Geografia, case, confini, fame e tempo per il cuore di un cane (punk).

Racconto pubblicato sul numero 5 di LUNGIDAME.

Varese, Wasteland, 2019

Ci sono diversi modi per raccontare una storia, come forse quello più tradizionale e un po’ epico, che esige un incipit che suona più o meno così… C’era una volta a Napoli un piccolo cane randagio che venne adottato da un punk che tutti chiamavano Cioccolata. Egli gli diede il nome di un antico guerriero: Attila, e questa è la sua storia. 

Partendo quindi dal principio e seguendo un rigoroso ordine cronologico consequenziale fino alla parola “fine” che coincide, di solito, con un happy end che può essere anche dolce-amaro. Un’alternativa è partire dal medesimo finale dolce-amaro, o un altro momento X eletto a caso tra gli innumerevoli passi che percorrono una storia, e zig-zagare tra flashback, salti temporali e flussi di coscienza – più o meno coscienti – e svelare tutto ciò che ha portato a quel momento preciso in cui si decide di cominciare a raccontare. 

Il treno partì dalla stazione di La Spezia e Attila prese posto nel vagone affollato. Con sé non aveva bagagli né biglietto, perché Attila era un cane e questa è la sua storia. 

La scelta dipende da innumerevoli fattori. Nel secondo caso bisogna stare molto attenti a scegliere quel frammento preciso che si conficca come scheggia tra la ciccetta del cervello e tormenta il lettore. Uno shock che può essere superato soltanto scavando mooolto lentamente attorno alla scheggia, con ingenti quantità di sangue sbrodolato, fino a quando il corpo estraneo può essere rimosso grazie a quell’happy end agrodolce. Ma c’è un rischio! Introdurre dei salti temporali può essere rischioso soprattutto quando si parla di racconti molto brevi. Il lettore rischia di confondersi e, a tal fine, può risultare assai utile introdurre all’inizio di ogni paragrafo un riferimento circa il luogo e il tempo della narrazione. Come in una sorta di sceneggiatura per il cinema. 

Facendo ciò mi sono accorta che la storia di Attila, in verità, è la storia di un gruppo di amici e di quello che era il punk del primo decennio del 2000. Una storia ambientata in tanti spazi occupati che ora non esistono più. Luoghi in cui io non ho mai visto concerti, non ho preso sbronze, condiviso pasti, vomitato, scopato, suonato, dormito o fatto folli progetti per le nostre esistenze (in quegli anni stavo dietro ad un bancone a servire daiquiri frozen agli assessori cocainomani di Varese), ma che ho imparato a fare miei grazie al legame incredibile, e ancora vivissimo, delle persone coinvolte e la loro voglia di raccontare e raccontarsi per cui, davvero, non basterebbe tutto il fuoco su questa carta. Verrà il momento di farlo, lo prometto. Come ho promesso, da ubriaca, di scrivere questa storia, capendo solo nel momento in cui la scrivevo perché andava fatto.  

Lo farò attraverso la narrazione di chi ha conosciuto Attila – sì, un cane tra i mille mila cani punk – e ciò che mi è stato raccontato. Ho deciso di usare il “noi” perché ciò che resiste è un ricordo collettivo e una narrazione corale. Restano, inoltre, anche questi due occhi marroni maledettamente umani che mi guardano intanto che scrivo. Accanto a me c’è Wendy (da Wendy O’Williams), una delle figlie di Attila e della Doda. Lei, che è la fotocopia del padre ma col frisé e i pantaloni alla zuava, ogni tanto grugnisce, cambia posizione intanto che ronfa, si alza e mi dà delle musate e poi si rimette giù a schiacciare il pisolino n° 4.467.622 nei suoi tredici anni di vita. Nelle sue vene scorre il sangue di Attila di cui ora vi racconterò la storia.

