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Valeria nasce un lunedì di pioggia del novembre del 1982 a Varese. Diventa “Valeria Disagio” sull’orlo estremo tra l’adolescenza e l’età adulta. Ha esordito giovanissima con il romanzo “Casseur: la lotta, l’ebbrezza e la Città Giardino”. Poi ha perso parecchio tempo nella precarietà del lavoro e nell’inquietudine politica. Ha scritto molti racconti, pamphlet e poesie. Ha gestito un blog – da cui è nato il libro “Discount or die” edito dalla Nottetempo -, ha curato fanzine e cantato in collettivi punk. Ha intenzione di continuare a fare tutto questo…
Ciao Valeria… Dobbiamo chiamarti “Disagio” o come?
Ah, Disagio va benissimo! È uno pseudonimo nato per puro caso, ma ormai mi ci sono affezionata! Dice molto di me e di come mi pongo nei confronti di ciò che mi circonda! Non volevo usare il mio cognome su Facebook e allora ho messo l’appellativo che usavo quando lavoravo nel sociale e dovevamo mappare l’utenza ma senza violarne la privacy. Allora al posto dei cognomi mettevo “disagio” come cognome…. Lorenzo Disagio, Silvia Disagio…. E così via. Col passare del tempo, il fatto di sentirmi a disagio rispetto a ciò che mi circonda, per me è diventato un manifesto. Qualcosa che ha costruito la mia identità e personalità in risposta agli stimoli e le bastonate esterne.
Vuoi raccontarci del tuo rapporto con la scrittura?
Ho sempre scritto. Da quando ho imparato a farlo. All’inizio era una valvola di sfogo. Ho iniziato a scrivere per rabbia perché i miei non mi avevano fatto entrare ad una festa di Radio Lupo Solitario perché ero troppo piccola! E per me, ai tempi, Radio Lupo solitario era tipo la cosa più meravigliosamente incredibile del mondo. Ricordo che io e la mia amica Oriana, sentendo tutte le pubblicità dei negozi di Gallarate, andavamo in pellegrinaggio lì, credendo che fosse davvero il centro del mondo e l’ombelico del punk-rock! In ogni caso, scrivere, è qualcosa che ho sempre fatto. In forme diverse. In modalità diverse. Dallo sfogo emotivo è diventato qualcosa che ho imparato ad addomesticare e controllare e che mi fa star bene. Mi diverte fare. Una sorta di puzzle o rompicapo quando si tratta di una scrittura “strutturata” come per canzoni che devono stare in una metrica o se devo inventare un claim / payoff per lavoro o se devo stare in un determinato numero di caratteri per i social. La narrativa, invece, è un altro discorso. Lì non ci sono limiti. Io ho delle vaghe idee in testa. Un concetto o qualcosa che vorrei raccontare. Mi metto lì davanti ad un foglio e so che ad un certo punto comincerò a scrivere e la storia verrà fuori un po’ come in un processo automatico e sensibile. Che rapporto ho? Vorrei poterlo fare sempre e in modo regolare. Con tutto il tempo che serve, ma purtroppo al momento o scrivo per lavoro o scrivo la sera (o di notte) dopo 9 ore in ufficio.
Il tuo esordio letterario è stato con il romanzo “Casseur: la lotta, l’ebbrezza e la Città Giardino”. Che ricordi hai di quel libro e di quel periodo della tua vita?
