mia dignità (o tentativo di preservarla) mi fa mantenere fede alle promesse fatte o i progetti annunciati da ubriaca. “Nihilismi” è stato qualcosa del genere. Presumo. Era divertentissima e molto libera e trash. Si andava dalla saggistica (come la guida al diritto d’autore o allo squirting) alla narrativa distopica. Grandi firme. Grandi pseudonimi. Io mi firmavo Barbra Streisand e Jessica Fletcher! Se non fossi la cazzona autosabotatrice che sono, Nihilismi avrebbe potuto benissimo essere l’antesignano di “Vice” però meno furbo e più votato al non-sense. Ma come si è capito, credo, faccio spesso cose a casaccio e quando capita di imbroccarne una, faccio il possibile per farla andare male!
Per un periodo sei stata la front-woman di una band punk che ha girato tutta Europa. Cosa ci dici a riguardo?
Sono stati anni bellissimi e intensi. Cantare per me è stato qualcosa di… passami il termine: “mistico”. Mi ha rimesso in contatto col mio corpo, la mia femminilità e la percezione dello spazio che occupo nel mondo. La scena punk è meravigliosamente sconclusionata, irruente e sincera come me. Così sincera che troppo spesso ci si dimentica che ci sono verità convenienti e verità distruttive. Io ho scelto sempre di essere sincera, anche a costo di fare e farmi del male e, nel momento in cui non potevo più esserlo, ho capito che dovevo fare un passo indietro. Suonare in un gruppo punk, fare parte di un collettivo, è qualcosa che va fatto solo e soltanto se si è convinti al 100% o se si vive in un contesto abbastanza resiliente in grado di mettersi sempre e comunque in discussione. Per varie vicissitudini politiche e personali avevo bisogno di farmi da parte, scendere dal palco. Al momento, timidamente e in punta dei piedi, sto mettendo su un altro gruppo. Non abbiamo ancora un nome e abbiamo provato solo poche volte (anche perché c’è di mezzo il mio compagno, nonché chitarrista dei Drunkards, che vive a 300 km da qui), ma prima o poi tornerò a girare e cantare sicuramente.
Vuoi parlarci di “Brucia la Vecchia”?
Tra tutte le cose assurde e controproducenti e potenzialmente dannose che ho fatto nella mia vita, mi è capitato di scrivere diversi romanzi. Alcuni sono stati pubblicati e altri no. “Brucia la vecchia” per esempio, rientra nella seconda categoria e ho deciso di provare a farlo attraverso Bookabook, una piattaforma di crowdpublishing. Ché significa che non sarà un editore a scegliere se questo romanzo merita o no di finire nelle librerie, ma la comunità di lettori che si costruirà attorno a questa storia. Il libro racconta la storia di Nilde (la protagonista) che vive coi nonni a Colle Torto, un piccolo paese di montagna con le strade strette, tortuose e ghiacciate sei mesi l’anno. Orfana, vegetariana e solitaria, indossa il lutto per la morte prematura e violenta della madre, di cui non custodisce alcun ricordo all’infuori di una pigna di libri consumati, qualche disco e le bugie di nonna Adele e nonno Evaristo. «Mio padre non so chi sia. Credo sia un pezzo di cane che ci ha abbandonate» racconta. Eppure sarà una lettera di quel padre sconosciuto a svelare una menzogna lunga quindici anni e a catapultare la giovane Nilde indietro nel tempo, a quell’inverno in cui Lisa morì per mano dell’uomo che amava. Da qui inizia un viaggio fatto di verità nascoste, vite interrotte, sensi di colpa attraverso gli occhi spietati di una sedicenne a cui tocca il compito di giudicare, condannare e liberare dai peccati quegli adulti responsabili (direttamente o indirettamente) della morte di Lisa Malatesta. Sua madre. Come è nato questo libro? È nel 2009 che ho scritto la parola “fine” alla prima versione del romanzo. Da allora ho avuto a che fare con numerosi editori, agenti e neo-mecenati che mi hanno proposto di tagliare di qua, modificare di là, riscrivere e rielaborare per rendere la mia storia più pubblicabile, vendibile a attrattiva. La cosa però non è mai andata a buon fine. Perché insisto? Perché credo in questa storia e nel mio lavoro. Ho scritto “Casseur” che avevo 18 anni. È stato pubblicato che ne avevo una ventina. Da allora non ho mai smesso di scrivere anche se ben poco di tutto ciò che ho prodotto, ha visto la presunta legittimazione di un bollino Siae e di un codice a barre. Le mie parole hanno trovato casa, però, in fanzine fotocopiate e semi-regalate su tavoli sporchi di birra durante i concerti. …e hanno trovato casa nel web, raggiungendo molte più persone di quanto abbia fatto col mio primo romanzo. Ho deciso di usare una piattaforma di crowdpublishing per sperimentare quella che da molti viene considerata una legittimazione dal basso, anche se io preferisco parlare di orizzontalità. No, non è editoria a pagamento che mi fa abbastanza ribrezzo. E non mi sto manco pubblicando il libro da sola implorando la gente di prendere una copia per rientrare nelle spese. La vedo come una sfida! Le regole sono semplici. Ho 100 giorni per raccogliere 250 pre-order del mio romanzo. Ora sono al 41% e mancano un’ottantina di giorni. Se ottengo questo risultato “Brucia la vecchia” verrà pubblicato. Altrimenti chi lo ha prenotato riceverà la sua copia in tiratura limitata e tanti saluti, pacche sulle spalle e facciamoci una bevuta insieme quando ci vediamo. Ah, e poi c’è che mi galvanizzo tutta per le sfide e il mettermi in gioco e avere “l’ansietta adrenalinica” del buttarmi a fare cose a casaccio, e questa roba lo è senza dubbio.
E di “I mortificatori”?