ATTILA HA PRESO IL TRENO

Se c’era una cosa che si può dire di Attila è che era senza dubbio un bel cagnone, ma soprattutto che era furbo. A quei tempi il cane ce lo avevamo tutti, ma lui era uno che si distingueva dagli altri perché era un cane con una spiccata predisposizione per il cibo ed era in questa sua passione che vedevi tutta la sua arguzia. 

Napoli – case occupate Bonnot, 2003

Nella primavera del 2003 stavamo girovagando nel centro di Napoli senza una meta precisa. A quei tempi stavamo nelle case occupate al Bonnot. Ma non ce la passavamo proprio bene perché eravamo in guerra con gli zarri. Che tipo di problematiche avessimo con loro? Niente di ché… Semplicemente c’erano dei cuozzi che volevano mettere fine alle nostre esistenze. Ci volevano morti. Tutto qui. In ogni caso stavamo lì a passeggiare con alcuni dei nostri cani in Piazza Plebiscito e arriva questo cucciolo che frugava nella monnezza. Impavido e senza alcuna inibizione si avvicina agli altri cani: Birra, un pitbull enorme, e l’altro che tutti chiamavano Pecorone, un maremmano, che era un po’ la versione canina di Bud Spencer.  E vedi questo coso secco e sporco, che avrà avuto una manciata di mesi, che si avvicina super socievole alle due bestie senza farsi troppi problemi. “Toh, questo è il nostro cane” abbiamo detto e così è stato. Ai tempi eravamo in fissa con Abatantuono e così lo abbiamo immediatamente ribattezzato Attila. La sera stessa lo portammo a Torre Annunziata dalle nostre famiglie. 

Alessandria – Forte Guercio 

A causa degli zarri di cui sopra, nell’estate del 2003, ci siamo dovuti trasferire lontano. Molto lontano. Da Napoli siamo finiti ad Alessandria al Forte Guercio. Lì abbiamo conosciuto la Je e la Doda, la sua cagna. All’inizio, quando arrivava la Doda, Attila nascondeva il cibo perché non voleva farglielo trovare. Viveva sempre in uno stato di lotta per la sopravvivenza e scazzava spesso con tutti gli altri cani. Lì, tra i mille dedali e corridoi ad arco in mattoni del Forte Guercio, c’era quest’area in cui chiudevamo i cani per non farli menare tra di loro. La recinzione sarà stata alta tre metri, eppure lui riuscì a scavalcarla. Non era una cosa da cane! O meglio… sarebbe stato impossibile per un cane normale. Ma lui scappava sempre, ce l’aveva nel sangue ed è stato a La Spezia che ha trasformato quello che era un innato talento in una vera e propria arte della fuga.

La Spezia 

Dopo una serie di scazzi Alessandrini e fogli di via, ci siamo trasferiti a La Spezia. Lì avevamo una casa normale con un pezzettino di giardino, ma Attila non ci voleva stare. Anche lì era sempre in fuga. Spariva a volte per ore, a volte per giorni. A volte tornava da solo. Altre volte ci chiamavano dal canile. Anche in quella casa la recinzione era decisamente alta. Il cancello era alto quasi due metri e niente… lui riusciva a scappare lo stesso. 

Fu in quel periodo che cominciò a manifestarsi la malattia e, nello stesso lasso di tempo, Attila si rese protagonista della più eclatante tra tutte le sue imprese. 

 Era scappato come al solito ma, a differenza delle altre volte, da ormai un mese non ne avevamo più traccia. Avevamo tappezzato la città di manifesti: dalla piazza Brin dello spaccio e dei sudamericani in giro con le infradito dieci mesi l’anno, fino alla zona dei cantieri navali con i container impilati e i carriponte a infilzare il cielo e anche lì, nell’ex mensa occupata della centrale di carbone dell’Enel, sotto la titanica ciminiera dove sorgeva il MayDay, un campo rom e una riserva naturale di ratti protetti. Sui manifesti avevamo messo il nostro numero di telefono e continuavano ad arrivarci mille chiamate. Tanti falsi allarmi. Avevamo perso la speranza. Un giorno arrivò Marconcio dalla Toscana. Era già ultra-digital tecnologico e aveva un pc con la connessione ad internet! Ci aiutò a scrivere sui vari forum di animali smarriti. Non avevamo messo neanche la foto perché ai tempi non avevamo cellulari furbi e gigabyte di foto in digitale, eppure… 