Ho dei ricordi assurdi e confusi. Ero così giovane e “Casseur” era nato per caso, assemblando tutto il materiale che avevo scritto praticamente dai 15 ai 18-19 anni. Dopo molto, per strani incroci del destino, è stato pubblicato che ne avevo 23 o 24. In verità volevo scrivere un libro da regalare alle mie amiche a Natale per raccontare i nostri 18 anni (la fine delle scuole superiori, il G8 di Genova e i primi drammi di cuore…). Lo mandai ad un collettivo di lettori, “iQuindici”, una costola dei Wu Ming e loro se ne innamorarono. Dopo averlo proposto ad una serie di piccole case editrici che ai tempi erano sensibili a certi temi e certe pratiche (come il copyleft), hanno trovato un editore che me lo ha pubblicato. Le cose non sono andate benissimo dal punto di vista umano con l’editore (cosa che mi accade ciclicamente!) e quindi ho interrotto i rapporti professionali e umani. Ai tempi credevo davvero che avrei fatto la scrittrice di lavoro e che pubblicare un romanzo fosse il primo passettino di un futuro certo e stabile nel mondo dell’editoria. La critica aveva reagito in modo molto positivo. Ma poi, finita l’università, ho passato anni e anni a lottare contro la precarietà professionale, casini personali e pur non avendo mai smesso di scrivere, purtroppo, ho relegato la scrittura ai rari ritagli di tempo che riuscivo a salvare dal delirio della quotidianità. Sentendomi magari in colpa perché rubavo il tempo alla gestione della casa o ai rapporti con le persone che avevo attorno. Però ho continuato a fare parecchie cose, sempre a caso! Fare cose a caso è la mia cifra stilistica!
Tempo dopo hai trasferito la scrittura sul web (il blog “discount or die”) ma poi è nato anche un libro/guida cartaceo sui prodotti da discount. Vuoi parlarcene?
Ecco… “Discount or die” è la prova più lampante e concreta di come, spesso, le cose mi accadano senza che io le vada a cercare. Il blog è nato come una goliardata tra amici. Ai tempi ero super squattrinata e studiavo copywriting e scrittura creativa allo IED (mi sono potuta permettere lo IED solo grazie a dei soldi ricevuti come risarcimento per la tragica morte di mio nonno in un incidente!) e ad una certa c’era questo art director della Ogilvy che ci ha fatto una lezione sul concetto di invertising, ovvero un nuovo modo di concepire la pubblicità ai tempi dell’internet. L’idea è quella che in un’epoca in cui siamo tutti connessi non ha più senso dire che ciò che vendo è bello o buono o santo, perché tanto i “consumatori” – concetto che lui rifiutava, per giunta. Così come rifiutava tutto il gergo militare o di guerra che si usa nella pubblicità o nel marketing – parlano tra di loro, creano comunità virtuali di scambio reciproco e prima di comprare cercano sul web il parere dei loro “pari”. Ed è per questo che oggi la pubblicità ti deve vendere un bel pacchetto di valori e elementi identitari, associandoli ad un prodotto. Far innamorare di un prodotto o meglio, di un brand, perché quel brand parla di noi, di quello che proviamo, di quello che sentiamo, di quello che vorremmo essere. E allora lì mi sono detta: basta vergognarsi di essere poveri e precari, rivendichiamo il discount e il nostro rifiuto (nato anche dalla necessità) di credere che spendere tanto sia necessariamente figo! Basta con la ricerca affannosa della ricchezza a tutti i costi e della realizzazione personale attraverso l’accumulo di carta-moneta! Poi, ai tempi, gestivo insieme al mio compagno un cineclub con baretto annesso e ci divertivamo a recensire birre di merda o snack assurdi proveniente dal mondo delle sottomarche.
E le fanzine? Ricordo quella fotocopiata che girava per Varese… Come si chiamava? “Nihilismi”!
Oh, merda… manco mi ricordo come e quando sia nata! Sicuramente eravamo al cineclub Domenica Uncut e sicuramente eravamo ubriachi. Poi il giorno dopo mi sveglio e la mia dignità (o tentativo di preservarla) mi fa mantenere fede alle promesse fatte o i progetti annunciati da ubriaca. “Nihilismi” è stato qualcosa del genere. Presumo. Era divertentissima e molto libera e trash. Si andava dalla saggistica (come la guida al diritto d’autore o allo squirting) alla narrativa distopica. Grandi firme. Grandi pseudonimi. Io mi firmavo Barbra Streisand e Jessica Fletcher! Se non fossi la cazzona autosabotatrice che sono, Nihilismi avrebbe potuto benissimo essere l’antesignano di “Vice” però meno furbo e più votato al non-sense. Ma come si è capito, credo, faccio spesso cose a casaccio e quando capita di imbroccarne una, faccio il possibile per farla andare male!
