Vivo da sola. Il Comune mi ha fatto uno sconto del 30% sulla tassa dei rifiuti. La mia spazzatura è la manifestazione fisica della mia solitudine. Faccio fatica a riempire un sacchetto alla settimana. La tengo per una quindicina di giorni sul balcone fino a quando non sono certa di riempire un intero sacco viola. I primi tempi portavo quel mega sacco riempito solo da una misera busta leggere. Il sacco vuoto mi metteva tristezza se affiancato a quelli dei miei vicini stracarichi e sul punto di esplodere. Mi sentivo come se non esistessi, il non produrre rifiuti come prova della mia inesistenza. Non produco scarti, non vivo. Bevo un caffè la mattina. Riempio di acqua una tazza, due cucchiai di zucchero e due di caffè. Un minuto nel microonde. Una crostatina e la mia colazione muore producendo una singola confezione di plastica di 7cm per 7. A mezzogiorno mangio un toast. Altre due pezzi di plastica che rivestono le sottilette. Bevo un bicchiere d’acqua del rubinetto. Un altro caffè e una sigaretta. A cena mangio una zuppa liofilizzata. Un’altra busta di tretrapack. Questa è la mia spazzatura. Vivo da sola e lavoro in casa, per vivere leggo i libri degli altri. Vivo attraverso le loro storie. Non esco mai di casa. Fumo. La mia spazzatura è arricchita da una quindicina di mozziconi al giorno più svariati grammi di cenere.
Produco poca spazzatura. Il comune mi fa lo sconto del 30% sulla tassa dei rifiuti. La domenica sento i miei vicini di casa mangiare. Sono una famiglia nel vero senso della parola. Un uomo una donna, due figli, due macchine una moto una bicicletta un mutuo e probabilmente le rate degli elettrodomestici. In estate mangiano sul balcone. Io li ascolto. Ascolto il tintinnare delle loro posate e i loro discorsi. Il padre che dice “passami il sale”. La mamma che taglia la carne al figlio più piccolo. Li vedo di raro, ma li conosco. Conosco i loro orari. Sento quando si lavano e quanto ci mettono. Quando escono per andare a lavorare e quando tornano. Sento quando litigano e perché sgridano i figli. Lui è uno fissato col ciclismo, vedo dalla mia finestra che ogni sabato pomeriggio esce con la sua tutina sintetica e torna dopo ore sudato. Sento che si lava. Sento che dice “che fai di buono stasera?” alla moglie. Sento la moglie che canticchi quando stira. Quando mangiano sul balcone, in quelle calde giornate d’estate, a me sembra di essere in campeggio. Quand’ero piccola andavo sempre in vacanza con la roulotte. All’ora di pranzo sentivi tutto il campeggio in silenzio. Sentivi solo il rumore delle posate. Finito il pranzo le donne nei lavatoi lavano i piatti che portano dentro a bacinelle di plastica colorate. Gli uomini leggono il giornale e si addormentano sotto gli eucalipti. I bambini fremono per andare in spiaggia. Le due ore che devono aspettare affinché la digestione faccia il suo sporco lavoro sono interminabili. Sono le più calde della giornata. Il sole, di quelle ore, dicono che sia nocivo. Era bello il campeggio. Mi piacerebbe andarci qualche volta, ma mi spaventa l’idea di vita in “comune”. Una piazzola non basta per creare privacy e i campeggiatori sembrano convinti che si debba per forza stringere amicizia con i vicini di roulotte. Per non parlare della zona tende. Tutti giovani, pieni di fumo che sperano di scopare o trovare altro fumo. Per carità… non è che mi diano fastidio. A me piace la gente. Mi piace osservarla. Ed è come guardare un film o leggere un libro. Considererei fantascientifico e arrogante il desiderio di prendere parte allo show. Io sono una spettatrice. Questo è il mio ruolo. Credo sia una cosa di vitale importanza capire quale sia il proprio ruolo. Conoscersi a fondo. Rispettare la propria natura. Ho passato 25 anni della mia esistenza a cercare il mio ruolo all’interno della società. Non l’ho trovato. L’unica costante era quella di sentirmi a disagio. Fuori luogo. A mio avviso la parola disagio viene usta troppe volte in modo negativo. Il disagio, dal mio punto di vista, dovrebbe essere una condizione imprescindibile del vivere. E’ l’unico modo saggio per stare al mondo. Non accettare lo status quo, non assecondare mai le situazioni. Porsi in modo critico e non adagiarsi mai. Non rispettare le regole di un gruppo. Se non c’è disagio, non c’è io. Sentirsi a proprio agio in un contesto sociale, vorrebbe dire perdere il proprio “io” per diventare un “noi”. Il “noi” non funziona quasi mai.
