Racconto originale qui

Mi scrive Valeria. Lei dice:

l’altro giorno ho letto questo articolo su Repubblica e mi sono innervosita molto. Il non avere un compagno viene trattato come una sorta di patologia. L’essere sola, non come una scelta, ma come una difesa perché hai troppo sofferto. Di reazione ho scritto il racconto che allego. Non mi vengono in mente altri spazi in cui vorrei vederlo pubblicato. L’ho scritto di getto, a mano, senza praticamente cancellare nulla. L’ho trascritto nei ritagli di tempo che riesco a rubare a lavoro. Spero ti piaccia, spero possa trovare spazio nel tuo bellissimo mondo che seguo, leggo, ri-leggo perché mi fa pensare e perché fa dei pensieri parole. Con suprema-giga-interstellare stima, Valeria

E io le rispondo che non solo il racconto è bello ma che condivido il fastidio che quell’articolo le ha provocato. Possibile che le scelte delle donne debbano sempre essere trattate con disprezzo o con una strana pietas, la stessa destinata alle “zitelle” di una volta, con pioggia di stereotipi sessisti conseguenti?

Godetevi il racconto di Valeria e grazie per le meravigliose parole di stima che mi hai rivolto.

I’m unclean, a libertine. Without you I’m nothing

Placebo

Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua

Formulò la frase stiracchiando il suo corpo indolenzito per traverso lungo la diagonale di quel letto che aveva appena finito di dividere con un uomo, conosciuto la notte prima.

Lo aveva osservato dormire dopo essersi liberata dal suo abbraccio. Non aveva mai scopato prima di allora senza riconoscere come familiare il tocco delle mani sul suo corpo. La forma e il sapore dei baci. Il ritmo e la melodia del piacere dell’altro. Aveva sempre amato. Amato molto. Intensamente. Con abnegazione e fede. Era la prima volta che usava un profilattico per proteggere sé stessa dall’altro.

Quel rapporto senza esplicitazione del seme le era parso un gioco, una messinscena, bambini che giocano a prendere il thé con tazze invisibili e biscotti trasparenti.

Quel rapporto senza amore l’aveva liberata.

«È tutto qui» la meccanica del desiderio e del piacere a lungo scambiata per sentimento ora si svelava in tutto il suo inganno come la scenografia di una messinscena. Medesimo era il calore. Medesimo il piacere e la complicità. Per questa notte si erano appartenuti. Si erano dati. Si erano lasciati cadere all’indietro e avevano trovato braccia decise ad attutire il tonfo.

Si guardò allo specchio appoggiato alla parete – non aveva ancora trovato il tempo né la voglia di ancorarlo al muro – posò una mano in mezzo alle gambe. Era ancora bagnata. Aperta e vorace degli spasmi del grembo. Eppure voleva che lui se ne andasse il prima possibile.

Sopportò il rituale delle chiacchiere davanti ad una colazione raffazzonata. Non faceva la spesa da settimane. Lui mangiò molto, pure quella fetta biscotatta che lei non era riuscita a finire. Così come il thé che aveva lasciato raffreddare nella brutta tazza recuperara ad un mercatino dell’usato. Uscirono a piedi.

Prima di uscire lui l’aveva guardata rivestirsi. Sorridendo. Il suo sguardo l’aveva fatta sentire bella. In quegli occhi vi era una forma di gratitudine. Quel “grazie” non detto la fece infuriare. Ma lui le si era avvicinato e aveva posato le labbra sulle sue e quel calore l’aveva accesa nuovamente. Quelle labbra, quella lingua e quei denti con cui aveva danzato durante la notte.

Una volta giunti alla macchina, si abbracciarono e in quell’abbraccio si placò. Quel calore uguale a qualsiasi altro corpo. Sorrisero e si promisero di rivedersi al più presto. Mentivano entrambi. Quando l’auto svanì all’orizzonte, lei si rese conto di non ricordare il suo nome; sapeva solo come si faceva chiamare sui social network. Un nome idiota. Scoppiò a ridere nel parcheggio attirando l’attenzione di alcuni vicini di casa. Era di buon umore. Tirò fuori le cuffie dalla borsa per ascoltare della musica. Sfogliando la cartella dei file del lettore mp3 decise che non aveva voglia di qualcosa di preciso. Selezionò la riproduzione casuale delle tracce. Non lo aveva mai fatto prima.

Tornando a casa cambiò le lenzuola canticchiando una canzone. Si fece un lungo bagno e studiò il proprio corpo nudo immerso nell’acqua. Aveva numerosi lividi. Un ematoma nero a forma di sigaro nella parte interna del braccio. Un altro livido ricordava l’impronta di un bacio all’interno della coscia. Gli stinchi erano coperti di sfumature violacee. Succedeva sempre così quando andava ai concerti. Beveva fino a perdere la cognizione del dolore e si spingeva fino in prima fila sfidando i gomiti e le spinte del pogo esasperato. Quando era ragazzina era troppo magra e timida per spingersi così sotto il palco. Timorosa di farsi male. Di mani inopportune e di cadute sgraziate. Ora si faceva sollevare sulle braccia dei suoi amici. Più volte era caduta. Si era spaccata un incisivo. Si era fatta male. Eppure a rivivere quei momenti, ciò che provava, non era dolore ma una forma di amore che non può ferire. E le bastava. Un amore sincero e carnale. Un amore fatto di parole urlate al soffitto. Di sudore. Di musica a volumi sbagliati. Di spazi piccolissimi o vasti e fatiscenti. Sporchi e colorati. Liberi. Cessi inagibili. Birracce calde in lattine da mezzo litro e prontamente rovesciate a battezzare la continua nascita di sogni e piccole rivoluzioni. «Ce li stanno portando via tutti, pezzo dopo pezzo…» pensò ricordando le immagini delle divise, degli scontri e della resistenza fatta di cassonetti ed eroi solitari arrampicati sui tetti.