Per un periodo sei stata la front-woman di una band punk che ha girato tutta Europa. Cosa ci dici a riguardo?
Sono stati anni bellissimi e intensi. Cantare per me è stato qualcosa di… passami il termine: “mistico”. Mi ha rimesso in contatto col mio corpo, la mia femminilità e la percezione dello spazio che occupo nel mondo. La scena punk è meravigliosamente sconclusionata, irruente e sincera come me. Così sincera che troppo spesso ci si dimentica che ci sono verità convenienti e verità distruttive. Io ho scelto sempre di essere sincera, anche a costo di fare e farmi del male e, nel momento in cui non potevo più esserlo, ho capito che dovevo fare un passo indietro. Suonare in un gruppo punk, fare parte di un collettivo, è qualcosa che va fatto solo e soltanto se si è convinti al 100% o se si vive in un contesto abbastanza resiliente in grado di mettersi sempre e comunque in discussione. Per varie vicissitudini politiche e personali avevo bisogno di farmi da parte, scendere dal palco. Al momento, timidamente e in punta dei piedi, sto mettendo su un altro gruppo. Non abbiamo ancora un nome e abbiamo provato solo poche volte (anche perché c’è di mezzo il mio compagno, nonché chitarrista dei Drunkards, che vive a 300 km da qui), ma prima o poi tornerò a girare e cantare sicuramente.
Vuoi parlarci di “Brucia la Vecchia”?
Tra tutte le cose assurde e controproducenti e potenzialmente dannose che ho fatto nella mia vita, mi è capitato di scrivere diversi romanzi. Alcuni sono stati pubblicati e altri no. “Brucia la vecchia” per esempio, rientra nella seconda categoria e ho deciso di provare a farlo attraverso Bookabook, una piattaforma di crowdpublishing. Ché significa che non sarà un editore a scegliere se questo romanzo merita o no di finire nelle librerie, ma la comunità di lettori che si costruirà attorno a questa storia. Il libro racconta la storia di Nilde (la protagonista) che vive coi nonni a Colle Torto, un piccolo paese di montagna con le strade strette, tortuose e ghiacciate sei mesi l’anno. Orfana, vegetariana e solitaria, indossa il lutto per la morte prematura e violenta della madre, di cui non custodisce alcun ricordo all’infuori di una pigna di libri consumati, qualche disco e le bugie di nonna Adele e nonno Evaristo. «Mio padre non so chi sia. Credo sia un pezzo di cane che ci ha abbandonate» racconta. Eppure sarà una lettera di quel padre sconosciuto a svelare una menzogna lunga quindici anni e a catapultare la giovane Nilde indietro nel tempo, a quell’inverno in cui Lisa morì per mano dell’uomo che amava. Da qui inizia un viaggio fatto di verità nascoste, vite interrotte, sensi di colpa attraverso gli occhi spietati di una sedicenne a cui tocca il compito di giudicare, condannare e liberare dai peccati quegli adulti responsabili (direttamente o indirettamente) della morte di Lisa Malatesta. Sua madre. Come è nato questo libro? È nel 2009 che ho scritto la parola “fine” alla prima versione del romanzo. Da allora ho avuto a che fare con numerosi editori, agenti e neo-mecenati che mi hanno proposto di tagliare di qua, modificare di là, riscrivere e rielaborare per rendere la mia storia più pubblicabile, vendibile a attrattiva. La cosa però non è mai andata a buon fine. Perché insisto? Perché credo in questa storia e nel mio lavoro. Ho scritto “Casseur” che avevo 18 anni. È stato pubblicato che ne avevo una ventina. Da allora non ho mai smesso di scrivere anche se ben poco di tutto ciò che ho