Atra cosa nata a caso. Ho letto “On Writing” di Stephen King e lo ho trovato illuminante. Il sottotitolo è “il mestiere di scrivere”. Nel libro Stephen King racconta la sua vita come scrittore. Da quando, con dodicimila figli, pochi soldi e un lavoro di merda, scriveva nei ritagli di tempo. Della frustrazione dei rifiuti da parte delle case editrici. E del fatto che la moglie abbia raccattato “Carrie: lo sguardo di Satana” dal cestino della spazzatura perché credeva in lui e in quella storia. Quel libro distruggeva e dissacrava l’idea dell’artista tormentato, ingestibile e in balìa dell’ispirazione. Leggendo quel libro ho scoperto che scrivere è prima di tutto un mestiere. Non è solo talento o fortuna, ma l’impegno quotidiano e costante. Un vero e proprio mestiere artigiano. E allora ho provato ad applicare quel metodo (scrivere sempre, tutti i giorni, tot battute al giorno e al massimo poi cestinare e molte altre cose) e ho scelto la struttura del romanzo di genere proprio come sfida. Volevo stare dentro a quelle regole. Non scrivere più solo quando stavo male per sfogarmi, ma farlo con metodo e così ho imparato a farlo divertendomi. Così è nato un horror – noir divertente che uscirà il giorno di San Valentino per Agenzia X
Cosa ne pensi del futuro della carta? Hanno ragione quelli che la danno per morta? No, non credo proprio. Credo anzi che potrebbe accadere quello che è successo per la musica. Basta produrre libri di merda e sprecare alberi per un cazzo. Che il libro torni ad essere un oggetto prezioso e da amare come un bel vinile! Per il consumo becero e massificato ben venga il digitale! Tornando a Nihilismi… avevo appunto scritto un articolo che si chiamava dalla Dittatura della materia al feticcio del supporto.
I tuoi progetti per il futuro? Voglio continuare a fare ciò che ho sempre fatto. Cose a caso. Fare cose a caso coi punx della Valle Olona! (vedi alla voce Olona Wasteland Punx) Ora però devo traslocare. Dopo aver traslocato credo che dormirò un mese. Poi voglio ricominciare a lavorare con impegno e costanza al mio nuovo gruppo. Scrivere scrivere scrivere. E arrivare al goal della mia campagna di crowdpublishing di “Brucia la vecchia”.
C’è chi grida allo scandalo, proprio come quelle madri che coprono gli occhi alle figlie durante l’esibizione delle Mignonnes, perché nessuno vuole vedere delle undicenni così sfacciate, maliziose, allusive o seduttive. Eppure a queste bambine cresciute nei quartieri popolari di Parigi gli si chiede di essere già donne quando devono occuparsi della casa, del bucato o dei fratelli più piccoli. Perché le madri lavorano o stanno allattando il terzo o quarto figlio di quegli uomini di casa che pretendono. Pretendono vestiti puliti, pranzi serviti e pretendono che la madre di Amy accolga (nella stanza migliore) la nuova giovane moglie dell’uomo di casa che sta tornando dal Senegal. Pretendono di scegliere come la moglie e le figlie si debbano vestire in occasione di quel secondo matrimonio imposto, con quell’altra donna mai vista prima, ma che diventerà parte della famiglia. La favorita nella stanza più grande e luminosa. La stanza di una principessa in cui non è possibile accedere dall’esterno. E a queste bambine, che non hanno tempo di giocare, viene anche insegnato che il peccato risiede nel proprio corpo.
E a queste bambine, che non hanno tempo di giocare, viene anche insegnato che il peccato risiede nel proprio corpo.
Quel corpo che inizia a sanguinare e definisce biologicamente e socialmente il loro essere donne in grado di fare figli e quindi pronte per essere date in moglie, avvolte in un candido vestito che cela il loro volto. Ma non è solo questo essere donna. Non è solo sanguinare ed essere fertile. Se c’è un’alternativa a questo dogma culturale, affettivo e biologico di essere donna (peccatrice, sottomessa e con una data di scadenza) bisogna allora assolutamente scoprirne i trucchi, i segreti e i passi giusti da fare per uscire da questo schema che condanna. E dove cercare? Come imparare ad essere una donna cercando dei modelli fuori dalle mura domestiche? Forse su quel cellulare rubato al cugino emissario del padre?
Maïmouna Doucouré, regista di Mignonnes (film francese del 2020 disponibile su Netflix), non ha bisogno di mostrarci come la piccola Amy abbia imparato a ballare twerkando, simulando seghe o succhiandosi allusivamente le dita, perché non ce n’è bisogno. Sappiamo tutti molto bene come veniamo raccontate e rappresentate e come noi stesse sappiamo raccontarci e venderci secondo la legge del mercato, dello spettacolo e del potere.
In Italia Mignonnes è stato ribattezzato “Donne ai primi passi” per quello schifo di vizio che abbiamo di dover tradurre, stravolgere e fare giochi di parole scemi su tutto, nel tentativo di rendere simpatico o comico ciò che comico non è. Perché Mignonnes non è una commedia. Ma proprio per niente. Seppure Amy e le altre risultino ridicole, grottesche o addirittura tenere nei loro tentativi di emulazione e interpretazione dell’essere adulte, così come è ridicolo, goffo e pericoloso cercare di stirarsi i capelli con il ferro da stiro.
Mignonnes è un film pericoloso o malizioso? Non credo. È un bel film come non mi capitava di vederne da molto.
In occasione del loro diciottesimo compleanno, nel maggio del 2019, i My Own Voice hanno chiamato un nutrito gruppetto di pirati, piratesse balordi e visionari a festeggiare con loro in Cascina Torchiera Senz’Acqua, spazio liberato e autogetsito fin dagli anni 90 in quel di Milano.
Con i My Own Voice ci ho diviso il palco parecchie volte quando cantavo nei Kalashnikov Collective, con loro ci ho anche registrato un pezzo e sono soprattutto degli amici.
Vuoi cantare con me un pezzo del nostro prossimo disco? Sì. Ok, vieni a quell’ora di quel giorno al Mob Sound e inventiamoci qualcosa. Ecco cosa è venuto fuori.
In quel periodo ero in giro per presentare “I mortificatori” il mio romanzo uscito il giorno di San Valentino per Agenzia X e ho accolto con entusiasmo l’invito di Marchidda a portare il mio romanzo anche lì, in Torchiera, prima dell’inizio dei concerti.
