Da Lungidame #01

DELL’ESSERE FEMMINA OLTRE LA SPECIE

Ode alla selvatichezza, leggendo “Il Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir, guardando “Antichrist” di Lars Von Trier e salmodiando T.S. Eliot.

Foto di Silvia Polmonari

Ti sei sentita strega. Come tutte. Indossato cristalli, studiato le erbe, bruciato la Bibbia e hai rinnegato dio. Ti sei sentita parte di una sorellanza. Unita alle tue simili, da qualcosa di più forte del semplice essere nata con la figa e di sanguinare una volta al mese.

Maga. Capace di destreggiarsi con ciò che la razionalità non può spiegare, così come il tuo cuore. Quel mondo che non capivi. Quelle regole non scritte che ti escludevano, dai giochi e le libertà riservate ai maschi. Dal tuo dover essere diligente, pacata ed educata. L’obbligo di indossare la parte alta del costume anche se il tuo petto non era molto differente da quello dei tuoi amici maschi. I sacrifici di tua madre. Le sue rinunce. La condanna degli uomini della tua famiglia a certe femmine vestite in modo troppo appariscente, troppo sboccate, che uscivano quando il sole era calato. E i vecchi che tiravano fuori il cazzo all’uscita da scuola. Gli strusciamenti accidentali sui mezzi pubblici. Il non poter camminare da sola senza avere paura nel sentire una macchina che rallenta alle tue spalle. E quella paralisi che ricorda un sorriso all’ennesimo commento non richiesto sul tuo aspetto fisico. Dei minuti passati davanti ad un armadio per cercare vestiti in grado di celare la tua femminilità. Perché rispondere male non è da signorina. Perché a rispondere male poi pensano che non scopi abbastanza e che una scopata è quello che ti ci vorrebbe per ammansirti. E in tal caso, i volontari non mancano. Buoni samaritani.  

Strega. Perché solo chi conosce i misteri più reconditi e conosce la magia può spiegare una società apparentemente priva di senso. Eppure non c’è nulla di occulto in tutto questo. Niente di “dato” o caduto dal cielo. Tutto è molto razionale e concreto. Tutto parte dal tuo sangue. Minore in quantità rispetto a quello degli uomini. Il che spiega le più rapide pulsazioni, il batticuore e quella tendenza ad arrossire non certo dovuta ad un’emotività precaria o infiammabile. O alla minor forza fisica, da non confondere con la debolezza, di quelle carni composte da grasso e ciccetta, a discapito del tessuto muscolare. E ancora sangue – che gli anglosassoni definiscono “curse”, maledizione – che ogni mese oltre a farti rivedere le posizioni sull’uso della bomba ad Idrogeno, ti porta via una grossa quantità di calcio, incasinandoti le ovaie, stressando la tiroide e determinando un’inevitabile e innominabile sindrome pre-durante e post mestruale.

L’umore è chimica. Ed è la natura che ti ha reso diversa dagli uomini. Eppure nelle società primitive questa differenza non era istituzionalizzata e nessuna legge ti subordinava all’uomo. Poiché non vi erano né leggi né istituzioni e ci si accoppiava come bestie e dubito che tu abbia mai provato un orgasmo, ma l’aspetto positivo di essere una donna delle caverne era che l’ineguaglianza era peculiarità e non un tuo deficit. O una mancanza dell’una rispetto all’altro. Eppure era destino che le cose cambiassero. E intanto che stavi nella tua grotta a far figli senza provar piacere e svezzarli – poiché quella è la tua dote innata e ciò a cui il tuo corpo è predisposto, il tuo destino biologico – gli uomini della tribù andavano a caccia, costruivano utensili ed armi, facevano battaglie, uccidevano e morivano per mano di altri. Toglievano e perdevano la vita, non per processi vitali e naturali, ma per delle attività di un livello “superiore” che trascendono la condizione base dell’animale. L’uomo Faber, che fa cose e inventa il concetto di dignità e orgoglio del fare, mentre tu non fai mica niente di speciale. Assecondi la tua natura.

“La femmina è più del maschio in preda alla specie; l’umanità ha sempre cercato di evadere al suo destino specifico; con l’invenzione dello strumento la conservazione della vita è divenuta per l’uomo attività e fine, mentre la donna nella maternità restava incatenata al suo copro, come l’animale. È l’attività maschile che, creando valori, ha costituito l’esistenza stessa come valore; essa ha prevalso sulle forze oscure della vita; ha asservito la natura.”

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir

Ma poi un seme venne piantato e ci si rese conto che la fecondità della terra può essere controllata, organizzata e sfruttata grazie alla tecnica. L’uomo scopre la causalità. Il principio di causa ed effetto, la differenza tra soggetto e complemento oggetto e la divinazione del predicato, dell’azione. Il metallo reagisce sempre nello stesso modo se sottoposto a determinate temperature o pressioni. Il seme piantato germoglia se si ara la terra e la si bagna. Muore o viene mangiato dagli uccelli se lasciato al caso. E ci vorranno millenni per riaccettare il “caso” e la spontaneità con la permacultura – l’agricoltura del non fare – ma questa è un’altra storia, a quei tempi la terra andava lavorata, soggiogata, poiché attraverso la terra si mangiava e si viveva, proseguiva la specie nel passarla ai figli (in cui ci si compie e ci si supera), si sopravviveva in un certo senso alla morte, si sconfiggeva il tempo. Non c’era spazio per la casualità. Ogni seme non germogliato era la sconfitta dell’uomo sulla natura. E non è forse la stessa cosa della morte, ogni forma di vita inespressa?