prodotto, ha visto la presunta legittimazione di un bollino Siae e di un codice a barre. Le mie parole hanno trovato casa, però, in fanzine fotocopiate e semi-regalate su tavoli sporchi di birra durante i concerti. …e hanno trovato casa nel web, raggiungendo molte più persone di quanto abbia fatto col mio primo romanzo. Ho deciso di usare una piattaforma di crowdpublishing per sperimentare quella che da molti viene considerata una legittimazione dal basso, anche se io preferisco parlare di orizzontalità. No, non è editoria a pagamento che mi fa abbastanza ribrezzo. E non mi sto manco pubblicando il libro da sola implorando la gente di prendere una copia per rientrare nelle spese. La vedo come una sfida! Le regole sono semplici. Ho 100 giorni per raccogliere 250 pre-order del mio romanzo. Ora sono al 41% e mancano un’ottantina di giorni. Se ottengo questo risultato “Brucia la vecchia” verrà pubblicato. Altrimenti chi lo ha prenotato riceverà la sua copia in tiratura limitata e tanti saluti, pacche sulle spalle e facciamoci una bevuta insieme quando ci vediamo. Ah, e poi c’è che mi galvanizzo tutta per le sfide e il mettermi in gioco e avere “l’ansietta adrenalinica” del buttarmi a fare cose a casaccio, e questa roba lo è senza dubbio.
E di “I mortificatori”?
Atra cosa nata a caso. Ho letto “On Writing” di Stephen King e lo ho trovato illuminante. Il sottotitolo è “il mestiere di scrivere”. Nel libro Stephen King racconta la sua vita come scrittore. Da quando, con dodicimila figli, pochi soldi e un lavoro di merda, scriveva nei ritagli di tempo. Della frustrazione dei rifiuti da parte delle case editrici. E del fatto che la moglie abbia raccattato “Carrie: lo sguardo di Satana” dal cestino della spazzatura perché credeva in lui e in quella storia. Quel libro distruggeva e dissacrava l’idea dell’artista tormentato, ingestibile e in balìa dell’ispirazione. Leggendo quel libro ho scoperto che scrivere è prima di tutto un mestiere. Non è solo talento o fortuna, ma l’impegno quotidiano e costante. Un vero e proprio mestiere artigiano. E allora ho provato ad applicare quel metodo (scrivere sempre, tutti i giorni, tot battute al giorno e al massimo poi cestinare e molte altre cose) e ho scelto la struttura del romanzo di genere proprio come sfida. Volevo stare dentro a quelle regole. Non scrivere più solo quando stavo male per sfogarmi, ma farlo con metodo e così ho imparato a farlo divertendomi. Così è nato un horror – noir divertente che uscirà il giorno di San Valentino per Agenzia X
Cosa ne pensi del futuro della carta? Hanno ragione quelli che la danno per morta?
No, non credo proprio. Credo anzi che potrebbe accadere quello che è successo per la musica. Basta produrre libri di merda e sprecare alberi per un cazzo. Che il libro torni ad essere un oggetto prezioso e da amare come un bel vinile! Per il consumo becero e massificato ben venga il digitale!
Tornando a Nihilismi… avevo appunto scritto un articolo che si chiamava dalla Dittatura della materia al feticcio del supporto.
I tuoi progetti per il futuro?
Voglio continuare a fare ciò che ho sempre fatto. Cose a caso. Fare cose a caso coi punx della Valle Olona! (vedi alla voce Olona Wasteland Punx)
Ora però devo traslocare. Dopo aver traslocato credo che dormirò un mese.
Poi voglio ricominciare a lavorare con impegno e costanza al mio nuovo gruppo. Scrivere scrivere scrivere. E arrivare al goal della mia campagna di crowdpublishing di “Brucia la vecchia”.