Ho sempre detestato presentare i miei libri. Ho sempre trovato imbarazzante e sbagliato trovarmi dietro ad un tavolo separata da un pubblico, con un moderatore che rintuzzava quei quattro gatti (generalmente amici, parenti e mezzo giornalista) a farmi domande. Credo di essere sempre stata praticamente sbronza durante le presentazioni dei miei precedenti libri. Ricordo una volta che qualcuno (ai tempi di Casseur) mi fece notare che usavo troppo spesso la parola “cazzo”. Dopo tre Coca e Jack, finita la presentazione, la ventenne che ero firmò tutte le copie scrivendo solo “cazzo”.
Insomma… le presentazioni dei libri mi suonavano come una cerimonia o un sacramento che non mi rappresentavano. Poi è uscito questo romanzo e la gente mi ha chiamato a parlarne in quegli spazi e a quei collettivi con cui ero entrata in contatto grazie ai concerti e alla militanza e ho scoperto che il punk non smette mai di insegnarmi robe. Via i tavoli, via le barriere di separazione. Tutti in cerchio su un divano umido di pioggia e pieno di peli di cane, insieme al mio amico e giornalista Gabriele Nicolussi, abbiamo dialogato insieme alle persone presenti. Ed è stato uno scambio reale. Bello. Sentito e vissuto. Ecco alcune foto. Purtroppo non ricordo il nome del fotografo o della fotografa. Hei, tu, sei l’autore o l’autrice di queste bellissime foto? Caccia un urlo.
Finita la presentazione… no, finito l’incontro, una vecchiettina adorabile che ricordava una cartomante mi ha chiesto di leggerle un brano del libro ed i sono stata lì, con lei, per una decina di minuti intanto che facevano il soundcheck a leggerle come è nato l’amore tra Orso e Adele.
Non ricordo come. Ma anni fa sono venuta a sapere di questo appuntamento al Pinch di Milano in cui chiunque poteva salire sul palco e raccontare qualcosa che non voleva far sapere alla propria madre. Uniche regole: doveva essere vero, non letto e non durare per più di 5 minuti.
Ho contattato Matteo Caccia, che seguivo su RadioDue, e gli ho scritto che avrei voluto raccontare una storia. Ciò che non volevo far sapere a mia madre è che non avrei mai sposato Giovanni Floris e che iniziava così: “Non dite a mia madre che non si rammendano le calze a rete“.
Dopo quella volta sono tornata diverse volte sul palco del Pinch e con Matteo e Federico Bernocchi ho collaborato anche a “Il grande freddo” uno storyshow organizzato in occasione del festival I BOREALI del 2016 organizzato dalla casa editrice Iperborea.
I BOREALI 2016 – “Il grande freddo” story show
Sul palco del Pinch ho raccontato tante altre storie che non avrei voluto far sapere a mia madre. Ho raccontato di quando, da adolescente, ho perso tot diottrie perché usavo una lente a contatto alla volta per sperperare soldi in cd (la maggior parte brutti). O di quella volta in cui, applicando alla lettera il manuale di autodifesa femminista, ero sul punto di urlare di avere la candida durante un viaggio notturno in treno… e tante altre storie. Ma la primissima che ho raccontato, con la voce che tremava e le parole smangiucchiate, in cui raccontavo che Satana mi aveva aggiustato il termostato… beh, è finita qui. Mica lo sapevo io che le registrava tutte il farabutto! Fatto sta che Matteo Caccia ha raccolto le più belle e ne ha fatto una serie su Audible che potete ascoltare qui , ma non ditelo a mia mamma o ai miei ex fidanzati e soprattutto non ditelo a Giovanni Floris!
Bellissima e sentita recensione del mio romanzo Brucia La Vecchia edito da Bookabook dal blog Inchiostro e Parole. Grazie davvero. Quando l’ho letta ho dovuto rileggerla più volte e ad alta voce, perché non mi sembrava possibile che una sconosciuta potesse sbrigliare la matassa dietro al mio scrivere.
Recensione
Ho appena finito di leggere il romanzo e sono senza parole. Sto facendo fatica a raggruppare le idee, formulare un giudizio, esprimere un parere. Penso ai protagonisti della storia, quelli della fotografia, e provo un senso di disagio. Penso alle loro vite, alle loro scelte, e sento tanta rabbia e poca compassione. Io non ho necessità di perdonarli, come Nilde; per me non sono l’unica cosa rimasta di un passato mai avuto. Sono sensazioni così forti quelle che provi leggendo “Brucia la vecchia“, che fanno la differenza tra un buon libro e uno mediocre. E io credo che quello di Valeria Disagio sia uno dei più bei romanzi che ho letto negli ultimi mesi.
È una storia che ti arriva dentro e ti scuote; una narrazione che ti trascina nel baratro di queste vite spezzate e perse, e nella ricerca di una verità che si fa sempre più soffocante ma mano che viene rivelata. Ma, soprattutto, è un libro scritto in modo impeccabile. Non amo fare paragoni, ma spesso la scrittura di questa autrice mi ha ricordato quella di Paolo Giordano, soprattutto in “Divorare il cielo“. C’è una freddezza, un distacco nel descrivere la vita dei cinque amici, che ti lascia perplessa e proprio per questa sua caratteristica ti colpisce ancora di più. È un raccontare mettendo insieme i fatti (come dice la mamma di Alberto) per arrivare alle ragioni per cui quegli stessi fatti sono avvenuti.
[Per leggere l’intera recensione, che suggerisco fortemente, cliccare qui]
Come in quella pagina della fanzine Sideburns (dicembre ’76-gennaio ’77), per cui basta conoscere tre accordi per formare una band punk, per raccontare una storia abbiamo bisogno, invece, di almeno 4 accordi:
PERSONAGGI
STRUTTURA
LINGUA
METODO
Per rendere più divertente il LABORATORIO DI SCRITTURA FURIOSA & AUTOPRODUZIONE DI STORIE del prossimo 8 giugno in occasione del D.I.WILD#3, sarebbe meraviglioso se poteste mandarmi qualcosa che avete già scritto o anche solo l’idea di un soggetto che vorreste sviluppare.
Come? Provate a seguire le indicazioni di questo primo accordo.