E ti viene in mente quel film che tanto ti ha spaventato. Nei hai visti tanti di film dell’orrore. Di bocche cucite a culi e porno neonatale, di ogni forma di tortura e violenza… eppure quello ti è rimasto dentro. Ha toccato certe corde. Ti ha fatto sentire male in posti in cui non credevi esistessero terminazioni nervose. Un uomo ed una donna sono in un capanno in un bosco che chiamano Eden. Hanno perso un figlio che è caduto dalla finestra intanto che scopavano. Eppure è lei che si sente responsabile della sua morte. Che si rimprovera per la sua disattenzione. È lei che ha un crollo emotivo che la obbliga per un mese in una clinica. Ed è il marito che decide di portarla via da quell’ospedale in cui la investono quotidianamente con un tir di sedativi e psicofarmaci perché considerano atipica la sua elaborazione del dolore – guai a colorare fuori dai bordi o la maestra ti sgrida!

“È successo qualcosa che mi ha spaventata. Ho sentito un pianto provenire dal bosco, ma non ho trovato nessuno che piangeva. Poi ho capito che era il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”.

Lei, Antichrist, Lars Von Trier

Lui e Lei (non hanno nome) sono soli nell’Eden e lei racconta di querce centenarie. Querce che lasciano cadere incessantemente una grandine di ghiande sopra il soffitto di metallo del capanno, producendo un rumore assordante e persecutorio. Lei racconta che ad una quercia basta che una singola ghianda germogli ogni cento anni, per garantire la successione della specie. E tutte quelle ghiande che cadono e li tormentano? Sono allo stesso tempo simbolo di vita e di morte. Vita in potenza e minaccia di morte. Come una cerva che partorisce un cerbiatto morto in una delle visioni attraverso cui l’inconscio e l’ignoto fanno visita a Lui – spiegandogli robe che il pensiero logico e razionale non percepisce, non vuole vedere.  

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.

The Burial of the Dead”, Wasteland, T.S. Eliot

Non è la putrefazione stessa una forma di rivincita della vita – altra – sulla morte? E non è la stessa natura che reca in sé la vita e la morte?

Era estate e Lei era seduta sul prato, quando da un albero cadde un pulcino (germoglio, vita in divenire), brulicante di formiche (morte e decomposizione) per poi essere dilaniato dal becco e gli artigli di un rapace (la madre?) che se ne nutre riportandolo sull’albero, centrifugandolo ancora nel ciclo infinito ed estenuante della vita e della morte.

“Il caos regna” sillaba una volpe che si lacera coi denti la sua stessa carne decomposta, nella seconda visione di Lui.

“La natura è la chiesa di Satana” sussurra Lei che ha capito cose che lui non può neanche concepire. La natura è malvagia e lei lo sa bene, in quanto donna. Mentre Lui, l’uomo razionale, inventore della volontà sovrana, successore dell’homo faber, è convinto che il successo non dipenda dagli dèi, ma da lui stesso. Al contrario di te – femmina – la cui individualità va rivendicata a discapito della specie che ti chiede di abdicare. No, non sei solo genitrice, non sei un’incubatrice mobile, non sei donna solo perché puoi partorire e allattare dei figli. Sei anche altro. Sebbene il tuo corpo, più di quello degli uomini, sia controllato dalla natura.

“Si direbbe che il suo destino si faccia tanto più pesante quanto più ella si ribella affermandosi come individuo”,

“Il Secondo Sesso”, Simone De Beauvoir.

“Le donne sono malvage perché è la natura che controlla il corpo delle donne. La natura di tutte le sorelle è malvagia, perché è la natura stessa ad esserlo” confessa Lei ad un Lui che non ha più pazienza di ascoltarla.

Nature is a whore, cantava Kurt Cobain che hai ascoltato fino all’ossesso da adolescente, dentro abiti troppo grandi e privi di forme. Indossando boxer maschili, rifiutando i baci. Vivendo il tuo corpo come una condanna. Poiché quel senso di castrazione e di Freudiana invidia del pene, non ha nulla a che fare con quell’oggetto – per quanto curioso e divertente – pendulo e mutaforma esclusiva maschile, ma ha che fare con quello che esso simboleggia. Il cazzo, simbolo di alcuni dei privilegi accordati ai maschi (no, entrare gratis nelle discoteche di merda non compensa in alcun modo tutto il resto). E in quei boxer e in quei baci negati, hai iniziato la tua rivendicazione virile. La tua battaglia per essere più forte di loro, più intelligente di loro e bere e scopare come loro, dimenticando una cosa. Una cosa importantissima…

Tu sei donna. Una femmina. In te abitano le stesse potenze oscure che abitano la terra. Userai le cose fino a quando non saranno consumate. Attimi tenuti insieme da graffette e colla che non è seme per questa terra che cancella i passi e cela l’orizzonte. Suoneranno come una lingua morta e dimenticata le regole sbiadite dettate da chi ti voleva fragile. E non chiederai scusa per aver scelto la notte, la lotta, la saggezza del grembo, la verità dei sospiri e per i capelli color degli spettri che hai tagliato a quella bambola, che ti avevano regalato da bambina. Non chiederai scusa per quella domanda che ti fai sempre all’arrivo del treno con gli occhi in bilico sul binario, quando pensi di non essere adeguata a questo mondo insensato. Imparerai a cacciare e a curarti da quella gatta che ha il respiro di tutte le femmine della storia. Ti nutrirai di ciò che è perduto per sempre, mangiando solo per mandar giù vino scadente e accantonerai i libri per ridere con uomini sbagliati. Lotterai per gli alberi spogli, i marciapiedi infuocati, il silenzio del tempo che nulla cicatrizza.

Ti chiameranno: furiosa.

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