Bologna – Street Rave Parade 2005

Quel weekend andammo a Bologna alla street parade. Nel pieno del delirio dei bpm vomitati dai muri di casse tra Psyconauti, cyber-macchine grottesche da Mutonia e stronzate fluo dei goani, ci arrivò una chiamata dal canile di Livorno! Non avevano neanche avuto bisogno della foto di Attila, poiché era bastata la puntigliosa e dettagliata descrizione dei sintomi della malattia per identificarlo. 

Livorno – 2005

La tizia del canile, che era anche una clinica veterinaria (o viceversa), ci disse però che dovevamo fingere di volerlo adottare. La ragione? Se avessimo ammesso che ci era scappato, avremmo dovuto pagare qualche centinaio di euro per le spese dell’accalappiacani e tutte le stronzate burocratiche del caso. La ringraziammo per la dritta e decidemmo, dunque, di fingerci degli sconosciuti. Andammo a Livorno con la Punto di Daniela (AnxTv) e appena arrivati fuori dalla clinica-canile, vedemmo questo distinto ed elegante signore che ne usciva con Attila al guinzaglio. Era proprio lui, il nostro cane, e questo stronzo lo stava portando chissà dove! Decidemmo di pedinarlo facendo degli appostamenti tipo spie. L’inseguimento terminò in un cortile, dove si fermò forse per farlo pisciare e per noi non fu più possibile nascondere la nostra presenza. Ci avvicinammo come furie verso l’elegantone (e rubatore di canidi) per salvare il nostro cane, che era magrissimo e sporco da far schifo ma, proprio nell’istante in cui correvamo verso Attila, ci venne in mente la gentile signorina della clinica-canile e il suo saggio consiglio. Ecco, ordunque, che ci ricordammo di dover fingere di non conoscerlo e volerlo adottare. Ci impegnammo duramente nel portare avanti la messinscena della brava coppia, dal cuore d’oro, che voleva fortissimamente adottare un cane che sembrava uno zombie, era ricoperto di piaghe infette e puzzava da morire. Amore a prima vista, senza dubbio… Ma nonostante tutti i nostri sforzi da attori neo-realisti, Attila ci riconobbe subito e cominciò a piangere e così noi, d’altronde. 

Da una parte c’era quella povera bestia che saltava, abbaiava, ululava e scodinzolava verso due “estranei”. Dall’altra parte c’eravamo noi: totalmente travolti dalle emozioni e dalla gioia violenta di averlo ritrovato. Beh, quell’uomo molto elegante non era un ladro di cani, bensì il titolare della clinica-canile e per pena o empatia o scazzo, decise di restituirci Attila bevendosi tutte le menzogne che gli stavamo vendendo. Lo portammo subito a casa, piangendo e ridendo, ma quel fetore, come il ricordo di questa avventura, rimase per giorni e giorni come tatuato nell’abitacolo della macchina. 

In ogni caso rimaneva da capire come Attila fosse arrivato a Livorno. Pare che il cane fosse salito su un treno diretto a Salerno e che lì sia rimasto nascondendosi sotto i sedili, in stile nun te pago (+ 2000 punti militant), fino a Livorno appunto dove era stato segnalato, catturato e consegnato alle autorità. Rimane il dubbio, un gap temporale, di circa un mese comunque. Quando ha preso il treno? Come ha fatto a prendere il treno? Dove voleva andare? Ma soprattutto come ha fatto ad arrivare fino a Livorno, partendo dal presupposto che non fosse esattamente un cane che passava inosservato?  