THIS IS A CHORD
I PERSONAGGI (più o meno) secondo il linguista e antropologo russo Vladimir Jakovlevič Propp, ma rivisti in chiave punx.
Propp analizzando cento fiabe della tradizione popolare russa individuò dei loop, ovvero delle situazioni che tendono a ripetersi o ritornare nella narrazione. Li divise in personaggi-tipo e in funzioni/azioni ricorrenti. Andiamo a vedere i personaggi-tipo riletti in chiave punx.
Il potere: chi (individuo, istituzione, sistema) opprime il protagonista.
Il detonatore: il personaggio (positivo o negativo) che dà la motivazione al protagonista di iniziare la sua lotta di ribellione al sistema o di resistenza all’oppressione.
Gli ultimi / le ultime: chi subisce l’oppressione e non ha (o non ha ancora) i mezzi per lottare / resistere.
Compagno/compagna: la persona che aiuta il protagonista nella sua ribellione / resistenza attraverso le sue azioni.
La rivoluzione o l’essere liberi/e: meta e traguardo della ribellione / resistenza raggiungibile soltanto sconfiggendo il potere e distruggendo la situazione di oppressione del protagonista, del compagno / della compagna e degli ultimi / delle ultime.
L’icona: il personaggio che prepara, ispira e accompagna il protagonista attraverso le sue azioni, le parole, l’arte, la musica o il suo martirio.
Il/la protagonista: colui che, ispirato dall‘icona e motivato dal detonatore, aiutato dal/dalla compagno/a sconfigge il potere e conquista la libertà o innesca la rivoluzione.
Il servo dei servi: la persona che strumentalizza le azioni del protagonista o lo annichilisce, criminalizza il detonatore e/o l’icona, mistifica la rivoluzione, minaccia l’essere liberi, annichilisce il protagonista per leccare il culo al potere o replicare le stesse dinamiche del potere.
Spesso, uno stesso ruolo può essere ricoperto da più personaggi oppure, per converso, uno dei personaggi potrebbe ricoprire più ruoli.
D.I.Wild n.3 ・laboratori, autoproduzioni e arti selvagge・
★ PROGRAMMA ・SABATO 8 GIUGNO 2019 ★
11:00・COLAZIONE
Chi arriva per tempo troverà una bella tavola imbandita per fare colazione. Offre VillaPunk! In mattinata sistemeremo gli spazi e organizzeremo i laboratori, una mano è più che gradita.
13:00・ PRANZO
Pranzo con tramezzini, stuzzichini e dolcetti veg a cura del laboratorio di gastronomia vegetale “La zappa e il Mestolo”
“La zappa e il mestolo” nasce dalle passioni di due ragazzi che si sono unite. Abbiamo scelto di utilizzare ingredienti stagionali di origine biologica, provenienti da circuiti virtuosi locali, certificati ufficialmente o tramite il metodo della garanzia partecipata. Cuciniamo le materie prime con cura, utilizzando metodi che ne preservano al meglio le qualità nutrizionali e NON utilizziamo uova, latte o derivati animali, conservanti.
—————————
14:00・LAB. LINOCUT
Dimostrazione e spiegazione della tecnica. Saranno a disposizione materiali per intaglio su linoleum. Le matrici realizzate verranno stampate il giorno seguente su carta riciclata attraverso una pressa pneumatica autocostruita.
Laboratorio a cura di: [DisAssTro]
DisASStro sono due froci che attraverso l’autoproduzione sottolineano le affinità tra Queer e Punk. Il loro background spazia dal piccolo artigianato alle arti applicate ma i loro punti di forza sono la serigrafia, l’incisione su linoleum e un sex appeal della madonna.
—————————-
15:00・LAB. CATAPLASMI
Durante il workshop verrà spiegato come come si raccolgono e a cosa servono alcune erbe che poi utillizzeremo per fare due tipologie di cataplasmi. Uno per irritazioni vaginali da fare con piante secche e uno per dolori muscolari o contusioni distorsioni da fare in caso d’emergenza con piante fresche.
Laboratorio a cura di: [Luca dei Boschi – Yggdrasill]Il Progetto Yggdrasil nasce dall’idea di promuovere la permacultura nel contesto montano tra gli 900 e i 1100 metri. Si svolge nel territorio comunale di Frassinoro nell’appennino modenese. L’amore per le erbe officinali e le tradizioni antiche di medicina popolare ci ha spinto a creare un giardino botanico in cui è racchiusa una parte delle erbe che spontaneamente nascono nell’appennino Tosco-Emiliano. Partendo da questa semplice idea, abbiamo cominciato a lavorare i nostri terreni allo scopo di autoprodurre il nostro sostentamento. Il nostro scopo è quello di collaborare come parte integrante della nostra terra per nutrire e rendere vivo il terreno che ci ospita, lavorando insieme alla natura, piuttosto che contro di essa.
—————————-
16:00・LAB. CARTA RICICLATA
Carta canta. Laboratorio di autoproduzione della carta, riciclando fogli dalla spazzatura. Il workshop prevede la costruzione dei telai, la preparazione della carta, la colorazione naturale… e il giorno dopo li serigrafiamo!!
Laboratorio a cura di: [Lara e Kate – Ricette dal Caos]
Ricette dal Caos per LungiDaMe, la fanzine anarchica, aperiodica e accidentalmente punk. Ricette dal Caos è una rubrica dedicata all’autoproduzione e alla creatività. Una guida di sopravvivenza urbana al capitalismo e all’industrializzazione, che hanno generato prodotti inutili e dannosi da poter “liberamente” scegliere nelle corsie del supermercato. Ricettario ironico di alternative semplici e naturali, di scambio e controinformazione, per volgersi con il sorriso alla ricerca di una libertà reale attraverso la riappropriazione del tempo e della qualità delle esistenze di tutti i viventi.
—————————-
17:00・LAB. SCRITTURA FURIOSA E AUTOPRODUZIONE DI STORIE
Impariamo a raccontarci prima che siano “loro” a farlo per noi. Immaginatevi di voler registrare un disco e dover aspettare che sia una grossa etichetta discografica a occuparsi della produzione, della distribuzione e della promozione. Immaginatevi di voler suonare dal vivo, ma di dovervi per forza relazionare (e scendere a patti) con locali non troppo lungimiranti che cercano il profitto certo e ti chiedono perché dovrebbero far suonare voi, quando la cover band di Bon Jovi gli riempie il locale. Dimenticatevi il punk, i concerti negli spazi autogestiti e i dischi passati di mano in mano nelle distro.