La vita, fuori da quei luoghi, era priva di amore.

«Amore, amore, amore…» era così che per anni aveva chiamato il suo compagno. Il suo solo compagno. Con lui aveva sognato di costruire un futuro soltanto loro. Con lui aveva deciso di fare a metà della propria esistenza.

«Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua» ripeté nella mente al supermercato, leggendo gli ingredienti di una confezione di biscotti che nascondevano uova e tracce di latte. Li lasciò sullo scaffale e passò alla confezione accanto. I suoi acquisti erano guidati da una rigidissima serie di regole, ma era la sua norma e soltanto il suo gusto a determinare la scelta finale.

«Mangio quello che voglio e quando voglio» pensò.

Era la sua quarta o quinta spesa fatta da quando aveva deciso di camminare da sola. Nonostante il flusso la portasse nella direzione opposta. Nella sua testa risuonava ancora l’eco delle barriere imposte ai gusti di lui. Ignorò l’eco. Comprò solo quello che piaceva a lei e immaginò di cucinarlo e mangiarlo da sola nella sua cucina. Passando davanti al reparto degli alcolici tirò dritto per evitare la moralizzante nausea del post-sbornia, ma una volta vicina alla cassa tornò sui suoi passi. Non aveva più alcolici in casa. A parte quella bottiglia di vodka che teneva da parte per un’occasione speciale. Non aveva alcuna idea di quale potesse essere la sua idea di “speciale” eppure la teneva lì. Aspettando.

La musica continuava ad isolarla dal mondo. In mezzo alla ressa di un sabato in un supermercato, si sentiva sola e separata da ciò che la circondava. Galleggiava e si spostava tra una corsia ed un’altra come un fantasma che non poggia i piedi al suolo. Libera dal peso della gravità. Qualcosa attirò la sua attenzione: una coppia a pochi metri da lei stava conversando davanti alle bottiglie di vino. Gesticolavano. Soprattutto le mani di lei. Disegnavano le parabole delle chiome degli alberi sconquassate dal vento. Decise di osservarli senza spegnere la musica. Non voleva origliare. Osservò l’aprire e il chiudersi della bocca di lei e di lui. Scorse la frenesia delle mani di lui nascoste nelle tasche dei jeans costosi, ma strappati e logori artificialmente. La scarpe da tennis di marca. Le ballerine di lei. Quei piedini raso terra che si puntavano contro un muro di rivendicazione. Aveva visto quella scena migliaia di volte. L’aveva vissuta.

Amici a cena. Bisogna scegliere il menu e abbinarci un vino. Cucineranno e puliranno a casa tesi ed eccitati. Berranno molto vino e passeranno una bella serata, nonostante la velata antipatia che lui prova per la ragazza del suo amico. Sparleranno degli assenti. Faranno in modo che non si creino buchi nella conversazione. Si congederanno quando almeno due persone su quattro cominceranno a sbadigliare rumorosamente. «Andiamo a nanna» dirà l’altra lei appoggiando una mano sulla spalla o il ginocchio di lui. I convenevoli dell’ultimo bicchiere, degli ultimi saluti, le ultime promesse. Si impegneranno di vedersi presto. Mentendo.

Quando la coppia del vino giunse al compromesso tanto agognato, lei decise di prendere le stesso bottiglie elette. Le avrebbe bevute la sera stessa. Magari avrebbe potuto invitare anche lei qualcuno a cena. Uno sprono a mettere in ordine. Casa sua era allo sbando. Avrebbe potuto invitare le sue amiche di sempre, quelle con mariti e figli di cui prendersi cura, raccontargli i dettagli pruriginosi della sua notte di eccessi e sesso con… Si ricordò il nome all’imporvviso: Roberto.

Alla cassa si presentò con sei bottiglie di vino, una confezione di biscotti vegani ed una scatola di preservativi. L’uomo della coppia del vino guardò ciò che scorreva sul nastro della cassa e alzò lo sguardo su di lei. Improvvisamente si vide attraverso gli occhi di un altro. Le calze strappate, la gonna molto corta, la maglietta di un gruppo crust svedese e i lunghi capelli corvini ormai grigi sulle tempie. I tatuaggi in vista e le rughe attorno agli occhi. Quarant’anni appena compiuti e tutta la vita davanti.

«Sono il tuo peggiore incubo e il più proibito dei desideri» gli disse con lo sguardo che lui abbassò.

Lei sorrise alla cassiera, pagò con la carta di credito e uscì sentendosi attraversata dalla corrente elettrica.

«Non permetterò mai più a nessuno di considerarmi sua» sussurrò con le labbra al suo riflesso nella vetrina.

Novembre, 2014

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