 La malattia, infatti, peggiorava a vista d’occhio. Girammo decine di dottori e la diagnosi era sempre la stessa: leishmaniosi – una roba che attaccano le zanzare – ma non era quello.  Attila era “soltanto” allergico praticamente a tutto. Si grattava, perdeva il pelo, si lacerava dove prudeva e le ferite s’infettavano. Avevamo provato a curarlo in ogni modo. L’unica cura più o meno efficace era il cortisone, ma ogni ciclo lasciava un Attila sempre più devastato e il sollievo durava ben poco. Giusto il tempo di riprendersi dagli effetti collaterali e tornava ad essere in balìa di quelle piaghe infette e pruriginose che gli facevano perdere il pelo e lo tormentavano. Non c’era nulla da fare: la pelle di Attila sembrava decomporsi attorno a quel corpo maledettamente vivo. 

Tanto vivo da esigere un pegno quotidiano e costante in fatto di pappa. Pregiatissima pappa! Perché gli davamo solo crocchini bio, super proteici e magici per cercare di limitare le sue reazioni allergiche. Si nutriva di robe che costavano più di tutto quello che mangiavamo e bevevano noi, ma non bastava mai! La sua voglia di mangiare era leggenda. 

Napoli – ???

Scoprimmo, per esempio, che durante le sue fughe, Attila aveva tessuto una rete capillare di legami con alcuni umani che prediligeva rispetto ai cani. Fondamentalmente perché con i suoi simili doveva spartire il cibo, al contrario dei bipedi che, di solito, ti danno da mangiare senza chiedere nulla in cambio. Soprattutto se questi sono ristoratori, macellai, salumieri o… Diciamo che si era fatto parecchi amici impiegati nella ristorazione o nella vendita al dettaglio (ma anche all’ingrosso) di alimenti per tutta la Penisola.

Una volta eravamo in piazza Dante a Napoli. Becchiamo questo tipo che riconosce Attila e che, guarda caso, aveva un ristorante e anni addietro erano diventati amici. Ma dai? E così era a Napoli come a La Spezia, Alessandria e Cesena. 

Confino, Cesena – ????

Al Confino c’erano questi due romagnoli che avevano una ditta di demolizioni. Lo avevano ribattezzato “Mezdì” (mezzogiorno) perché per lui era sempre l’ora di pranzare. Ma non è stato l’unico soprannome che si è conquistato… Una volta non lo trovavamo più e facemmo il giro di tutti i canili e arrivammo fino al canile di Cervia. Ed eccolo lì, il coglione! Lo riconosciamo e diciamo “Eccoti Cojo!” da coglione, appunto, come avevamo preso a chiamarlo ogni volta che scappava. Fatto sta che non ce lo restituirono subito e ci dissero che dovevamo tornare il giorno dopo e così fu. Tornammo a prendere Attila e cosa scopriamo? I tizi del canile lo avevano registrato esattamente come “Cojo”!

In ogni caso lui scappava sempre. Ogni sera spariva e lo trovavamo nel retrobottega del reparto carni di un distributore all’ingrosso di cibo. Attila scappava, spazzolava tutti gli scarti della macelleria, tornava al Confino e sistematicamente vomitava pezzi di mucca ovunque. E questo accadeva quasi tutte le sere fino al giorno dello sgombero del Confino. 

Ma prima di parlare di quel giorno, c’è da dire che se c’era una cosa per cui era ossessionato Attila, oltre al cibo, era odiare tenacemente, visceralmente e appassionatamente Rot, il cane del Gra. 