Ecco, al momento – a parte rarissime eccezioni – scrivere e fare letteratura vuol dire più o meno questo. Se è vero che le nostre distro sono piene di opuscoli e saggistica militante, è altresì vero che è più difficile trovare testi di narrativa o poesia. Diffondere questi scritti, per chi ha questa urgenza – non molto diversa dal voler stare su un palco con uno strumento in mano o registrare la propria musica – vuol dire troppo spesso trasformarsi forzatamente fino a diventare un prodotto vendibile su quel mercato contro cui ci opponiamo. Eppure continua a esistere, più o meno sommerso, un modo nostro di raccontarci che non si limita alla retorica politica o ai titoloni indignati e acchiappa clic della “loro” stampa. Come farlo emergere? Facciamo in modo di armare le parole e che le nostre storie siano libere, furiose e ovunque come ratti infetti. Che peste li colga!
Per chi volesse partecipare al laboratorio consiglio di:
inviare un breve racconto (possibilmente con ambientazione punk e/o di lotta) a valeria.disagio@gmail.com
lasciare a casa la vergogna, il pudore e l’inedia perché scrivere non è esibirsi, ma darsi.
un bel quadernone (quello più trash vince cose).
Laboratorio a cura di: [Valeria Disagio]
Valeria nasce un lunedì di pioggia del novembre del 1982 a Varese. Diventa “Valeria Disagio” sull’orlo estremo tra l’adolescenza e l’età adulta. Ha esordito giovanissima con il romanzo “Casseur: la lotta, l’ebbrezza e la Città Giardino”. Poi ha perso parecchio tempo nella precarietà del lavoro e nell’inquietudine politica. Ha scritto molti racconti, pamphlet e poesie. Ha gestito un blog – da cui è nato il libro “Discount or die” edito dalla Nottetempo -, ha curato fanzine e cantato in collettivi punk. Ha intenzione di continuare a fare tutto questo.
—————————-
18:00・LAB. SERIGRAFIA
Durante il laboratorio realizzeremo insieme alcune grafiche e le impressioneremo su dei telai serigrafici. Verrà dimostrata e spiegata la tecnica di incisione. Con i telai realizzati il giorno seguente stamperemo tshirt e shopper.
Laboratorio a cura di: [PaDiy – DisAssTro – NuclearChaos]
PaDiy è Paola: serigrafa e artista militante, vive e lavora principalmente a Bologna e si occupa di graphic design – illustrazione e autoproduzioni. Insieme a DisASStro e NuclearChaos vi farà entrare nel coloratissimo e appiccicoso mondo della serigrafia.
—————————-
20:30・CHIUSURA LABORATORI
—————————-
DALLE 20:30・Stella Nera
Dalle 20:30 ci spostiamo tutti a Stella Nera in via Folloni 67 a Modena (15 minuti di macchina) per la pizzata cotta in forno a legna e concerto After Work Party D.I.Wild con:
– Medicamentosa – Ich.Bin.Bob – So Beast – Ganf
★ PROGRAMMA ・DOMENICA 9 GIUGNO 2019 ★
10:00・COLAZIONE
Chi arriva per tempo troverà una bella tavola imbandita per fare colazione. Offre VillaPunk!
11:30・LAB. BIRRA AUTOPRODOTTA E SOVVERSIVA
Introduzione alla birrificazione casalinga. Durante il workshop faremo una cotta di 20 litri di birra, english pale ale. La stessa birra che verrà spinata durante il D.I.Wild!
Laboratorio a cura di: [Riccardo – Brew Sov]
Brew Sov è un progetto nato una dozzina di anni fa da un giovane anarcopunk beneventano che voleva autoprodursi anche la birra che beveva, oggi la fermentazione continua fra le mura occupate dello Janara Squat.
13:00・ PRANZO
Pranzo con panini veg con burger di stagione e hot dog veg con patate arrosto a cura del laboratorio di gastronomia vegetale “La zappa e il Mestolo”
—————————
14:00・LAB. LINOCUT
Durante il workshop stamperemo su carta riciclata attraverso una pressa pneumatica autocostruita le grafiche realizzate il giorno precedente.
Laboratorio a cura di: [DisAssTro]
—————————-
15:00・LAB. ERBE OFFICINALI
Il laboratorio esplorerà i molteplici utilizzi che possiamo fare delle erbe, fiori e piante a nostra disposizione. Dal riconoscimento all’utilizzo delle piante medicinali, si proporrà la produzione di uno sciroppo, di una tintura e di unguenti, attraverso i diversi processi di trasformazione ed esponendo le proprietà coinvolte in ognuno di essi, fino ad arrivare al prodotto finito, tra nozioni di storia e folklore.
Laboratorio a cura di: [Limbs Disarm]
Laboratorio proposto da Limbs Disarm, collettivo coinvolto da anni in svariati aspetti dell’autoproduzione: dalla coltivazione sinergica e cosmesi naturale, alla stampa serigrafica underground e riproduzioni artistiche di elementi che vanno dal periodo Neolitico all’epoca vichinga, in un vortice di punk, storia e leggende.
—————————-
16:30・LAB. BUCATO DA CAPO
Laboratorio di autoproduzione di detersivi per lavatrice. Durante il laboratorio verranno realizzati semplici prodotti ecologici, sostitutivi ai prodotti chimici distribuiti su larga scala, per lavare, disinfettare, profumare e ammorbidire il nostro bucato.
Laboratorio a cura di: [Lara e Kate – Ricette dal Caos]
—————————-
17:30・LAB. SERIGRAFIA
Saranno presenti due bracci serigrafici autoprodotti dove poter stampare borsette con le grafiche del D.I.Wild. Se vuoi porta una maglia da stampare!