O almeno, con me non ha mai funzionato. Ne ero in un certo senso rassegnata, ma oggi mi sento così sola che non ho voglia di mangiare, lavarmi, vestirmi. Ho paura che se passerò l’ennesima giornata chiusa in casa (da quanti giorni non esco? Quattro? Cinque?) potrei impazzire. Oggi è Domenica e voglio farmi un bagno, vestirmi bene e mettere il profumo. Uscire di casa per andare non so dove. Una volta fuori dalla porta deciderò. Una volta chiusa a chiave la porta dietro di me, mi verrà sicuramente l’ispirazione. E così accade. Incontro la figlia grande del mio vicino che è tornata dalla messa. E’ insieme alla madre e solo per oggi, decido di fermarmi a scambiare due chiacchiere. Non so neanche come si faccia, ma la cosa risulta più facile del previsto. Io sorrido e annuisco e la signora parla per tutte e due. Ora, rimane da capire, come riuscire a farmi invitare a pranzo. Dopo mesi ad ascoltare il loro rumori dei pasti, mi piacerebbe prendere parte a quella scenetta. Sarebbe come entrare a far parte del proprio serial televisivo preferito. Se mi chiedesse dove vado di bello alle 12 di una domenica qualsiasi, potrei dirle che mi sono accorta di avere finito il pane per i toast e che cerco un supermercato aperto. Ma dopo tanto tempo a nascondermi e ad essere schiva penso che non oserebbe tanto. Per fortuna c’è la figlia e i suoi dodici anni. “Ma tu stai sempre a casa? Non ce l’hai una mamma e un papà?” La madre la rimprovera benevola, ma in fondo in fondo, si vede che è più curiosa della figlia e vorrebbe sentire la risposta. Sono figlia unica e i miei genitori il giorno dopo che sono andati in pensione, si sono trasferiti al sud. Li vedo due volte all’anno. “Abitano lontano. Qui non ho nessuno.” Solo dopo aver pronunciato al frase mi rendo conto di quanto possa suonare triste alle orecchie di una bambina. Ma anche di una madre, con marito, figli, suocere, fratelli, genitori, colleghi… Infatti, in mezzo agli occhi le si forma una profonda ruga di compassione. Per la prima volta le scruto il volto con attenzione. Distolgo lo sguardo dalla punta dei miei stivali, che fisso da diversi minuti, e osservo i suoi zigomi. Non li avevo, mai notati. Ha gli stessi zigomi di Diamanda Galas. Lo stesso mento puntuto. Quegli zigomi e quel mento che mi fanno compagnia da anni intanto che mangio. Ho un poster di Diamanda Galas sul muro sui cui è appoggiato il mio tavolo. Dopo mesi a mangiare con il vuoto di fronte a me, ho pensato di colmarlo con una faccia. Il volto di Diamanda Galas di fronte al mio intanto che mangio. Ogni tanto scambio due parole con lei. “Ho messo troppo sale nell’acqua” o cose del genere. O guardando il tiggì, se sento notizie aberranti, la invidio e le dico cose come “Beata te che non abiti in questo paese.” E lei mi guarda così eterea e così lontana dai fatti terreni. Credo che Diamanda non produca spazzatura. Ma in lei, non è tristezza, è divinità.
Valeria Brignani