Confino – Cesena – 6 maggio 2018

Ricordiamo bene questa data perché è il giorno in cui hanno sgomberato il Confino. Arrivarono gli sbirri all’alba e, come è prassi, decidemmo di salire sul tetto. Eravamo lì infreddoliti, spaventati, in pigiama, preoccupati per le nostre sorti, della nostra casa e dei nostri cani e cosa cazzo vediamo? Uno sbirro cercava di catturare Rot col laccio intanto che Attila infieriva su di lui – la sua nemesi – mordendolo e schivando i fendenti che il povero Rot indirizzava, di risposta ed equamente distribuiti, tra gli stinchi di aggressore n°1 – sbirro – e il brutto muso di aggressore n°2 – Attila. C’era da non crederci. Anche in quel momento di totale delirio, ignorando gli sbirri, noi sul tetto, i megafoni, le botte, le camionette… tutto, Attila e Rot si dovevano menare. Esistevano solo loro due e l’odio reciproco che li legava indissolubilmente. Alla fine gli sbirri, nonostante le complicazioni, riuscirono a catturare Rot e tutti gli altri cani tranne Attila, ovviamente. Probabilmente perché gli faceva schifo o forse perché era davvero un prodigio nella fuga, fatto sta che il Nostro si rifugiò su una catasta di legna, abbaiando a ogni forma vivente che si avvicinasse, e lì rimase fino a quando non scendemmo anche noi dal tetto. Libero, contro ogni autorità, persino quella del buonsenso.

Bologna – Atlantide, 2010

Una volta eravamo stati ad un concerto in Atlantide al cassero di Porta Santo Stefano, prima dello sgombero del 2015, sul dorso della mano avevamo ancora il timbro che ci avevano fatto all’ingresso che diceva “Sono frocissima”. Sulla strada del ritorno recitavamo ad alta voce una sorta di nenia – sempre la stessa – con la quale pregavamo il dio canide protettore dei punx e dei cani punk di aver vegliato su Attila. Speravamo di poter tornare a casa e trovarlo lì – per una volta – e poter crollare esausti, senza dover ricominciare il solito can-can delle ricerche della versione canina di Houdini. Ma si sa che le divinità sono sorde alle nostre preghiere e si sa anche che nessuna divinità, soprattutto il dio canide protettore dei punx e dei cani punk, può fare nulla contro il libero arbitrio. 

Casello – 2010

E infatti sulla strada del ritorno, a pochi chilometri dal Casello, intercettammo il fuggiasco. Era scappato, ça va sans dire. E dove? Attila era nel retrobottega di un macellaio che gli aveva dato l’anca di una mucca. La scena costituiva un simpatico quadretto in stile “I mangiatori di patate” di quello schizzato di Van Gogh. Il macellaio, la moglie e i figli del macellaio e Attila, con le sue ferite aperte e puzzolenti, che si rosicchiava mezza mucca. 

Ci scaraventammo giù dalla macchina – ringraziando il dio canide dei punx e dei cani punk perché sì, è vero che era scappato, ma almeno non era disperso – e Attila ci vide. Stava lì, vicino alla sua anca di mucca e ai suoi nuovi amici, e sul volto aveva dipinta un’espressione… di candida sorpresa! Dai suoi occhi non traspariva la minima ammissione di colpevolezza o mortificazione! No, Attila era sorpreso! Del tipo: “oh, toh! Anche voi qui! Gradite un aperitivo? Dell’anca di mucca?” No beh, scherzi a parte, non avrebbe mai diviso quella mucca con nessuno. 

Villa Punk – ???

Fu il primo giorno dell’anno che Attila decise di fuggire per sempre. Avevamo passato San Silvestro a Villa Punk, in quel casolare in mezzo alla laida campagna emiliana, fatta di frutteti ai veleni, allevamenti intensivi e puzza di merda di maiale e altro veleno in cui trovavamo rifugio per le nostre anime stropicciate. Tornando a Bologna, come tante volte in passato, scoprimmo però che Attila non c’era più. 

Attila era scappato per l’ultima volta. Quel tipo di fuga da cui non si torna più indietro. Sì, il suo corpo era lì disteso sul divano e sembrava dormire, ma noi sappiamo bene in cuor nostro che quel giorno Attila ha preso il treno. Destinazione? La cosa non è affar nostro. 

Valeria Disagio

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