Laboratorio a cura di: [PaDiy – DisAssTro – NuclearChaos]
—————————-
19:00・CHIUSURA LABORATORI E MOIJTO PARTY a cura di VillaPunk
—————————-
DALLE 20:00・PIZZA CON FORNO A LEGNA a cura di VillaPunk
Sforneremo pizze fatte con ingredienti bio, cotte nel forno a legna autocostruito con terra cruda durante il D.I.Wild del 2014.
—————————-
EXTRA
LAB DJ SET Dalle 16:00 entrambi i giorni Lele e Tino ci faranno da sottofondo con il loro djset – Porta i tuoi dischi e impara a mixare! [SCS Crew]
LAB. FOTOGRAFIA Entrambi i giorni il Coll. SusyRec. scatterà foto reportage dell’iniziativa. [SusyRec. Collective]
—————————- —————————-
>>>>>FAQ<<<<<
Cos’è “D.I.Wild”? D.I.Wild è un’iniziativa nata spontaneamente. Una voglia di condividere esperienze, tecniche, saperi. E’ una giornata di laboratori-workshop-spiegazioni-dimostrazioni-birrefredde-cibobuono-manisporche-condivisione-pratiche libertarie-libertà-diy.
Quanto costano i workshop? Mi devo iscrivere?
I laboratori sono gratuiti e senza iscrizione. Se vuoi e puoi è gradita una sottoscrizione per le spese dei materiali.
Dov’è VillaPunk? Cos’è VillaPunk? VillaPunk è una casa di campagna. Non è nè un Centro Sociale nè uno Squat. Ma è un luogo, o meglio, uno spazio dove ci piace sperimentare cose nuove. Dove cerchiamo di mettere in pratica esperienze di autogestione pregresse. VillaPunk sta vicino a CastelfrancoEmilia. Non è questo il mezzo per diffonderne l’indirizzo. Molta gente negli anni è passata di qui e sa come arrivarci, ma nel caso tu venissi per la prima volta, manda un’email o chiama per sapere le indicazioni. Arrivarci è facile!
Come si svolgono questi Laboratori? I/le ragazz* coinvolt* che seguiranno questi laboratori non sono insegnanti (qualcuno si in realtà). Non aspettarti corsi avanzati con materiali infiniti. Chi seguirà i laboratori metterà a disposizione quello che può per rendere il workshop il più funzionale possibile. Ogni laboratorio avrà un proprio orario (da una a tre ore massimo) per poter permettere a tutti gli interessati di partecipare e sopratutto condividere esperienze e nozioni. Se sei pratico di qualcosa e vuoi proporre “cose tue”, porta materiali/attrezzi e vedrai che ogni laboratorio sarà migliore.
Posso proporre anche io qualcosa? Posso portare mie autoproduzioni da vendere? Puoi proporre le tue autoproduzioni in uno spirito di collettivismo delle tecniche. Questa iniziativa non è una fiera, nè un mercato. Non vogliamo gente che siede aspettando di vendere “merce”. Quindi porta pure le tue autoproduzioni (anche un tavolino se riesci) e preparati qualcosa che spieghi a tutti quello che fai. Se poi vuoi proporti per un Workshop scrivici e vediamo se riusciamo ad organizzare qualcosa insieme.
Si mangia? Si beve? Si cena? Ci si ubriaca? I pranzi saranno a cura del laboratorio di gastronomia vegetale “La zappa e il Mestolo”. Il menù sarà sempre vegan e biologico: tramezzini, stuzzichini e dolcetti veg per il sabato e panini veg con burger di stagione e hot dog veg con patate arrosto per la domenica. I prezzi del bar saranno comunque bassi e sono di autofinanziamento per l’iniziativa e, si spera, per iniziative future, quindi il bere non portartelo da casa, ci pensiamo noi! La birra spinata sarà della Brew Sov, birrificio autoprodotto sovversivo.
Sumida è il nome del fiume che attraversa Tokyo. Navigandolo è possibile vedere lungo i suoi argini, centinai di piccoli rifugi costruiti con materiale di recupero, cassette di legno, rottami e gli inconfondibili teli blu impermeabili che proteggono dalle piogge le abitazioni di fortuna dei senzatetto della città.
Sumida è anche il nome di un quattordicenne che abita con la madre alcolista in un piccolo capanno in cui si noleggiano imbarcazioni, protagonista di “Himizu”, manga di Furuya Minoru del 2000 e poi film diretto da Sion Sono nel 2011. Anno dell’inenarrabile catastrofe del 11 marzo che ha piegato le gambe al Paese. Eppure Sion Sono prova a narrarcela, attraverso la storia di Sumida e del suo piccolo capanno in cui si svolge buona parte della storia. Tra il fiume e l’umile abitazione ci sono solo pochi metri di fango e sassi e più in là, verso l’orizzonte, un altro capanno sommerso per metà dall’acqua. Sumida ed i suoi vicini di casa, alcuni senzatetto a cui lui permette di usare il proprio bagno, spesso indugiano e contemplano il rudere sommerso.
«Mi ricorda quello che è successo» urla uno di loro. «Lo faremo sparire. Lo toglieremo da lì» lo rassicura il più anziano, un imprenditore che ha perso tutto a causa dello tsunami. Eppure da lì, nessuno lo muove e lì rimane fino alla fine.
Per evidenti ragioni cronologiche il fumetto di Furuya Minoru, pubblicato su Young Magazine tra il 2000 e il 2001, non affronta la questione della catastrofe, ma focalizza la sua attenzione sulla vicenda personale di Sumida e dei suoi amici, cristallizzando le loro vite nell’attimo preciso in cui si stanno preparando al passaggio dall’adolescenza all’età adulta, in un mondo in cui però non esiste saggezza. Gli “adulti”, quelli che dovrebbero guidare e aprire la strada ai più giovani, sono madri alcoliste e assenti, padri disonesti e violenti, ladri amorali e pederasta bugiardi. Gli amici di Sumida (nel manga) sono Akada con il suo grande sogno di diventare mangaka seguendo le orme del fratello maggiore, ma che ha fretta, troppa fretta. C’è Yoruno, il cui unico sogno è quello di fare soldi ad ogni costo e Keiko Chazawa, ragazza enigmatica e cupa, innamorata di Sumida che invece, di sogni non ne ha e non vuole averne.
L’assenza di saggezza degli adulti, nella trasposizione cinematografica del manga, assume una doppia valenza: quella emotiva e quella sociale. Che mondo stiamo lasciando ai nostri figli? Le notizie delle evacuazioni, delle contaminazioni nucleari e del disastro dello tsunami, gracchiate dai notiziari accompagnano come un mantra il percorso emotivo e psicologico di Sumida.
La devastazione ambientale, l’assenza di morale, la celebrazione di falsi miti sono come un cappio che i genitori stessi stringono attorno al collo dei propri figli. Come la madre, viziata e psicolabile di Chazawa, che sta costruendo una forca nella sala da pranzo su cui si dovrà impiccare Chazawa.
«Lei è la rovina della nostra felicità» piagnucola la madre intanto che con il padre, vernicia e decora la forca destinata alla figlia. «Senza di te, andava tutto bene» dice invece il padre di Sumida, biasimandolo per non essere morto da piccolo nel fiume. «Avrei riscosso l’assicurazione se non ti fossi salvato» gli confessa ogni volta che è ubriaco.
L’egoismo dei padri rende insostenibile il confronto con i figli e la loro stessa coesistenza, come se questi ultimi fossero la prova concreta e fatta carne del loro fallimento. E quando lo scontro tra Sumida e suo padre raggiunge l’apice, vediamo i due uomini stesi uno accanto all’altro. Sumida si rannicchia in posizione fetale nella fossa che ha scavato per il padre. Piange ed urla disperato. È immerso nel fango, come neonato ricoperto di placenta che viene dato alla luce dalla terra, pronto ad iniziare la sua nuova vita. Quale? Quella di una personale normale. Un adulto “decente” e onesto, come spesso afferma.
«Non so distinguere il bene dal male» confessa il ragazzo a Chazawa, quando decide di dedicare la sua vita a “ripulire” la città dalle persone cattive, per rendersi utile alla società. Persone cattive e perdenti, come quel ragazzo sull’autobus che, rimproverato da una donna anziana per non aver lasciato il posto ad una donna incinta, reagisce accoltellandola. «Che fine ha fatto la buona educazione?» lo incalza, prima di venir trafitta dal coltello.
Ed è sullo scontro generazionale, sulle colpe degli adulti che ricadono sui più giovani, che Sion Sono decide di raccontare il disastro ambientale (e sociale) dell’11 marzo. Un mea culpa, una confessione di una generazione cresciuta col mito dello sviluppo e della ricchezza, senza se e senza ma, che sta lasciando le rovine di un mondo arido e devastato alle generazioni future.
«Lasciami perdere. Che cosa vuoi? Quello che faccio è una mia scelta» gli dice una donna in biancheria intima, ricoperta di lividi che va a buttare la spazzatura con una catena attaccata alla caviglia. Sul suo corpo nudo c’è scritto “puttana”. Come una società malata, incapace di fare i conti con se stessa, che si crede consapevole e padrona del proprio misero destino. «Non bisogna arrendersi» urlano Sumida e Chazawa correndo, con le immagini della devastazione del Sendai come sfondo.
Un giorno di novembre del 1968 ha visto la luce il White Album dei Beatles, che si rivelerà il disco più venduto – e forse il migliore – della band di Liverpool. La copertina, dopo lo sfarzo caleidoscopico di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, è completamente bianca, se non fosse per il nome in rilievo visibile solo in controluce.
1Q84 di Murakami Haruki, per tanti e diversi motivi, può essere considerato il suo White Album. Quell’opera insomma, che sia un film per un regista, un album per una band o un libro per uno scrittore, capace di esprimere in tutta la sua complessità l’essenza stessa dell’artista. Qualcosa che può e dovrebbe essere fruito e conosciuto, senza paragoni o confronti con quello che c’è stato prima e che potrebbe venire dopo. Si potrebbe dunque parlare di 1Q84 senza doverlo confrontare con le produzioni passate dell’autore, aprendo però una piccola parentesi. Molti lettori hanno conosciuto Murkami con Norwegian Wood / Tokyo Blues(titolo cangiante a seconda delle edizioni) e ne sono rimasti delusi. Sebbene sia uno dei suoi libri più conosciuti e letti, come scrive lo stesso Murakami, nell’introduzione dell’edizione italiana del 2006, edita da Einaudi e tradotta da Giorgio Amitrano, si tratta di un esperimento, una distrazione e un gioco (nonostante la gravosità del dramma esistenziale narrato) ricercato come forma di divagazione e/o smarrimento volontario dal suo romanzo-tipo. Una sorta di vacanza da se stesso, insomma, per cui sarebbe errato giudicare la sua intera produzione. 1Q84, del White Album, oltre all’importanza, dovrebbe condividerne anche la copertina: tutta bianca che riporta solo il nome dell’autore e il titolo dell’opera e niente più. Senza sinossi, riassunti o spiegazioni perché ogni informazione condivisa in modo così diretto ed esplicito, ci impedisce di scoprirla e di conquistarla, goccia dopo goccia, sapientemente distillata dallo stile a tratti ipnotico dello scrittore.
Leggere 1Q84 vuol dire farsi accompagnare da Murakami nel disvelamento di alcune (non tutte) delle numerose, intricate e a tratti spaventose questioni, che compongono questo mastodontico testo di oltre mille pagine nella sua interezza. Bisogna chiudere gli occhi, abbandonare ogni freno dettato dal raziocinio e tuffarsi in quel 1Q84, anno distopico, in cui tutto può accadere. Può succedere per esempio che sei piccoli omini che parlano in coro e cantano «hoo-hooo», nati dal cadavere di una capra in stato di decomposizione, costruiscano una crisalide d’aria per generare l’erede del leader spirituale di una misteriosa e potente setta di ex intellettuali, che si sono dati all’agricoltura biologica. Come è possibile concepire figli senza rapporti sessuali e che un esattore in pensione della NHK, l’emittente di Stato, continui il suo giro di riscossione del canone nonostante sia in coma. Un mondo, un universo parallelo, in cui in cielo brillano due lune e le civette danno saggi consigli. Questi sono alcuni degli elementi satellitari di quella che è la storia principale. O meglio, le storie, perché la trama è scissa e procede come binari paralleli che sembrano destinati a non incontrarsi mai. I personaggi principali sono due: un uomo ed una donna di circa trent’anni. Il primo è Tengo, insegnante di matematica, aspirante scrittore, che accetta di riscrivere un romanzo di fantascienza scritto da un’enigmatica diciassettenne dislessica. E poi c’è Aomame. Si parlava del White Album e del fatto che anche 1Q84 meriterebbe una copertina bianca e silenziosa, ma così non è stato. L’edizione italiana per i tipi di Einaudi, che consta di due libri, al contrario dei tre previsti nell’edizione giapponese (nella versione italiana i primi due sono raccolti in un unico volume), nella quarta di copertina riporta alcune semplici righe che ci dicono qualcosa. Ci dicono, per esempio, che Aomame è “spietata e fragile. È un killer che in minigonna e tacchi a spillo, con una tecnica micidiale ed impalpabile, vendica tutte le donne che subiscono violenza”. Informazioni che il lettore invece dovrebbe scoprire poco alla volta, scrutando nella stessa anima e nella storia personale della donna, dopo un’introduzione a tratti Lynchiana del personaggio.
Murakami infatti ci presenta Aomame lentamente e, senza fretta o impazienza, ne descrive le azioni apparentemente convenzionali, come prendere un taxi, rimanere imbottigliata nel traffico, aver paura di fare tardi e prendere una decisione avventata, fino a quando, con la stessa pacatezza, c’informa che custodisce un’arma letale nella borsetta. Tutto questo senza che il ritmo subisca scossoni o slanci tipici di chi vuole creare senzientemente un senso di suspance e mistero. Nessuno di quegli artifici insomma, atti a catturare l’attenzione del lettore. No, Murakami non smette mai, neanche nei momenti di massima tensione, anche a costo di innervosire il lettore con le sue descrizioni ultra-dettagliate e ripetute all’ossesso (il piccolo seno di Aomame, la testa deforme dell’investigatore privato Ushikawa, il sesso di Tengo, le piccole orecchie della giovane Fukaeri, la loro routine quotidiana…), di descrivere tutto con lentezza e parsimonia. Lento e ripetitivo come un pendolino che fa tutte le fermate senza frenate brusche o accelerazioni improvvise. A tratti meccanico, come le giornate dei due protagonisti, Tengo e Aomame, che conducono le loro vite come se stessero galleggiando nel liquido amniotico. Soli, senza amare o essere amati. Uccidono, fanno sesso e poi mangiano, lavorano, frequentano persone, senza mai vivere a pieno la loro esistenza.
Il contesto.
Tengo è il figlio di un esattore della NHK vedovo e Aomame appartiene ad una famiglia di religiosi fondamentalisti. I due, bambini, sono obbligati dai genitori a peregrinare di casa in casa per compiere la loro missione. Riscuotere il canone il primo, fare proselitismo la seconda. Entrambi si vergognano e hanno difficoltà ad integrarsi a scuola. Un giorno, dopo l’ennesima umiliazione subita dalla piccola Aomame, Tengo la difende e decide di proteggerla dalla ferocia e dalla crudeltà degli altri bambini. Da quel momento, tra i due, si stabilisce un legame eterno ed inviolabile che li accompagnerà per tutta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta, nonostante vengano separati dalle vicende della vita. Come due binari – è stato scritto – come due binari che sembrano destinati a non incontrarsi mai, fino a quando, in modo differente, i due entreranno senza accorgersene nel 1Q84, un 1984 alternativo, la cui Q rappresenta la Q di “question” (il 9 in giapponese si pronuncia “kyu”, come la Q in inglese) che è il nome attribuito dalla stessa Aomame, alla sua “condizione” nel momento in cui capisce di non essere più nel mondo che aveva sempre conosciuto. Tengo si ritroverà in quell’universo parallelo con due lune in cielo, nel momento in cui decide di riscrivere La crisalide d’aria, un romanzo scritto dalla giovane Fukaeri che si scoprirà essere la figlia del leader del Sakigake, una setta nata negli della contestazione giovanile e carica di segreti. Nel romanzo di Fukaeri si raccontano fatti apparentemente privi di senso, come la nascita dei misteriosi ed inquietanti Little People, dalla bocca di una capra in stato di decomposizione o della presenza di due lune in cielo: una grande e bianca simile a quella di sempre ed un’altra più piccola e verde che brilla di fianco alla prima. Ciò che Tengo scrive nel romanzo, poco alla volta, tende a sostituirsi con la realtà portando il lettore stesso, a perder il senso di ciò che è finzione e ciò che è finzione nella finzione. Nello stesso momento in cui Tengo riscrive La crisalide d’aria, Aomame viene attirata come da un magnete e catapultata nel 1Q84, e finirà per avere una parte fondamentale nella storia, quando le verrà chiesto di uccidere il Leader del Sakigake che si è macchiato dell’orribile crimine di violentare le figlie dei seguaci della setta.
1Q84 riesce ad essere un thriller, un libro di fantascienza, una storia d’amore ed un meta-romanzo senza però subire nessuna delle convenzioni dei differenti generi. D’altronde Murakami lo farà dire ad uno dei suoi personaggi, Tamaru, il “gorilla” omosessuale alle dipendenza dell’anziana signora che commissiona gli omicidi di Aomame, che Checov sbagliava nel dire che «se in un romanzo c’è una pistola, quella pistola deve sparare». Rifiuto delle regole dunque, ed infatti tanti enigmi non verranno svelati e anche quando il lettore crede d’intuire un senso, questo verrà messo a dura prova, smontato e destrutturato dagli eventi stessi, lasciando tanti “perché” sospesi come pistole che non sparano e proiettili inesplosi. Prima di essere un libro, 1Q84 è una serie di universi. Ogni singolo personaggio meriterebbe un romanzo a sé. Grazie anche al suo stile ipnotico, riesce a far entrare a piedi pari in quel mondo tanto magico quanto inquietante. Al punto tale che, una volta terminata la lettura, ci si ritrovi con gli occhi verso il cielo a controllare che in alto non splendano effettivamente due lune.